giovedì 2 luglio 2015

LA MISCELLANEA DI GIOVEDI 2 LUGLIO:

Il Sole 2.7.15
Tsipras rilancia: al referendum votate no
Il premier in tv conferma la linea dura per «ottenere un accordo migliore dai creditori»
di Vittorio Da Rold


ATENE Un voto negativo al referendum «non significherebbe dire no all’Europa, ma tornare a un’Europa di valori e ottenere un accordo migliore dai creditori», afferma ad alzo zero il premier greco Alexis Tsipras, invitando i cittadini ad esprimersi contro la proposta europea al prossimo referendum di domenica. Una nuova bordata contro Bruxelles a cui il premier conferma la linea dura di un voto convocato dal governo sulle condizioni poste dai creditori internazionali per riprendere i finanziamenti, ma che «non riguarda il restare o meno nell’euro». Sottile distinguo sofistico a cui pochi credono davvero, anche se il premier lo ribadisce in un discorso televisivo alla nazione rilanciato in diretta su Cnn, Bbc, Russiatoday e canali globali. La sfida della Grecia di Tsipras alla troika preoccupa e molto anche cinesi e americani oltre agli europei. Moody's ha tagliato il rating a Caa3 da Caa2, lasciandolo sotto osservazione per un ulteriore possibile downgrade: «Senza il sostegno dei creditori ufficiali - afferma l’agenzia - la Grecia farà default sul debito» detenuto dai privati.
«Questa situazione non durerà per molto. Salari e pensioni non andranno persi» cerca di rassicurare Tsipras, rivolto soprattutto ai pensionati senza bancomat, da tre giorni a secco. Solo ieri si sono aperti mille sportelli speciali per distribuire 120 euro in contante e una carta di debito. Sono giorni pesanti di difficoltà e paura per il popolo greco, in file ordinate a racimolare i 60 euro giornalieri agli sportelli automatici. «Da parte nostra noi cercheremo di rifiutare ciò che il memorandum ci chiede, cercheremo di fare del nostro meglio e di ottenere condizioni migliori», ha concluso Tsipras, 40 anni, nella battaglia più dura della sua breve carriera di premier da appena quattro mesi al potere, di fronte alla crisi peggiore del suo Paese, primo dell’area euro a entrare in default con il Fondo monetario internazionale e da ieri senza rete protettiva dei creditori internazionali. Senza contare i controlli dei capitali scattati da domenica sera.
Un incubo politico e finanziario per qualsiasi governo con i sondaggi che danno i numeri dell’incertezza del barometro del sentimento del paese spaccato in due e polarizzato da anni di campagna elettorale permanente. A quattro giorni dal referendum greco sul piano di salvataggio prospettato dai creditori, in Grecia il fronte del «no» si è confermato in netto vantaggio, ma quello del «sì» ha ridotto le distanze. Secondo un sondaggio realizzato dall’istituto Prorata e pubblicato ieri dal quotidiano Efimerida ton synatkton, il 46% dei consultati è contro l’accettazione del piano, il 37% vuole che il governo di Atene lo sottoscriva e il 17% non ha una precisa idea al riguardo. Prima della chiusura delle banche la stessa questione vedeva il «no» al 57%, il «sì» al 30% e un 13% senza opinione. Va ricordato che il sondaggio è stato tuttavia realizzato prima degli ultimi sviluppi del negoziato sul piatto dell’Eurogruppo, e che molti speravano in una soluzione di mediazione che oggi appare molto più compromessa.
Tutta un’altra musica a sentire Paulina Lampsa, responsabile delle questioni di politica estera di Kinina, il nuovo partito dell’ex premier George Papandreou, e fautrice del sì nella consultazione popolare. «I sondaggi si sono capovolti dopo il blocco dei capitali e ora sono i sì al 60% e il no al 40%, perché il referendum è incomprensibile, si riferisce a una bozza superata, non c’è tempo sufficiente per discuterne, e il “no”, oki in greco, precede il sì, nay, nella scheda stampata dal governo», dice mentre parliamo nella bella sede all’americana del partito, poco lontano da Piazza Omonia.
Anche Syriza, formazione che nasce dall’unione di dodici diversi gruppi politici, è spaccata al suo interno: la fazione radicale del ministro dell’Energia, Lafazanis, che ha il 40% dei voti nel comitato centrale del partito secondo l’ultima votazione, ha tirato un sospiro di sollievo quando ha sentito il discorso duro in televisione del premier, mentre i moderati di Papadimoulis e Ballafas, che contano per un 20%, si sono sentiti traditi perché puntano a un accordo in extremis con i creditori che eviti il referendum ad ogni costo. In mezzo c’è Alexis Tsipras, con la pancia del partito, che con il 40% dei voti interni su 40mila iscritti oscilla tra i due estremi e cerca far ricadere la colpa ultima della rottura delle trattative sulla troika. Strategia molto pericolosa, che potrebbe rivelarsi un boomerang nelle urne del referendum.

il Fatto 2.7.15
Luciano Canfora
“La Grecia esisterà anche dopo la Ue. Vogliono far cadere Syriza, è ingerenza”


PARLARE della perdita di un pilastro della cultura europea, qualora la Grecia dovesse lasciare l’Ue a seguito del referendum che si svolgerà domenica, non è corretto perché "la Grecia preesiste all’Europa ed esisterà anche dopo". A pensarla così è il filologo e professore emerito dell’Università di Bari, Luciano Canfora. Conversando con l’AdnKronos, lo studioso sostiene, infatti, che "la Grecia, per moltissimo tempo, è stata posta ai margini della storia d’Europa. Mi riferisco dice ai secoli precedenti, cioè fino al pieno Ottocento e poi in tempi a noi più vicini, durante la Seconda guerra mondiale". L’Italia, ricorda il filologo, "ha aggredito la Grecia e, in seguito, la Cia ha alimentato il Golpe dei colonnelli. La Grecia è sempre stata trattata per metà come terzo mondo e per metà come nostro subalterno. Il problema che viene posto dalla crisi monetaria è di altro tipo: alla Ue, che non è uno Stato federale ma è una moneta, conviene perdere questo pezzo? Gli effetti a catena sarebbero preoccupanti”. Per la situazione politica attuale, Canfora spiega "che la partita è apertissima e il disegno concreto è quello di far cadere Tsipras, siamo di fronte a un caso dice ironicamente di rispetto assoluto dell’indipendenza dei singoli paesi. Se invece Tsipras dovesse vincere, si dovrebbe costringere Christine Lagarde (presidente del Fmi, ndr) a mollare qualche soldo in più per tenere agganciata la Grecia all’Europa. Sarebbe un caso di finto altruismo e di vero egoismo", conclude.

Il Sole 2.7.15
Le Borse credono nell’intesa con Atene
di Maximilian Cellino


Piazza Affari maglia rosa d’Europa (+2,15%), il BTp rende meno del Bono spagnolo, spread a 143

A giudicare dai movimenti di ieri, i mercati puntano ancora su un accordo in extremis per la Grecia. O almeno così sembravano pensare, prima che l’ennesimo Eurogruppo partorisse l’ennesima fumata nera e sospendesse le trattative fino all’esito del referendum che si terrà il prossimo fine settimana. Il comunicato di quest’ultimo è però giunto quando almeno in Europa i listini avevano già chiuso i battenti, non c’è stato quindi modo di prendervi le misure: le reazioni, se ci saranno, si vedranno soltanto questa mattina. Wall Street, intanto, ha rallentato un po’ il passo sul finale, conservando soltanto parte dei guadagni di avvio seduta.
Nel frattempo occorre ricordare come in una giornata contrassegnata inevitabilmente da volatilità e tensione elevata, i listini azionari abbiano annullato parte delle perdite patite nelle sedute precedenti: Milano ha recuperato il 2,15% e altrettanto ha riguadagnato Francoforte, mentre Parigi (+1,94%) e Madrid (1,32%) si sono dovute accontentare di qualcosa in meno. Il bilancio avrebbe potuto essere anche migliore, ma l’intervento pomeridiano del premier greco Alexis Tsipras, che ha continuato a sostenere il “No” al referendum, ha in parte smorzato gli entusiasmi degli investitori.
Lo stesso scenario è più o meno andato in onda sui mercati del reddito fisso, dove si sono fatte scelte dettate da un certo ritorno di appetito verso il rischio da parte degli investitori: acquisti sui titoli di Stato periferici (Grecia compresa) e vendite sul Bund tedesco. Così lo spread italiano si è ridotto a 143 punti base, oltre dieci in meno del giorno precedente, per un rendimento del BTp decennale al 2,24 per cento. La Spagna resta qualche gradino sopra di noi (2,28% e spread a 147), mentre sono ovviamente i tassi dei bond ellenici ad aver fatto il passo indietro più rilevante: il rendimento a dieci anni resta però sopra il 14% e quello a due anni addirittura oltre il 34 per cento. Anche in questo caso il recupero era nettamente più sostenuto verso metà seduta, quando il mercato agiva in scia alle anticipazioni mattutine del Financial Times su una Grecia pronta ad accettare parte delle condizioni richieste dai creditori, e quando la nuova proposta di Atene doveva essere ancora discussa dall’Eurogrupo straordinario del pomeriggio.
Con lo stop alle trattative almeno fino a lunedì, salvo colpi di scena che in una «telenovela» del genere nessuno si sente di escludere, il mercato potrebbe paradossalmente eliminare in via temporanea una fonte di forte volatilità. Lo stillicidio di proposte e controproposte delle parti potrebbe lasciare spazio però a quello legato ai sondaggi, con gli investitori propensi a una fornire una lettura positiva per ogni dato che possa spingere verso il «Sì», e quindi verso un cambiamento politico nel Paese ellenico.
Ci sarà probabilmente modo per veder riemergere anche qualche tema macroeconomico, che ha timidamente fatto capolino ieri. Qualche indicazione favorevole proveniente dall’economia Usa, come si legge nella pagina a fianco, ha infatti aiutato il dollaro a consolidare un recupero che già si era palesato di prima mattina (quando era piuttosto l’euro a indebolirsi, come spesso accade quando l’avversione al rischio si fa meno pressante).
Sotto questo aspetto la situazione potrebbe farsi decisamente più interessante già oggi pomeriggio, quando con un giorno di anticipo rispetto al solito (domani negli Stati Uniti è festa) saranno pubblicati i dati sul mercato del lavoro di giugno, seguiti sempre molto da vicino per le implicazioni che possono avere a cascata sulle decisioni della Federal Reserve sui tassi di interesse. Gli investitori, forse, sentono il bisogno di tornare alla «normalità» dei temi di sempre.

Repubblica 2.7.15
Le due idee di “demos”
Tutto per il popolo così l’antica Grecia creò il paradosso della “democratìa”
Nella dialettica tra demos e kratos, tra cittadini e potere, il mondo ellenico ha sempre privilegiato un esercizio diretto, assai poco moderato, della sovranità
Una visione da cui deriva il referendum di domenica
di Silvia Ronchey


Nella Repubblica di Platone e in altre fonti quel concetto chiave non ha un senso positivo
Byron ha combattuto ed è morto per la libertà del Paese simbolo delle nostre radici
Renan. Nella sua Preghiera sull’Acropoli si rivolge ad Atene “Dobbiamo tornare da te”

Il popolo: una parola cruciale per il mondo greco, dove il termine democrazia si è creato a partire da due vocaboli: demos, “popolo” appunto, e kratos, che normalmente traduciamo “potere”. Ma il greco kratos ha una sfumatura precisa che ha poco a che fare con quell’idea di potere legittimo e moderato che normalmente associamo alla forma di governo chiamata dai moderni democrazia — la peggiore, secondo Churchill, ad eccezione di tutte le altre via via sperimentate. In greco kratos indica la forza nel suo esplicarsi violento. Nelle antiche fonti greche, in Tucidide o anche in Isocrate per non parlare della Repubblica di Platone o perfino di Aristotele, la parola democrazia non è attestata in senso positivo: è un bersaglio polemico, una «parola dello scontro», come l’ha definita Luciano Canfora, usata in primo luogo dagli avversari di un governo popolare con l’intento di mettere in luce il carattere prevaricatorio, asimmetrico e minaccioso di ciò che esprime: il potere dei “non possidenti”. La torsione semantica che questo nesso della lingua greca ha subito lungo i secoli, la sua trasformazione in bene assoluto della nostra percezione collettiva, è uno dei grandi prodigi della storia.
Sull’accezione greca di demokratìa si è interrogata e divisa da sempre la filosofia politica — da Hobbes a Rousseau, da Constant a Tocqueville, da Dewey a Popper — nell’interpretare e studiare una forma di governo dalla natura e dalle implicazioni molto diverse, storicamente connessa a un’altra Europa rispetto a quella che i greci hanno conosciuto e dispiegato nella loro mitologia e nella loro geografia. Se il nesso storico-culturale tra i concetti astratti di Grecia, Europa e libertà resiste ai secoli e ai sussulti del globo, la genesi delle forme moderne di democrazia è successiva allo scindersi, con la conquista araba, di due Europe: l’una legata al papa di Roma e poi al cosiddetto sacro romano impero di Carlo Magno, un’Europa occidentale e via via sempre più nordica, più feudale, più lontana dal modello classico; l’altra esplicata in quella dislocazione e continuazione orientale del legittimo impero romano che fu Bisanzio, patria dello statalismo, dell’egualitarismo, della continuità nell’applicazione del diritto, la cui formula geografica, dopo l’islamizzazione del Nordafrica, si fece sempre più europea, ferma restando però la vocazione geopolitica di apertura, ibridazione e assimilazione in un’unica civiltà dei popoli e delle culture del sud e dell’oriente del mondo.
«Il mondo potrà salvarsi solo tornando a te», scriveva Ernest Renan nella sua Preghiera sull’acropoli, rivolgendosi alla città di Atene, al suo nume eponimo, la dea Atena, l’archegèta, «l’ideale che si incarna nei capolavori del genio umano». Il ritorno che Renan prospettava non era solo quello, ancora oggi atteso, dei marmi del Partenone, che immaginava riportati al suono del flauto in una lunga processione sacra dalle città del nord — Parigi, Londra, Copenhagen — fino alla soglia sudorientale di quella casa comune che già gli antichi chiamavano Europa. «Preferisco essere ultimo nella tua casa», scriveva, «piuttosto che primo altrove». Non si trattava solo della restituzione di spoglie archeologiche tanto simboliche quanto materiali. Renan auspicava anche il ritorno, da parte degli europei del nord, a un principio ideale, non necessariamente economico o razionale, ma essenziale: «Mi aggrapperò alla gradinata del tuo tempio, dimenticherò ogni disciplina che non sia la tua. Cosa più difficile: per te diventerò, quanto potrò, parziale».
Il ritorno all’ideale dell’antica esperienza greca passava per l’accettazione della Grecia contemporanea, del suo linguaggio, delle sue debolezze, dei suoi difetti: «Amerò solo te. Imparerò la tua lingua, disimparerò il resto». Anche a costo della rinuncia a una razionalità moderna: «Tutti coloro che fin qui hanno creduto di avere ragione si sono sbagliati, lo vediamo chiaramente. Possiamo davvero senza folle tracotanza credere che il futuro non ci giudicherà come noi giudichiamo il passato?». L’omaggio all’Acropoli che Renan nel 1876 auspicava nei Souvenirs d’enfance et de jeunesse non sarebbe stato facile per i nordici colonizzatori «di un mondo più grande», che avevano visto «le nevi del polo e i misteri del cielo australe». Quante difficoltà prevedeva già allora Renan; quante inerzie mentali da superare. E però, pregava, rivolto al tempio sull’Acropoli: «Fermo in te, resisterò ai miei consiglieri fatali, allo scetticismo che mi fa dubitare del popolo».
Un terzo modello di Europa, che recuperasse questa tradizione come sola forma di pacificazione possibile tra le due anime europee sempre più distanti tra loro era stato già preconizzato, prima che da Renan e dai suoi contemporanei, dalle avanguardie colte il cui simbolo è Byron, che per la libertà della Grecia diede la vita; già Gibbon, lo storico inglese della decadenza e caduta dell’impero romano, scriveva: «Sia concesso al filosofo di ampliare la visione e di considerare l’Europa come una grande repubblica, i vari abitanti della quale sono giunti quasi allo stesso livello di civiltà e di cultura». Per questi intellettuali la Grecia non era solo la bandiera dell’occidente ma lo spalto estremo di un modello europeo alternativo a quello nordico, capace di coniugare l’ideale classico a quello bizantino: come esplicita anche Renan, alla fine della sua Preghiera sull’acropoli , includendo nell’invocazione la cupola cosmica di Santa Sofia a Costantinopoli, ulteriore simbolo di una larghezza di civiltà «abbastanza vasta da contenere una folla» incessante di popoli.
Con la caduta, all’inizio e alla fine del Novecento, degli imperi — quello ottomano a sudest, quello zarista, poi sovietico, a nordest — , questo terzo modello di Europa è approdato al suo collaudo politico. Il referendum cui i cittadini greci sono chiamati nella giornata di domenica può conside-rarsi, da un lato, una grande e plateale messa in scena di due diverse filologie della democrazia; d’altro lato, un’eco dell’appello di Renan ai governanti dell’Europa nordica: resistere allo scetticismo, ai calcoli e alle abitudini oligarchiche; non dubitare del popolo, dei non possidenti, non paventare il potere che abdica alla delega a favore di quell’antica e temibile espressione del kratos popolare che è lo strumento referendario.

il Fatto 2.7.15
Crisi greca, due o tre cose da imparare
di Bruno Tinti


Pare che Tsipras abbia fatto concessioni sostanziose, 8 miliardi di risparmi per il prossimo anno. Se l’Ue accetterà e se il piano sarà davvero attuato, magari di Grexit non si parlerà per un paio d’anni. Nel frattempo l’Italia ha un’occasione per riflettere. In Grecia, da sempre, l’evasione fiscale è elevatissima: secondo il Fmi, si tratta di 30 miliardi all’anno, pari al 10% del Pil. Anche il “nero” è elevato: 25 % del Pil. Un terzo dell’economia greca non paga le tasse. Le spese improduttive sono altrettanto elevate: l’80% della spesa pubblica andava in pensioni e stipendi. È per questi motivi che i bilanci dello Stato sono stati falsificati: non c’erano le condizioni per entrare nell’euro; il rapporto deficit/Pil, che non avrebbe dovuto superare il 3%, era pari – in realtà – al 12%. Una volta entrata in area euro, però, la Grecia ha avuto bisogno di sempre maggiori quantità di denaro, dovendo rispettare i parametri Ue. Da qui un indebitamento che l’ha portata al disastro attuale. Secondo Bankitalia, l’evasione fiscale italiana è pari al 39% del gettito fiscale annuo (per il 2014, circa 500 miliardi). Si tratta di 195 miliardi di euro, l’ 8,86% del Pil. Il “nero” (il Sole 24 Ore) ammonta a 333 miliardi, il 15,14 % del Pil. Dunque il 24% dell’economia italiana non paga le tasse. Quanto alla spesa pubblica per stipendi e pensioni, secondo la Cgia di Mestre, essa è pari a circa 700 miliardi, il 43% del Pil. Questi dati non sono molto dissimili da quelli greci. Ciò che ci differenzia è una spesa pubblica improduttiva meno elevata e – almeno lo si spera – bilanci dello Stato non truccati. Ma ciò che ci accomuna è la dimostrata incapacità a invertire questa tendenza. Non sarà domani e forse nemmeno tra un anno, ma la bancarotta italiana è probabile. LA CLASSE DIRIGENTE italiana non ha dimostrato né consapevolezza del disastro né capacità per farvi fronte. È impegnata in una costante guerra tra fazioni per la conquista e il mantenimento del potere. L’interesse pubblico è all’ultimo posto nella gerarchia delle sue scelte. Ma ancora più grave è l’atteggiamento dei cittadini, ognuno chiuso in un individualismo che tutto giustifica: l’evasione fiscale, ma anche la corruzione, il falso in bilancio, il voto di scambio, il riciclaggio. Il bene comune – anche per loro – è all’ultimo posto di ogni scelta. Eppure ciò che sta avvenendo in Grecia dovrebbe scuotere le coscienze della politica e preoccupare i cittadini. Davvero vogliono trovarsi in una disperata coda agli sportelli bancomat per prelevare 60 miseri euro al giorno? È noto quello che obiettano: la politica si moralizzi, assicuri servizi pubblici adeguati, riduca i suoi costi; e solo dopo ci potrà essere chiesto un comportamento civico diverso dall’attuale. Posizione ipocrita e mistificatoria semmai ce n’è stata una. I voti confluiscono sempre su persone indegne; i servizi pubblici non saranno come quelli finlandesi (però la nostra sanità pubblica garantisce un’assistenza che la quasi totalità degli Stati occidentali non conosce), ma sono comunque nella media di quelli europei; i costi della politica sono vergognosi ma costituiscono una frazione minima della spesa pubblica complessiva. La verità è che la nostra gente è incapace di pensare al benessere collettivo come presupposto necessario del benessere individuale: non è con questa genetica malata che sfuggiremo al nostro destino.

Repubblica 2.7.15
Romano Prodi
“Atene non uscirà dall’euro ma senza autorità federale sarà proprio l’Unione a fallire”
L’ex premier italiano non crede nella Grexit: “Il danno sarebbe troppo grande, si troverà un compromesso. Un’occasione per rilanciare l’Europa, ora senza forza e autonomia. Non possiamo dimostrare di essere incapaci di risolvere un piccolo problema come quello ellenico, sennò a che cosa serve la Ue?”
intervista di Andrea Bonanni


BRUXELLES . Qualunque sia l’esito del referendum, la Grecia alla fine non uscirà dall’euro. Tuttavia l’Europa, se vuole salvarsi, deve dotarsi immediatamente di una forte autorità di tipo federale, altrimenti sarà votata al fallimento. Di fronte al precipitare della crisi è questo il pensiero di Romano Prodi, uno dei “grandi vecchi” europei che guarda con preoccupazione, e non poca amarezza, ai sussulti che da Atene stanno dilangando in tutta la Ue.
«Comunque vada a finire il referendum, il danno di una uscita della Grecia dall’euro sarebbe troppo grande. Si troverà un compromesso. Se tutto il mondo, da Obama ai cinesi, continua a ripeterci che bisogna trovare un accordo, vuol dire che c’è il diffuso sentimento di una catastrofe imminente che occorre evitare ad ogni costo».
Presidente, tutti dicono che la moneta non è a rischio, neppure in caso di Grexit. Possibile che un’economia che pesa per il due per cento del Pil europeo affondi l’euro?
«Non lo affonderà, perchè si farà un accordo. Ma il pericolo è reale. Proprio perchè la crisi è così piccola, un fallimento sarebbe clamoroso. Una istituzione che non riesce a governare un problema minuscolo come la Grecia che fiducia può dare sulla sua capacità di gestire un problema più grosso? Oggi non è all’orizzonte, ma tutti sappiamo che, prima o poi, arriverà. E lo sanno anche i mercati. L’uscita della Grecia non sarebbe tanto un danno economico, quanto un vulnus alla credibilità politica dell’Europa. Quando, da presidente della Commissione, dicevo che il parametro del 3 per cento era una follia, e che occorreva invece una politica di integrazione dei bilanci, mi hanno accusato di minare la credibilità dell’Europa. E’ urgente preparare le istituzioni ad affrontare gli eventi futuri, altrimenti non sono sicure nè credibili. Purtroppo le istituzioni europee sono un pane cotto a metà. Per questo non sono in grado di affrontare le crisi che ci aspettano, nè di affermarsi nel mondo» Eppure non sembra esserci nell’aria molta voglia di compromesso...
«Un non compromesso è un evento impensabile. Voglio vedere come Merkel, Juncker o Lagarde possono prendersi la responsabilità di lasciare la Grecia fuori dall’euro. Certo, l’irrazionalità della Storia è sempre in agguato. Anche la Prima guerra mondiale scoppiò per un piccolo incidente. Ma voglio sperare che Atene non sia la nostra Sarajevo».
Come si è arrivati a questo ?
«Perchè questa vicenda è stata gestita da protagonisti nazionali che l’hanno strumentalizzata per puri scopi di politica interna. Le due parti stanno continuando a parlare solo ai loro elettori.
E questo ha impedito che si adottassero soluzioni di buon senso» Quali?
«Mia madre diceva: dai cattivi debitori si prende quello che viene. Fin dall’inizio si sapeva che la Grecia non avrebbe mai potuto restituire per intero il suo enorme debito. Un compromesso di buonsenso, all’inizio di questa crisi, sarebbe stato un taglio del debito sopportabile per i creditori e l’imposizione di una austerità sopportabile per i greci. Ma non è successo perchè hanno prevalso logiche nazionali: gli estremisti di Tsipras da una parte, e i bavaresi dall’altra. Così si è continuato a pasticciare. Che cosa c’entra la troika in questa faccenda? Che cosa c’entra il Fondo monetario internazionale? Perchè abbiamo trattato un paese dell’Ue alla stregua di Portorico? Se l’Europa non sa risolvere da sola un problema piccolo come quello greco, a che cosa serve l’Europa? La verità è che, quando non si vogliono prendere le proprie responsabilità politiche, si cerca di scaricarle su strutture teoricamente tecniche» Tutta colpa degli europei?
«Da parte greca si è fatto lo stesso. Quando Papandreou voleva indire un referendum per mettere i greci davanti alle proprie responsabilità, è stato costretto a dimettersi dopo un durissimo attacco dei principali leader europei. Così la politica greca è andata verso una deriva estremista. Tsipras ha approfittato della tragica caduta dell’economia per vincere le elezioni sulla base di un programma assolutamente irrealistico, facendo promesse impossibili. E questo è successo perché si sono eliminate le posizioni di mediazione, come quella di Papandreou».
Come è stata possibile una simile catena di errori?
«Perché manca una vera autorità europea. La Grecia è entrata nell’euro perché ha potuto ingannare vergognosamente sui dati reali della propria economia grazie al fatto che Francia, Germania e Italia avevano rifiutato il doveroso controllo europeo sui bilanci, magari affidato alla Corte dei conti. Se ci fosse stata una forte autorità federale, probabilmente Atene non sarebbe mai entrata nell’unione monetaria, o sarebbe entrata ad altre condizioni. Invece noi non abbiamo voluto un’autorità federale. Abbiamo delegato ogni potere ai leader nazionali, che sono ostaggi dei loro problemi di politica interna».
Ma allora qual è la soluzione?
«Occorre creare una vera e forte autorità europea, che è stata continuamente messa in un angolo dai governi nazionali. Se l’Europa si vuole salvare deve reagire immediatamente dotandosi di una autentica autorità federale. Alla fine anche la Merkel lo ammette, quando afferma che l’Ue può vivere solo se si lavora insieme. E’ chiaro che, dopo il referendum, quale che sia il risultato, si deve fare un balzo in avanti. E non è solo la crisi greca che ce lo chiede. Guardi all’Ucraina, guardi all’immigrazione. L’Europa non riesce ad avere un ruolo autonomo e forte. Così non può continuare. Questo secolo sta distruggendo il più bel progetto che era sbocciato dalle macerie del secolo precedente. Dobbiamo impedirlo».

La Stampa 2.7.15
Anche l’Europa deve cambiare la sua politica
di Bill Emmott


Dove va l’Europa a questo punto, dopo il referendum greco del 5 luglio e il suo fallimento nel rimborsare il Fmi? La risposta è che non ha davanti a sé nulla di buono, dal momento che qualunque cosa accada questo è stato un grande fallimento per l’Unione europea, nonché un enorme fallimento per la Grecia e per il governo che aveva eletto solo a gennaio. Ma bisogna cominciare adesso a pensare al da farsi così che il fallimento non si trasformi in un disastro.
Molto dipende ancora dal modo in cui andrà il voto e quali passi saranno intrapresi dal governo greco subito dopo il suo esito. Se gli elettori greci a sorpresa voteranno «Sì» per accettare i termini offerti dai creditori del Paese e rimanere nell’euro, il prossimo passo dovrà consistere nelle dimissioni del governo di Syriza guidato da Alexis Tsipras e in nuove elezioni politiche.
Questo passo, tuttavia, comporta un rischio reale che il Paese finisca in balia della violenza politica. Quindi dall’estero sarebbe saggio intervenire con un generoso supporto finanziario a breve termine come gesto di buona volontà, per motivi umanitari.
Sembra più probabile, tuttavia, che il voto sarà «No», dato che lo stesso governo sta facendo propaganda per questo risultato.
Se è così, sulla base del suo comportamento degli ultimi tempi, dopo il voto, probabilmente il governo Tsipras tenterà inizialmente di riprendere i negoziati con i suoi creditori, pur avendo dichiarato il default sul debito. Cercherebbe, in altre parole, di interpretare il voto come una chiamata a rinegoziare restando nell’euro.
A quel punto, però, gli eventi si susseguiranno in fretta e i decisori politici avranno bisogno di muoversi altrettanto velocemente. Con controlli sui capitali in atto e un accesso limitato ai conti bancari, l’economia potrebbe ben presto entrare in stallo e nei risparmiatori crescerebbe sempre di più la preoccupazione per la distruzione della loro residua ricchezza. In tali circostanze, la Grecia avrebbe bisogno di muoversi in fretta per introdurre rapidamente o una nuova moneta o una valuta parallela da utilizzare accanto all’euro, e dovrebbe nazionalizzare le banche greche.
Tuttavia, per fare questo, continuando a pagare gli stipendi e le pensioni dei lavoratori del settore pubblico, avrebbe bisogno di finanziamenti di emergenza. Il modo migliore sarebbe che l’Unione europea e gli Stati Uniti di comune accordo riunissero un consorzio internazionale di governi per fornire fondi - preferibilmente un consorzio che comprenda la Cina e la Russia. In caso contrario, la Grecia diventerà una merce di scambio tra le superpotenze. Tutto ciò che può essere fatto per evitare un simile risultato dovrebbe essere messo in atto.
Il miglior approccio da parte dell’Unione europea, e in particolare dell’eurozona, sarebbe collocare tali aiuti in un quadro che riconosca l’uscita della Grecia dall’euro mantenendolo in Europa, e offra un eventuale percorso per un ritorno all’euro. Peraltro improbabile. Ma sarebbe significativo in termini politici. E dopotutto darebbe semplicemente alla Grecia lo stesso status di tutti gli altri membri dell’Ue che non sono nell’euro, a eccezione di quelli (come il Regno Unito), che hanno esplicitamente escluso la loro futura adesione.
Chiaramente, la priorità immediata dopo un «No» il 5 luglio sarà la stabilizzazione della Grecia. Ma la priorità a lungo termine deve essere la stabilizzazione dell’euro stesso. Perché il fallimento sulla Grecia è un fallimento che promette di influire sull’euro in due modi, principalmente.
In primo luogo l’uscita della Grecia conferma ciò che i mercati finanziari hanno sempre sospettato: che l’adesione alla moneta unica non è irrevocabile.
In effetti, se la Grecia supera l’emergenza economica e trova un percorso di recupero usando il default del debito e la svalutazione, come ha fatto l’Islanda dopo il suo doloroso periodo 2008-09, in ogni futura crisi economica inizierà la speculazione (e il dibattito politico sarà permanente) sull’opportunità per un altro Paese di seguire con successo la stessa strada.
Poiché tutta l’Europa dovrebbe sperare che la Grecia trovi un nuovo percorso verso la prosperità, l’eurozona dovrebbe pensare sul serio a come affrontare non solo il fallimento, ma anche questa forma di successo.
Il secondo modo in cui l’esperienza greca si ripercuoterà negativamente sull’euro sta nel fallimento della politica economica pan-europea che sottintende. Finora questo fallimento è stato negato, da troppe persone, soprattutto nei Paesi creditori. Ma la dura realtà e che a sette anni dall’inizio della crisi finanziaria, l’Unione europea ha ancora più di 23 milioni di disoccupati mentre gli Stati Uniti (la cui popolazione è circa due terzi di quella dell’Ue) ne hanno solo 7 milioni. L’insistenza sull’austerità fiscale universale, anche nei Paesi creditori solventi, è la ragione di questo fallimento.
La ripresa dell’economia europea si sta rivelando troppo lenta per affrontare la disoccupazione e la perdita di speranza che opprime la generazione più giovane di tutta l’eurozona. Lo shock greco ora la renderà ancora più lenta. E fino a che sarà così la reazione politica contro le politiche attuali, in Francia, Spagna, Italia e molti altri Paesi, potrà solo rafforzarsi. Dopo Tsipras nel 2015, dobbiamo pensare a Marine Le Pen nel 2017.
Per questo motivo, la migliore risposta allo shock greco sarebbe quella di cambiare politica, anche senza esplicitamente ammettere che questo è ciò che si sta facendo. Le norme fiscali non possono essere cambiate adesso, dato che sono state introdotte per la Grecia. Quindi è necessario un nuovo pacchetto di politiche, che disponga attorno a quelle norme un approccio positivo per una ripresa economica più rapida e rafforzi la solidarietà e la coesione della zona euro.
Tale pacchetto può prendere due linee politiche esistenti e semplicemente ampliarle e renderle più ambiziose: la liberalizzazione del mercato unico, per i servizi e l’economia digitale; e un programma di investimenti pubblici per la ricostruzione delle infrastrutture e soprattutto per una rete a livello europeo per l’elettricità e il gas. Se si potesse concordare un programma del genere, con finanziamenti organizzati collettivamente al di fuori delle normali norme fiscali, anche la Grecia potrebbe esservi inclusa.
In aggiunta, tuttavia e legato a queste due politiche, l’eurozona dovrebbe dare il via a un programma graduale per sostituire parte dei debiti sovrani dei Paesi membri con Eurobond supportati collettivamente. Questa proposta è stata contrastata per molti anni dalla Germania. Dev’essere subordinata alle riforme strutturali e legata a severe regole di bilancio. Ma è l’unico modo per rendere la moneta unica una vera unione monetaria. Tutti per uno e uno per tutti: questa è l’unica parola d’ordine per l’euro che possa funzionare nel lungo periodo.
traduzione di Carla Reschia

La Stampa 2.7.15
Matteo Renzi
L’intesa con la Merkel su Grecia e immigrati
di Marcello Sorgi


Caduta proprio nel giorno del “no” dell’Eurogruppo all’ultima proposta di Tsipras, la visita di Renzi a Berlino ha confermato la piena identità di vedute del premier con la Merkel. Insieme, e in disaccordo con il presidente francese Hollande, scommettono sul fatto che il primo ministro greco uscirà travolto dal referendum e che questo timore lo abbia spinto a tentare la mossa estrema che la Cancelliera ha respinto.
Ribadita a piene lettere nella conferenza stampa che ha seguito l’incontro, questa intesa a discapito della Francia lascia sperare che Renzi abbia ottenuto qualcosa su un altro piatto dei negoziati: la questione degli immigrati che è stata solo temporaneamente oscurata dall’escalation della crisi greca, e che il premier immagina possa riproporsi e pesare sull’estate difficile del governo.
Renzi ha fatto di tutto per minimizzare l’entità delle conseguenze di un eventuale default greco (confortato in questo anche dal fatto che i mercati ieri erano in ripresa dopo lo scivolone di lunedì), ma ha tenuto a dire che lui un referendum come quello di Tsipras non l’avrebbe mai fatto e che comunque l’Italia, grazie alle riforme approvate (e lodate pubblicamente dalla Merkel), a cominciare da quella del lavoro, è ormai fuori pericolo.
Un atteggiamento ostentatamente ottimista che ha rinfocolato le accuse del fronte trasversale pro-Tsipras che va da Salvini ai 5 Stelle, passando per la minoranza Pd e per Sel.
Le opposizioni si preparano addirittura a inviare delegazioni ad Atene domenica, in segno di solidarietà con il governo greco che ieri ha ribadito l’appello al “no” alle richieste dell’Europa per far continuare il piano di aiuti. La sensazione tuttavia è che la partita non si chiuderà domenica, e solo una schiacciante vittoria dei “si” potrebbe mandare a gambe per aria Tsipras e i suoi ministri.
Mentre non è detto che un eventuale sfondamento dei “no” avrebbe come effetto immediato la temuta “Grexit”, l’uscita di Atene dall’euro. Le trattative e le turbolenze connesse sono purtroppo destinate a durare.

Repubblica 2.7.15
La scelta di Renzi tra Angela e Alexis
Palazzo Chigi e la carica degli anti-euro di casa nostra
Il premier spera in un accordo in extremis: ma tra Merkel e Tsipras prevale la coesione europea
di Stefano Folli


PIÙ passano i giorni e più è evidente la difficoltà di Tsipras. Un referendum lanciato per ragioni domestiche, pur presentato come una sfida epica all’Europa tedesca; e adesso il timore che la bomba, cioè il voto di domenica con il suo esito incerto, esploda fra le mani dell’artificiere. Il primo ministro di Atene aveva bisogno di chiudere la bocca ai suoi oppositori interni, tutti pronti a rimproverargli qualche cedimento alle richieste dei creditori. Con l’annuncio del referendum, di fatto un plebiscito su di lui, Tsipras ha cercato di regolare i conti dentro Syriza. Ma si è infilato in una trappola. Il sentiero si stringe, mentre le banche restano chiuse e la gente ha paura. Il premier non può fare marcia indietro, ma non può nemmeno alzare ancora i toni contro l’Unione. E vorrebbe un accordo nelle prossime ore, così da svuotare la consultazione da lui stesso voluta.
In sostanza, si attende. Matteo Renzi, nella sua visita a Berlino in programma da tempo, non ha potuto fare altro che confermare la posizione italiana: nessuna solidarietà al governo Tsipras (solo parole di simpatia al popolo greco), perfetta identità con la linea della Commissione, peraltro ispirata dalla Germania. Prevale, e sarebbe incomprensibile il contrario, la coesione europea rispetto all’incrinatura greca. La posta in gioco è evidente e non è tempo di giri di valzer e nemmeno di voli pindarici intorno a Telemaco e Ulisse. La Bce di Mario Draghi è una garanzia sia per la Merkel sia per Renzi e il cerchio si chiude qui.
Certo, il presidente del Consiglio italiano spera in cuor suo che dietro le quinte qualcosa si muova e che si arrivi almeno a una bozza d’intesa prima di domenica. È la stessa speranza che nutre il presidente francese, con la differenza che Hollande ha parlato chiaro, distinguendosi per un attimo da Berlino. Ma entrambi, il francese e l’italiano, sono consapevoli che un eventuale compromesso non potrà mai esser presentato come una concessione alle pretese di Atene: la Merkel non può permetterlo in alcun modo per ovvie ragioni politiche che investono il rapporto con la sua opinione pubblica e con gli altri governi dell’Unione.
NE deriva che per l’Italia in questa fase ci sono scarsi margini di manovra. Invece il caso greco continua a proiettare le sue ombre sulla vasta area politica che nel paese, nei “talk show” e sul web, si dichiara contraria all’Unione “a trazione tedesca” e di fatto alla moneta unica, almeno nella versione attuale. Il dibattito viene alimentato nel mondo da personalità autorevoli, da Krugman a Stiglitz, e riguarda il futuro dell’Europa integrata. Tuttavia in Italia sembra soprattutto l’occasione per nutrire la polemica contro il governo Renzi e ridefinire gli equilibri all’interno dell’opposizione.
Di fatto la rete pro-Tsipras si è un po’ ridotta nelle ultime ore. È appannaggio dell’arcipelago a sinistra del Pd e di Beppe Grillo. Invece a destra si bada, più che a sostenere il leader greco, a colpire il presidente del Consiglio accusato di acquiescenza verso la cancelliera Merkel. “Si è inchinato peggio di Schettino” dice Giorgia Meloni e il tono della polemica dice tutto. Come sempre in questi passaggi il più infervorato è Brunetta, convinto che sia arrivato il momento di definire la piattaforma di un centrodestra unito. Chi invece offre qualche novità è Salvini. Nell’intervista al “Sole 24 Ore” prende le distanze dagli anti-euro ed è la prima volta che accade in modo esplicito, al di là di piccoli segnali recenti. Il leader della Lega si va convincendo di poter assumere la leadership del centrodestra e abbraccia una posizione più pragmatica, in base al principio che “un’uscita unilaterale dall’euro sarebbe un casino”. Quindi la nuova Lega si muove per chiedere una diversa politica economica all’interno di una moneta unica “che deve cambiare”. Ovvio tuttavia che fra la linea Salvini-Brunetta-Meloni e la tradizione del pensiero moderato sull’Europa, a partire da De Gasperi, rimane un abisso che si va approfondendo giorno dopo giorno.

Repubblica 2.7.15
Passa la linea tedesca un sì per silurare Alexis e riaprire il negoziato con un nuovo governo
di Alberto D’Argenio


BRUXELLES. Alexis Tsipras rimane intrappolato nel suo stesso referendum. Fino a poche ore dalla rottura definitiva di ieri pomeriggio l’accordo era a un passo. Prevedeva che i greci ritirassero la consultazione popolare e gli europei offrissero ad Atene un terzo programma di salvataggio con una serie di concessioni per renderne le condizioni meno amare. Ma poi hanno prevalso la diffidenza, i caratteri e il calcolo politico dei protagonisti. Ora si guarda a lunedì, il giorno dopo il referendum. A Bruxelles, Berlino, Atene e nelle altre capitali si studiano piani e scenari. Molti leader ora puntano a far fuori una volta per tutte Tsipras, determinato invece a resistere a prescindere dal risultato del voto.
La fine ha avuto inizio ieri notte, quando a Bruxelles è arrivata la seconda lettera in poche ore con le richieste di Tsipras per annullare il referendum. Per la prima volta accettava il testo Juncker – piuttosto generoso - con riforme e impegni per Atene in cambio del salvataggio. Ma a sorpresa il capo del governo greco ha aggiunto cinque punti irrinunciabili. Il viceministro Euclid Tsakalotos si prodigava a spiegare a Bruxelles il perché di tanta rigidità: «Abbiamo bisogno di queste ulteriori concessioni altrimenti l’accordo non passa in Parlamento».
Ma l’ennesimo gioco al rialzo di Tsipras ha irritato diversi governi e ha fornito ai falchi un comodo match point per chiudere la partita. L’Eurogruppo viene spostato dalle 11.30 alle 17.30, ma il tempo non basta a negoziare le nuove richieste di Tsipras. Quindi Schaeuble e la Merkel pubblicamente affondano ogni speranza di accordo. Tsipras gli risponde in tv con parole altrettanto dure. In quei minuti Matteo Renzi è a colloquio a Berlino con Angela Merkel. Uscendo dalla stanza della Cancelliera confida al telefono a un ministro che lo chiama da Roma: «È finita, non c’è più niente da fare».
Eppure fino a ieri mattina la soluzione sembrava a portata di mano, con Juncker, Renzi e Hollande che avevano fatto di tutto per avvicinare Merkel e Tsipras ed evitare all’Europa altri giorni di fuoco. Solo 60 milioni dividevano le parti, niente rispetto ai 240 miliardi già mobilitati per salvare la Grecia. Una rottura non solo tecnica, ma molto politica. Descrive bene l’accaduto Roberto Gualtieri (Pd), presidente della commissione economica dell’Europarlamento tra gli ufficiali di collegamento nel negoziato: «Tsipras è stato cinico nel non volere l’accordo ed è sua gran parte della responsabilità del fallimento, ma anche altri governi sono stati inutilmente rigidi».
Ieri Juncker ha tenuto una lunga discussione con i commissari europei per fare il punto della situazione. «I canali con Atene rimangono aperti – spiegava - ma non c’è più nessun movimento». Intanto i ministri delle Finanze dei paesi dell’euro hanno cancellato tutti gli impegni di lunedì, pronti a volare a Bruxelles per rispondere al voto greco.
Gli uomini di Tsipras fanno sapere agli europei le intenzioni del loro leader. Se passa il referendum, il premier si dimetterà ma metterà l’ala moderata del partito a disposizione di un governo di unità nazionale che firmi il memorandum per il terzo pacchetto di aiuti. Un minuto dopo si sfilerà dalla maggioranza provocando le elezioni anticipate, che si dice certo di vincere. In caso di vittoria del “no”, che lui sostiene, tornerà invece a Bruxelles chiedendo tutte le concessioni che ha richiesto in questi mesi. Da ieri Atene è fuori dal programma di salvataggio ed inadempiente con l’Fmi, ma per il default tecnico restano ancora un paio di settimane.
Ma dovrà fare i conti con gli altri. Con la vittoria del “sì” a Berlino e in altre capitali contano di sbarazzarsi una volta per tutte di Tsipras. Non tutti i governi sono così determinati sul punto, ma tutti quanti sono estremamente irritati con il premier greco accusato di scarsa affidabilità e di avere trasformato un suo problema interno in un problema europeo che aizza populisti di destra e sinistra in giro per il continente. Se passasse il “no”, invece, la Merkel e gli altri leader sono determinati a non concedere tutto al collega di Atene. Ripartirà il negoziato con Tsipras che minaccerà la rottura dell’eurozona e gli europei che risponderanno con lo spettro di un taglio definitivo dei viveri ad Atene costringendo il premier greco a lasciare.
Rende bene la situazione la battuta di un diplomatico mitteleuropeo: «Tsipras doveva decidere se morire firmando o non firmando il salvataggio. Sembra avere deciso la via più dolorosa per tutti».
La vittoria del “sì” farebbe ripartire il braccio di ferro, con i tedeschi decisi a non concedere quasi nullaalle autorità elleniche L’ennesimo gioco al rialzo del leader di Syriza ha fornito ai falchi dell’eurozona un comodo assist per chiudere la partita.

La Stampa 2.7.15
Ecco perché la cancelliera lascia la partita al “falco” Schaeuble
Il ministro certo del rafforzamento dell’euro con l’uscita di Atene
di Tonia Mastrobuoni


Perché la Germania sembra mettersi sempre più di traverso sulla Grecia? Nella triangolazione Atene-Berlino-Bruxelles di ieri emergono dinamiche e ragionamenti ormai tipici di Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble, i due negoziatori principali, non solo della Germania, purtroppo dell’intera eurozona. Merkel ha detto che vuole trattare solo dopo il referendum di domenica prossima. Schaeuble, invece, non ha più alcuna voglia di trattare. Non c’è nessun gioco delle parti. I due hanno - da anni - posizioni diverse sulla Grecia. Lo raccontano le cronache del momento più buio, nel 2012, e i retroscena di queste settimane. Solo che la cancelliera è più abile del suo ministro delle Finanze.
Da settimane Schaeuble cerca di convincere i suoi omologhi più fidati dell’Eurogruppo che, se Atene uscisse dall’euro, si potrebbe accelerare sull’integrazione europea; l’area della moneta unica ne uscirebbe rafforzata. Un argomento incredibile che usa con i suoi è che le cadute in Borsa, in questi giorni, sono state piuttosto contenute. Come se non capisse che i mercati non sono si sono ancora scatenati perché confidano in una vittoria dei «sì». Certo, dopo che dal cosiddetto «documento dei cinque presidenti» è emersa un’idea risibile della suddetta integrazione, molti colleghi di Schaeuble hanno dubbi sulla volontà della Germania di fare una vera unione bancaria, una convergenza autentica tra politiche fiscali, e così via. Ma la narrazione del ministro, nei consessi ristretti, è ormai sempre la stessa: senza Atene, possiamo accelerare sull’integrazione. Come se si trattasse di tagliare un arto infetto e non un elemento che contribuisce all’irreversibilità della moneta unica.
L’impulso di Schaeuble è quello di un sincero europeista, dal suo punto di vista. Proprio ieri ricorreva il 25 anniversario di una delle più geniali e spericolate operazioni di Helmut Kohl: la fusione tra marco dell’Est e marco dell’Ovest. Con un tasso di cambio talmente folle - uno a uno quando sul mercato la moneta della Bundesrepublik valeva sette volte quella dell’Est - da far dimettere l’allora presidente della Bundesbank Karl-Otto Poehl. Kohl, padre della Germania unita, non ebbe paura degli alti lai degli economisti. Il suo ministro dell’Interno di allora, Wolfgang Schaeuble - negoziatore capo della riunificazione- neanche. I due politici conservatori furono lungimiranti, e diedero retta ai cittadini della Ddr che avevano lanciato lo slogan «se il marco dell’ovest non viene da noi, andiamo da lui» : stavano scappando in massa dalla ex Germania comunista. Ancora oggi Schaeuble va in bestia quando si sostiene - ormai è storia - che Kohl accettò successivamente, nel negoziato con il presidente francese Mitterrand, di scambiare il marco della nuova, «grande» Germania, con la riunificazione. 
Per Merkel, il discorso è diverso. Il suo straordinario tatticismo (in virtù del quale riuscì in passato a far fuori proprio Schaeuble, subentrando nella successione di Kohl e a scongiurarne poi la nomina a presidente della Repubblica) è di nuovo all’opera. Dalla scorsa settimana, tanto più dopo la mossa azzardata di Tsipras del referendum, ha lasciato campo libero al suo «falco». Primo, così si è ripresa il partito, in rivolta contro gli sbandamenti del governo di Alexis Tsipras. Secondo, è noto che la cancelliera non vuole la Grecia fuori dall’euro - in questo è ben consigliata da Mario Draghi - ma di sicuro vuole Alexis Tsipras fuori dai tavoli negoziali. Merkel confida nel sì al referendum per riprendere il filo del dialogo con un altro governo. È stanca degli sbandamenti di una trattativa senza capo né coda, e ora aspetta.
Perché la Germania sembra mettersi sempre più di traverso sulla Grecia? Nella triangolazione Atene-Berlino-Bruxelles di ieri emergono dinamiche e ragionamenti ormai tipici di Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble, i due negoziatori principali, non solo della Germania, purtroppo dell’intera eurozona. Merkel ha detto che vuole trattare solo dopo il referendum di domenica prossima. Schaeuble, invece, non ha più alcuna voglia di trattare. Non c’è nessun gioco delle parti. I due hanno - da anni - posizioni diverse sulla Grecia. Lo raccontano le cronache del momento più buio, nel 2012, e i retroscena di queste settimane. Solo che la cancelliera è più abile del suo ministro delle Finanze.
Da settimane Schaeuble cerca di convincere i suoi omologhi più fidati dell’Eurogruppo che, se Atene uscisse dall’euro, si potrebbe accelerare sull’integrazione europea; l’area della moneta unica ne uscirebbe rafforzata. Un argomento incredibile che usa con i suoi è che le cadute in Borsa, in questi giorni, sono state piuttosto contenute. Come se non capisse che i mercati non sono si sono ancora scatenati perché confidano in una vittoria dei «sì». Certo, dopo che dal cosiddetto «documento dei cinque presidenti» è emersa un’idea risibile della suddetta integrazione, molti colleghi di Schaeuble hanno dubbi sulla volontà della Germania di fare una vera unione bancaria, una convergenza autentica tra politiche fiscali, e così via. Ma la narrazione del ministro, nei consessi ristretti, è ormai sempre la stessa: senza Atene, possiamo accelerare sull’integrazione. Come se si trattasse di tagliare un arto infetto e non un elemento che contribuisce all’irreversibilità della moneta unica.
L’impulso di Schaeuble è quello di un sincero europeista, dal suo punto di vista. Proprio ieri ricorreva il 25 anniversario di una delle più geniali e spericolate operazioni di Helmut Kohl: la fusione tra marco dell’Est e marco dell’Ovest. Con un tasso di cambio talmente folle - uno a uno quando sul mercato la moneta della Bundesrepublik valeva sette volte quella dell’Est - da far dimettere l’allora presidente della Bundesbank Karl-Otto Poehl. Kohl, padre della Germania unita, non ebbe paura degli alti lai degli economisti. Il suo ministro dell’Interno di allora, Wolfgang Schaeuble - negoziatore capo della riunificazione- neanche. I due politici conservatori furono lungimiranti, e diedero retta ai cittadini della Ddr che avevano lanciato lo slogan «se il marco dell’ovest non viene da noi, andiamo da lui» : stavano scappando in massa dalla ex Germania comunista. Ancora oggi Schaeuble va in bestia quando si sostiene - ormai è storia - che Kohl accettò successivamente, nel negoziato con il presidente francese Mitterrand, di scambiare il marco della nuova, «grande» Germania, con la riunificazione. 
Per Merkel, il discorso è diverso. Il suo straordinario tatticismo (in virtù del quale riuscì in passato a far fuori proprio Schaeuble, subentrando nella successione di Kohl e a scongiurarne poi la nomina a presidente della Repubblica) è di nuovo all’opera. Dalla scorsa settimana, tanto più dopo la mossa azzardata di Tsipras del referendum, ha lasciato campo libero al suo «falco». Primo, così si è ripresa il partito, in rivolta contro gli sbandamenti del governo di Alexis Tsipras. Secondo, è noto che la cancelliera non vuole la Grecia fuori dall’euro - in questo è ben consigliata da Mario Draghi - ma di sicuro vuole Alexis Tsipras fuori dai tavoli negoziali. Merkel confida nel sì al referendum per riprendere il filo del dialogo con un altro governo. È stanca degli sbandamenti di una trattativa senza capo né coda, e ora aspetta.

La Stampa 2.7.15
Da Vendola a Grillo e Fassina tutti ad Atene
di Ilario Lombardo


«Peccato che sia di sinistra – riflette Marco Marcolin, fazzoletto verde padano sul cuore – Ma di uomini come Tsipras ne nasce uno ogni 50 anni». Sarà la vecchia regola del nemico del mio nemico, ma di amici in Italia Alexis Tsipras se n’è fatti davvero tanti. «L’improbabile compagnia» come la definisce Alfredo D’Attore, Pd, che pure ne fa parte, è composta di: leghisti, 5 Stelle, post-comunisti, post-fascisti e Renato Brunetta. Sì, proprio lui, teorico delle ricette liberali di Silvio Berlusconi, pronto a sacrificare la raffinatezza del pensiero economico per dire: «Sono contento che Tsipras abbia messo in difficoltà la Merkel». Vecchie insofferenze anti-teutoniche si mescolano alle battaglie contro il rigore di chi vede oggi in Tsipras l’unico paladino pronto a farla finita con l’Europa dei burocrati. E così, dal Paese che intitolò al leader greco un cartello elettorale europeo – non proprio un successo – partirà la flotta dei testimonial del miracolo greco. I grillini che oggi incontreranno l’ambasciatore greco e domenica, in una quarantina, saranno con Beppe Grillo ad Atene, non si inoltrano in dichiarazioni a favore del “sì” o del “no”, ma gli occhi luccicano al pensiero del referendum: «Per la prima volta in 20 anni si dà la voce al popolo su questi temi» spiega la deputata Maria Edera Spadoni. Il M5S si contorce i neuroni a studiare la mossa di Tsipras: «Geniale, ha costretto l’Europa a trattare in base all’esito del voto di domenica. Schulze e la Merkel sono terrorizzati…» continua Spadoni, mentre si vola sulle ali della fantapolitica e Daniele Del Grosso ipotizza «l’aiuto di Putin se la Grecia sarà spinta fuori dall’euro». In piazza ad Atene ci saranno anche Stefano Fassina e Alfredo D’Attore. Il primo ormai ex Pd, il secondo ancora in trincea in un partito che disconosce: «Fa impressione che posizioni conformi alla linea di Merkel e Schauble ormai in Italia ci siano solo nel Pd». Il suo cuore batte per il no: «Così l’Europa dovrà prendere atto di una richiesta radicale. Renzi non ha avuto il coraggio di Tsipras». La comitiva italiana ovviamente non poteva fare a meno di Sel. Saranno in tre, guidati da Nichi Vendola: «Tsipras non chiede la fine dell’Europa né l’uscita dall’euro, ma un compromesso socialmente sostenibile. Se ne parlasse anche la politica italiana e non solo Papa Francesco, potrebbe essere una buona notizia». Da Tsipras a Bergoglio, la ricerca di un papa a sinistra continua…

Il Sole 2.7.15
A settembre lancerà «Noi italiani»
Della Valle: l’esperienza del governo Renzi è arrivata al capolinea
di Mariolina Sesto


Diego Della Valle volta le spalle a Matteo Renzi. Il patron di Tod’s, che a settembre lancerà il progetto “Noi Italiani”, suona il time out per l’esecutivo: «Mi dispiace ammetterlo - accusa - ma credo che questa sia un’esperienza governativa arrivata un po’ alla fine». L’imprenditore chiama in causa anche il Capo dello Stato: «Credo - osserva - che il Presidente della Repubblica debba prendere atto che c’è un governo non votato dal popolo e in assoluto affanno, ma non si può andare a votare ora». «Non si può andare avanti con un governo che non può fare le cose per mille motivi - va avanti l’imprenditore marchigiano a margine del “Milano Fashion Global Summit 2015” - oggi ci vuole un governo di persone che sappiano fare le cose essenziali che servono e che ci porti al 2018, quando andremo finalmente a votare le persone che ci scegliamo». E ancora: «C’è bisogno di gente competente con dei curricula validi, non mettiamo amici e amici degli amici». Un affondo a cui replica il vicepresidente dell’assemblea Pd, il renziano Matteo Ricci: «A Diego Della Valle vorrei dire che l’esperienza finita è quella dei suoi amici, i “salvatori tecnici” di cui l’Italia non ha bisogno. Abbiamo bisogno di una politica coraggiosa, non di piccoli partitini dello “zero virgola” né di “salvatori tecnici”».
E tra gli imprenditori delusi dall’esecutivo Renzi c’è anche Pier Silvio Berlusconi, il secondogenito del Cavaliere. «L’anno scorso dissi di tifare per la fretta del governo Renzi - ricorda l’amministratore di Mediaset - ora sembra che le tanto annunciate riforme economiche abbiano accusato un forte rallentamento». Il figlio del Cavaliere però non chiude del tutto la porta all’esecutivo: «Da italiano e imprenditore tifo per il mio Paese: credo e spero che il governo trovi al più presto la strada delle riforme». L’asse a sostegno di una linea di dialogo con Renzi subisce tuttavia uno scossone perché Pier Silvio, insieme a Fedele Confalonieri, ha sempre rappresentato la parte della famiglia e delle aziende più propensa a riallacciare il dialogo con il presidente del Consiglio. E la linea, a detta dei fedelissimi del leader azzurro, sembra sia stata concordata in famiglia alla vigilia, tra l’altro, della ripresa del cammino in Senato delle riforme costituzionali (si veda l’articolo a fianco). Oggi a Palazzo Madama sarà incardinato l’iter del disegno di legge e l’atteggiamento che terrà una parte di Forza Italia (verdiniani in testa) potrebbe essere determinante.
La bacchetta del vicepresidente di Mediaset però non sembra preoccupare i renziani. L’ordine di scuderia ufficiale è quello di non replicare alle critiche ma, a sentire alcuni di loro, la presa di posizione del figlio di Berlusconi può avere come effetto immediato quello di ricompattare il Pd, in particolare a Palazzo Madama, dove la minoranza Dem può influire in termini numerici sulle riforme. Alla fine della giornata però viene allo scoperto lo stesso capogruppo Pd alla Camera: «Mi pare un posizionamento politico, non un’analisi delle cose che sono state fatte - argomenta Ettore Rosato -. Lo dimostra non solo l’apprezzamento del mondo imprenditoriale ma anche le opinioni che all’estero si esprimono sulle nostre riforme, ultime quelle che oggi arrivano da Berlino».

Corriere 2.7.15
L’era dell’astensionismo di «opinione» che mette a rischio la democrazia
di Corrado Stajano


Sembra che non ci si ricordi già più dell’astensionismo clamoroso alle elezioni del 31 maggio in alcune tra le più importanti regioni italiane, la Toscana, la Liguria, il Veneto, la Puglia, la Campania, le Marche, l’Umbria. Il problema è stato furbescamente rimosso. È il diritto di voto, non il suo uso, a dare il potere sovrano ai cittadini, vien detto: anche se gli elettori sono tre su mille i risultati della consultazione hanno ugualmente valore. Ineccepibile. Non si tiene però in alcun conto l’esistenza e l’essenza della società nazionale che in pratica rifiutando il voto cancella se stessa, la sua forza comunitaria e nel vuoto lasciato dal fallimento della politica cerca di risolvere i suoi problemi come può.
Dopo la seconda guerra mondiale e il fascismo fu una festa il giorno del voto. Potevano votare anche le donne, finalmente, l’anello forte della catena sociale che in quegli anni aveva retto con coraggio la sorte delle famiglie, gli uomini al fronte, le città distrutte, la miseria, la fame.
Per decenni il voto è stato considerato un obbligo sociale o anche un’abitudine, più o meno sentita, da non rompere. La caduta è di questi ultimi anni: in maggio è andato ai seggi un italiano su due e quello dell’astensione è diventato il primo partito del Paese.
Le differenze col passato sono sostanziali. A non votare, un tempo, erano, con gli anarchici, tradizionali nemici del sistema, coloro che rifiutavano le regole della democrazia, i qualunquisti di sempre, gli analfabeti del vivere collettivo, quanti ritenevano che i politici sono, senza eccezione, tutti uguali nel malfare ed era quindi inutile prender parte a quella tenzone.
Gli astensionisti di oggi, se si ascoltano le voci dell’opinione pubblica, i giornali, i blog, i talk-show, anche se ospitano ossessivamente le stesse persone lottizzate, se si ascolta la radio e si va sul tram o sul metrò, si ha, naturalmente senza alcuna scientificità, la risposta. L’astensionismo è ora in buona parte di opinione, ben cosciente, ne sono protagoniste persone informate che leggono libri e giornali, non sono né antipartito né antipolitica, non sono indifferenti per nulla, conoscono i problemi, ne sono le vittime. È un astensionismo di protesta il loro, interclassista, critico, gonfio di risentimenti, di rancori, di delusione, nei confronti delle promesse non mantenute, delle parole in libertà che si sentono ogni giorno. È l’astensionismo doloroso di milioni di persone che hanno creduto nei valori della democrazia conquistati con tanta fatica, con il sangue, siglati da una Costituzione scritta da uomini di prim’ordine, svillaneggiata dal ventennio berlusconiano fino a oggi. Viene considerata un inciampo da una classe dirigente che si ritiene in buona parte all’avanguardia, da governanti inadeguati, senza storia e senza cultura, abili tattici del vivere quotidiano, privi di una visione del mondo rotto e corrotto, da ricostruire non con l’autoritarismo, gli ultimatum, l’ottimismo di maniera privo di fondamento, l’incapacità di mediazione, essenziale nell’arte della politica.
L’astensionismo può essere una malattia mortale che mette a rischio la stessa democrazia, apre la via ai populismi d’accatto, alla destra violenta, agli estremismi travestiti da moderatismi apparentemente indolori. Riguarda tutte le opinioni politiche, soprattutto la sinistra che in passato andava compattamente e orgoglio- samente al seggio. La Toscana e l’Emilia-Romagna sono l’esempio del vento cambiato.
Gli elettori di sinistra si son trovati a dover votare per un partito, il Pd, con il quale non si sentono più consonanti, un partito personale con una politica divenuta centrista che ha fallito i suoi progetti: conquista di parte dell’elettorato di centrodestra conservando l’elettorato di sinistra. Risultato: la fiducia in Renzi, secondo il recentissimo sondaggio di Nando Pagnoncelli, è scesa dal 70 per cento dei consensi avuti dopo le mitiche elezioni europee al 36 per cento di oggi. La stessa percentuale della Lega di Salvini che invece avanza con il suo straparlare e cerca di diventare il padre padrone del nuovo centrodestra. Mentre i gruppi e i movimenti alla sinistra del Pd, divisi in mille rivoli, sono incapaci di dare un volto unitario ad almeno due milioni di persone prive di ogni rappresentanza politica.
Non bastano gli slogan e i tweet per risolvere, con la velocità del velodromo, problemi come il lavoro, le disuguaglianze sociali, le tasse, la riforma della scuola — ha fatto perdere al Pd milioni di voti —, la burocrazia, gli sprechi, la corruzione che dilaga in tutti gli angoli della società, la Mafia capitale che fa rabbrividire anche chi ha studiato i poteri criminali.
Sono queste, più o meno, le ragioni del non voto e del rifiuto. I problemi vanno affrontati senza oltranzismi, con umiltà. È necessario rendere partecipi di un possibile ricominciamento i cittadini assenti, dar loro speranze prive di inganni. La scheda è il segno della libertà se la legge non è una truffa e rispetta i diritti degli elettori .

Repubblica 2.7.15
La responsabilità del partito democratico
di Piero Ignazi


UN PARTITO che ambisce ad avere una vocazione maggioritaria ha di fronte a sé un compito primario: definire il suo rapporto con le istituzioni: individuare il suo ruolo nel sistema politico. In una situazione nella quale i partiti sono tutti, a parte il Pd, o strutture evanescenti (Forza Italia), o concentrate localmente (la Lega), o in formazione (il M5S), spetta all’unico partito che vanta ancora una dimensione e una organizzazione di massa caricarsi il peso della rappresentanza generale dei cittadini. Ma gli spetta, anche e soprattutto, l’onere di “reggere” l’assetto istituzionale di questo Paese perché il Pd governa ovunque, ad ogni livello, con una responsabilità che non ha pari rispetto al passato. Nemmeno nei suoi tempi migliori Forza Italia poteva vantare un presenza simile nelle istituzioni.
Il Partito democratico, oltre ad essere egemone in Parlamento e nel governo, è alla guida di 17 Regioni su 20, e partecipa al governo di tutte le città metropolitane, fino al recente capitombolo di Venezia, e della stragrande maggioranza dei Comuni sopra i 15.000 abitanti. Il Pd, oggettivamente, è il cardine di questo sistema. È cosciente della responsabilità che porta? Sembra di no. In primo luogo la sua leadership non ha ancora metabolizzato la differenza di ruolo e di status tra l’essere un capo di partito e un uomo di governo. Gli atteggiamenti di Matteo Renzi, così spesso sopra le righe nella polemica politica, derivano dal suo essere tuttora calato nella dinamica partitica, sia verso l’interno del Pd che verso l’esterno.
Per assumere in pieno la gravitas di uomo di governo, specialmente quando si è novizi in questi incarichi, è opportuno liberarsi dal peso della gestione del partito. Tra l’altro il partito ne soffre: calo delle iscrizioni, crisi della militanza, scarso collegamento tra centro e periferia, autonomizzazione di potentati locali, rilassamento della tensione etica, indeterminatezza dei criteri di selezione per le cariche interne e pubbliche, allentamento se non recisione dei rapporti con organizzazioni un tempo collaterali, e fino ieri, per lo meno, amiche. Ma soprattutto ne perde l’immagine super partes che il capo del governo deve cercare di incarnare.
Certo, il governo è, per definizione, di parte, ci mancherebbe. Tuttavia deve puntare a perseguire interessi generali. E un governo è tanto più apprezzato quanto più riesce in questo intento. Che si ottiene con maggior facilità se la sua guida diminuisce il tasso di partigianeria intrinsecamente connesso alla carica di segretario di partito.
La seconda difficoltà che il Pd incontra nel proporsi come attore cardine del sistema riguarda il suo deficit di governo. Sembra paradossale addebitare a Renzi questo limite: non si tratta qui del ritmo, a volte frenetico, o affannoso a seconda dei giudizi, impresso nella produzione legislativa: il punto riguarda la capacità di ricondurre a sistema tutte le posizioni di potere che nello Stato, e ormai anche nel parastato, rimandano al Pd. Renzi ha interpretato il desiderio-bisogno di decisione ed effettività della società italiana. La risposta che ne ha dato ha puntato sulla rapidità e sul decisionismo tranchant . Questa modalità comporta però un elevato tasso di conflittualità che si lascia dietro piccole o grandi macerie ad ogni passaggio. Tutto ciò, alla fine, usura la capacità di governo. Anche perché le macerie riguardano in primis il proprio campo. Fare sistema senza contare sulla piena condivisione della propria parte comporta un surplus di difficoltà e quindi di potenziale inefficienza.
Infine, il Pd mostra crepe sempre più profonde nel suo tessuto morale. Scandali e inchieste lambiscono un numero crescente di dirigenti e amministratori locali. Una ferita questa che non sfregia solo l’immagine del Pd ma incrina la sua, legittima, ambizione di essere il perno del sistema politico.
Eppure la società italiana ha bisogno di trovare un suo baricentro politico, stabile e affidabile, per uscire dal declino e modernizzarsi, sul serio.

La Stampa 2.7.15
Le quattro riforme in salita che tolgono il sonno al premier
Sul Senato può accelerare, ma rischia il pantano sulla governance Rai
di Ugo Magri


Da quando a Renzi si è ristretta la maggioranza (cioè dal giorno che Berlusconi ha smesso di fargli da spalla) ogni riforma è diventata una fabbrica del Duomo. Una volta a puntare i piedi è la sinistra Pd, la volta dopo si mettono di traverso gli alfaniani, col risultato che lo slancio fattivo del premier si incaglia nelle mediazioni specie a Palazzo Madama, dove i numeri sono più risicati. Quattro al momento i pomi della discordia: riforma del Senato, unioni civili, governance Rai e prescrizione. In tutti e quattro i casi non c’è alcuna certezza di arrivare al traguardo prima dell’autunno. Anzi, con il passare dei giorni cresce il pessimismo. L’impressione è che Renzi dovrà fare delle scelte precise, scegliendo dove concentrare gli sforzi e dove invece attendere tempi migliori.
Lo snodo apparentemente più impervio è, paradossalmente, anche quello più semplice: la riforma del Senato sarà incardinata oggi nella prima commissione, presieduta da Anna Finocchiaro. Entro luglio verrà licenziata per il dibattito in aula, su questo non vi sono dubbi. Così come si dà per certo che Renzi e la Boschi faranno concessioni alla minoranza interna. L’idea è di dare un po’ più peso al futuro Senato senza però riproporre il bicameralismo di adesso. La mediazione, ancora tecnicamente un po’ confusa, consiste in un meccanismo a metà strada tra la nomina e l’elezione. I senatori verrebbero selezionati nell’ambito di appositi «listini» collegati ai presidenti delle Regioni. Conterebbero assai meno di oggi, ma sempre più di quanto prevede l’attuale testo della riforma. La minoranza Pd se lo farà bastare.
Più complicata, per Renzi, sarà la riforma della «governance» Rai. La destra fa muro contro il «parere» che l’amministratore delegato dovrà chiedere al Cda sulla nomina dei direttori di testata: oltre che «obbligatorio», quelli di Forza Italia lo vogliono «vincolante», in modo da intavolare una trattativa sui nomi. Ma sono in molti, non solo tra i «berluscones», a contestare il verticismo della riforma. Per esempio non piace che a scegliere l’amministratore delegato sia il ministro dell’Economia, vale a dire il governo. Può darsi che Renzi riesca a imporre la sua volontà, ma per ora la legge arranca in commissione a Palazzo Madama. Stessa storia sulla prescrizione dove, tuttavia, qualcuno sospetta un gioco delle parti. Tra chi? Tra gli alfaniani (che fanno muro contro un allungamento «monstre» dei termini, portati a 22 anni) e il governo medesimo (che non intende restare vittima dell’ala Pd più vicina alle toghe). Si cercherà un equo compromesso, ma l’ultimo tentativo martedì è andato storto, la legge resta virtualmente incagliata. Urge un colpo d’ala.
Stessa storia sulle unioni civili: anche qui i centristi vanificano la fretta del premier. In commissione al Senato si presentano puntuali Giovanardi o Sacconi, quando non entrambi, a mettere i bastoni tra le ruote del Pd. Temono che la legge diventi un «cavallo di Troia» per le adozioni gay. Che nel testo in discussione non sono ammesse. Ma siccome su tutto il resto non c’è molta differenza con il matrimonio «etero», loro paventano che qualche corte europea possa un domani condannare l’Italia per discriminazione dei gay. Equiparandoli pure sulle adozioni proprio grazie alla legge che gliele vieta...

La Stampa 2.7.15
Niente dati promessi sulle scuole
Imbarazzo per il ministero
di Flavia Amabile


E nemmeno questa scadenza è stata rispettata e l’Anagrafe sulle condizioni delle scuole italiane continua ad essere un’utopia. Il Ministero dell’Istruzione aveva promesso per il 30 giugno la pubblicazione dei dati attesi ormai da quasi venti anni e che dovrebbero essere un atto automatico. Siamo a luglio, a quanto si apprende dal ministero i dati sarebbero arrivati ma vanno elaborati quindi Cittadinanzattiva ha depositato un ricorso per chiedere l’ottemperanza del Miur rispetto a quanto imponeva la sentenza esecutiva del Tar del Lazio del 2014.
«Con questa azione – spiega Adriana Bizzarri, coordinatrice nazionale Scuola di Cittadinanzattiva - abbiamo chiesto al Giudice amministrativo di assegnare un termine di 30 giorni al Ministero dell’Istruzione e, in caso di ulteriore inadempimento, di nominare un commissario ad acta che provveda in via sostitutiva alla pubblicazione dei dati dell’Anagrafe dell’Edilizia scolastica ad oggi in possesso del Miur». A quanto sembra nemmeno con il governo Renzi si riesce a venire a capo di quello che si sta trasformando in uno dei misteri più fitti della Repubblica Italiana, capire in che stato si trovano gli edifici scolastici, di che cosa hanno bisogno per essere messe in sicurezza. Sembrava di essere arrivati alla soluzione parziale del mistero lo scorso 22 aprile come era stato annunciato dalla ministra Stefania Giannini e dal sottosegretario Davide Faraone, Ma alcune regioni non avevano risposto all’appello, quelle in condizioni peggiori: Lazio, Campania, Sicilia, Sardegna, Basilicata e Molise. Si sapeva da tempo che i dati erano parziali ma il pomeriggio del 21 aprile era stato precisato che non ci sarebbe stata alcuna pubblicazione di dati e si rinviava tutto a fine giugno.
Di fronte all’ennesimo rinvio Cittadinanzaattiva ha deciso di passare ancora una volta all’azione: «Queste sei regioni coprono il 35% di tutte le scuole del Paese, 14.522 su 41.383. Continuare a decidere di investire fondi (preziosissimi!) anche su queste sei regioni – continua Bizzarri - senza conoscerne le reali urgenze, determinarne le priorità e programmarne gli interventi, è un modo di procedere contraddittorio e sbagliato. Eppure è quello che si sta facendo con i recenti provvedimenti che, ovviamente, comprendono anche le sei regioni inadempienti. Questa azione è oggi ancora più urgente e necessaria in quanto lo strumento dell’Anagrafe dell’Edilizia scolastica consente sia un’oculata programmazione degli interventi già previsti dal Governo e per quelli futuri, ad opera degli Enti preposti, sia di controllare l’efficacia di quanto si sta realizzando, sia di far conoscere alle famiglie le condizioni effettive delle scuole frequentate dai propri figli».

La Stampa 2.7.15
Crocetta: dare retta al Pd? Sarei finito travolto dagli scandali
“Volevano in giunta Mirello Crisafulli e il cognato di Genovese, vi rendete conto? Renzi? Non mi risponde”
intervista di Jacopo Iacoboni


Seduto su una poltrona nel suo studio di Palazzo d’Orleans - anzi, come dicono qui, Palazzo d’Òrleans - Rosario Crocetta ha l’aria di un uomo che resisterà fino alla fine. Il Pd in Sicilia è - tanto per cambiare - devastato da lotte interne, faide, divisioni. Crocetta è attaccatissimo dall’esterno, ma anche dall’interno, dai renziani e dai vecchi notabili a cui ha tolto poltrone e affari. Il problema è che la Regione è piantata, ferma, nulla riparte, e a Palermo nessuno è contento, neanche i cittadini, e lui fa fatica a girare per strada. 
Che succede, Crocetta, è mai possibile che il primo ad avercela con lei sembra essere il Pd? 
«È una vergogna, ma voglio farle un regalo. Se comincio a parlare io sui guai del Pd... Le racconto una cosa: quando vinsi le elezioni sa chi volevano farmi mettere in giunta, il Pd? Mirello Crisafulli, capisce? Guardate ora i suoi guai. E Franco Rinaldi, il cognato di Francantonio Genovese, ha presente lo scandalo che è poi scoppiato sulla formazione in Sicilia? Ecco: se stavo a dar retta al Pd la giunta durava sei mesi e veniva travolta dagli scandali giudiziari. Passi per l’Udc che voleva infilare Nino Dina, ma il Pd... Il loro astio per me comincia lì». 
Ha fatto molti tagli meritori, ma dicono che la Regione è immobilizzata, bloccata. 
«Vogliamo dire dei tagli? Mi odiano perché ho tagliato la formazione, che costava 400 milioni e oggi costa 150, e ci mangiavano tutti, tutti, anche il Pd. Perché ho fatto tre miliardi di risparmi per un buco di bilancio che ho ereditato. Perché avevamo ventimila forestali a cui non si potevano pagare più gli stipendi, e io ho tagliato quattrocento milioni di sprechi. E così mi odia questo sistema di potere trasversale». 
Però anche Faraone, i renziani, la attaccano. Loro c’entrano con quel sistema di potere? 
«Questo Faraone vuole solo fottermi la seggiola. Vogliono tutti la mia poltrona. Da Roma vogliono imporre dei piccoli proconsoli, non accettano che ci sia un governatore eletto dai siciliani, che lavora in autonomia».
E Renzi? 
«Sono l’unico governatore con cui non ha mai, mai parlato, neanche una volta. Il governo ci deve 350 milioni di coperture, c’è una sentenza della Consulta, e non ce le dà per strangolarmi».
Però anche lei è un po’ mollato da tutti, se ne va anche una donna simbolo, Lucia Borsellino, all’indomani dell’arresto diTutino... 
«Fossi in lei me ne sarei andato da prima! La capisco benissimo, è addolorata, è oggetto di attacchi vergognosi. Per i risparmi che abbiamo fatto nella sanità, qui rischiamo la pelle. Abbiamo licenziato 900 delinquenti. La sanità con me è tornata in attivo, e non ho aumentato le tasse. Ma magari Renzi la Borsellino la difenderà; a me no di certo. Palermo è la città che attaccava Falcone, che eliminò Mattarella, che fece fuori Pio Latorre, che voleva mettere ordine, anche nel partito... O morto o in galera, diciamo qui». 
Ma c'è questa storia di Matteo Tutino, il suo medico arrestato per accuse gravissime, peculato, truffa aggravata. I suoi nemici dicono che lei lo favorisse. 
«Ma quando mai! È una barbarie questo uso di inchieste che non mi toccano minimamente. Che devo fare la prossima volta, farmi scegliere il medico curante dal Csm? Io sono diabetico e ho un problema respiratorio. Dovevo operarmi all’addome e Tutino voleva farlo lui perché la cosa poteva rientrare tra gli interventi di chirurgia estetica, rimborsati. Bene: non l’ho fatto, sono andato da un privato e ho speso 3800 euro. Peraltro la pancetta la tengo ancora, come vede».
Scusi ma ha mai provato a parlare col premier? È del Pd. 
«Se lo chiamo mi passano i suoi attendenti, non m’interessa. Mi vogliono delegittimare e colpire. E pensare che il vero renziano ante litteram Sicilia sono io, la rottamazione la sto facendo io».

Corriere 2.7.15
Un’accelerazione per recuperare al voto amministrativo
di Massimo Franco


Più che per l’asse con Angela Merkel rinsaldato ieri a Berlino sulla Grecia, la conferenza stampa di Matteo Renzi ha colpito per il rilancio della velocità come cifra del governo: una velocità tesa all’obiettivo di celebrare nel giugno del 2016 il referendum costituzionale che dovrebbe vidimare la riforma del Senato. La pressione di Palazzo Chigi per approvare il testo entro il 7 agosto a Palazzo Madama risponde a questa esigenza. E per quanto i numeri non offrano garanzie alla maggioranza, la strategia del premier non cambierà. Anche perché il referendum viene visto come il volano di una rivincita del Pd dopo le regionali ed i ballottaggi di maggio.
Coinciderebbe infatti con il voto amministrativo del prossimo anno in città strategiche come Milano, Bologna, Torino, Napoli. Il calcolo di Palazzo Chigi è che il governo si presenti con il biglietto da visita della fine del bicameralismo; e sfidi le opposizioni coalizzate contro di lui, dal Movimento 5 Stelle alla Lega a FI, come campione del cambiamento contro una sorta di «cartello» della conservazione e dell’immobilismo. L’operazione dovrebbe «lavare» il risultato in chiaroscuro, comunque deludente, alle Regionali. Ma le variabili sono molte, a cominciare proprio dal fattore tempo.
Anche i sostenitori più leali di Renzi al Senato suggeriscono di non indicare date ultimative, per evitare resistenze. I rapporti con la minoranza del Pd rimangono tesi, e in commissione Affari costituzionali i rapporti di forza sono in bilico. Non si esclude qualche «assenza strategica» nelle file di FI per evitare che il governo vada sotto. Il problema è se alla lunga non si rischino comunque passi falsi. In più, qualcuno storce il naso all’idea che un cambiamento della Costituzione sia compiuto a tappe forzate per legarlo ad elezioni.
A Renzi è facile rispondere che le riforme sono una parte importante dell’azione del governo per recuperare credibilità presso l’opinione pubblica e a livello internazionale;
e che chi resiste, in realtà, punta all’immobilismo e allo sfascio. A rendere la «corsa» di Renzi circondata dalle incognite ci sono tuttavia altre questioni più di merito. Sta emergendo, ad esempio, il problema delle regioni a statuto speciale. A oggi, Sicilia, Sardegna, Friuli-Venezia Giulia, Valle d’Aosta, più le province di Trento e Bolzano, dovranno adeguare gli statuti alla riforma del Senato. Altrimenti, non si potrà applicare anche a loro.
Il problema è che il testo finisce per dare a questi enti locali un potere contrattuale notevole nei confronti del governo centrale: nel senso che solo un loro placet può consentire la riforma dello statuto. Escludere alcune regioni da una modifica così radicale crea un problema costituzionale e politico. Su questo punto si indovina un filo di preoccupazione perfino nelle più alte cariche dello Stato. Per questo, senza un accordo che superi i confini di Pd e Nuovo centrodestra, rispettare la tabella di marcia non sarà facile. Dopo quasi quattro mesi, oggi il disegno di legge che porta il nome del ministro delle riforme Maria Elena Boschi ricomincia a correre. Un Senato in tensione fa capire che sarà una tormentata corsa a ostacoli.

La Stampa 2.7.15
Mafia Capitale, Pignatone attacca il sistema coop
Il procuratore: “Sono privilegiate, e senza controlli interni”
di Francesco Grignetti


Sono parole che pesano come macigni, quelle cesellate dal procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Così è accaduto, ieri, nel corso di un’audizione davanti alla commissione Antimafia, che il magistrato abbia buttato là, con curata nonchalance, premesso che naturalmente la stragrande maggioranza è di onesti, un giudizio al vetriolo sul sistema cooperativo: «C’è una riflessione da fare sul ruolo delle cooperative. C’è da riflettere sulle agevolazioni, sulle simpatie e sui tipi di controlli di cui godono le cooperative. Ma questo non è compito della procura, è più compito della commissione».
Pignatone parlava delle coop malate di Mafia Capitale. Ad esempio di quella «19 Giugno» che era nata per dare lavoro a ex detenuti, ma era piuttosto una società mascherata di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Il contraccolpo, però, non è mancato. La presidente Rosy Bindi è andata a ruota: «Alla Commissione Antimafia non è sfuggita l’importanza delle cooperative. Sentiremo i responsabili della Cascina». E il mondo cooperativo s’è sentito sul banco degli accusati.
Coop sotto accusa
«Siamo i primi a chiedere di punire severamente chi sbaglia e di fare pulizia, perché chi commette reati danneggia profondamente nell’immagine la vera ed autentica cooperazione, ma diciamo no ai processi sommari», ha affermato Maurizio Gardini, presidente Confcooperative.
Ricordato che la cooperazione in Italia dà lavoro a 1,3 milione di persone e sono oltre 12 milioni i soci, è stato soprattutto l’accenno alle agevolazioni che ha preoccupato Gardini. Che dunque replica: «Una decina di cooperative non può essere presa a modello per demolire e danneggiare tutte le altre».
Già, ma il ragionamento del magistrato parte da alcuni fatti appurati dall’inchiesta su Mafia Capitale. Primo, l’organizzazione del duo Carminati-Buzzi è assolutamente inedita, associando un mondo criminale, quali gruppi di rapinatori e estorsori, a uno nobile quali le cooperative sociali, eppure utilizza i metodi mafiosi dell’intimidazione associata alla corruzione: ci sono già due pronunce in merito della Cassazione. Secondo, seppure non c’è paragone con i collegamenti di alto livello che Mafia Capitale poteva vantare nella gestione Alemanno, il cambio di maggioranza in Campidoglio non aveva preoccupato più di tanto i vertici dell’organizzazione. Si sentivano coperti a destra come a sinistra.
Trattamenti privilegiati
«Restano - ha spiegato il procuratore - i trattamenti privilegiati con Buzzi per tutta la durata delle indagini. Si registra per tutta la durata delle indagini una vera e propria attività di lobbing da parte di Buzzi e Carminati per imporre ai vertici personaggi amici». Dalle indagini emergono alleanze inimmaginabili per controllare gli appalti. Ed ecco perché Pignatone invita a ripensare al sistema. «I controlli interni nelle cooperative non hanno funzionato. Quanto ai controlli esterni, noi in procura non abbiamo ritenuto di trovare contestazioni di reati da attribuire ai funzionari del Viminale o della prefettura. Poi sull’efficienza o meno dei controlli, noi allo stato non siamo in grado di dirlo».
E' formalmente conclusa, intanto, l’inchiesta sul Centralino unico prenotazioni per la sanità regionale. Finirà a processo Maurizio Venafro, l’ex assistente del Governatore Zingaretti, ma nessun politico.

La Stampa 2.7.15
Più facile fare figli in provetta
Firmato ieri il nuovo decreto


Sono oltre 12 mila i bambini nati nel 2013 in Italia con la fecondazione assistita, con un rafforzamento dei centri privati che crescono di numero ed un trend di aumento dell’età delle donne che ricorrono alle tecniche per diventare madri. Quasi una su tre ha infatti oltre 40 anni. Lo afferma il ministero della Salute nella relazione trasmessa al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 40. Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, intanto, ha firmato il decreto di aggiornamento delle linee guida della L.40/2004, che regola la Procreazione Medicalmente Assistita (PMA), un provvedimento molto atteso dagli operatori del settore e dalle coppie che accedono a queste tecniche, e che entrerà in vigore con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Nel 2013 risultano 369 i centri autorizzati in Italia con 91.556 cicli di trattamento iniziati su 71.741 coppie, 15.550 gravidanze ottenute, 13.770 gravidanze monitorate, 10.350 parti ottenuti con 12.187 bambini nativi vivi che rappresentano il 2,4% del totale dei nati in Italia nel 2013 e, pur aumentando lievemente rispetto al 2012 (quando era pari al 2,2%), resta inferiore al valore massimo di 12.506 ottenuto nel 2010.
L’accesso alle tecniche di fecondazione assistita di donne in età sempre più avanzata è dovuta, secondo l’analisi del ministero, alla tendenza per cui, nel nostro paese, si cerca di avere figli in un’età sempre più elevata, quando la fertilità è ridotta. Questo fenomeno implica anche che la scoperta dell’infertilità si verifichi ad un’età nella quale anche l’efficacia delle tecniche di procreazione assistita è limitata. Ad esempio per le tecniche a fresco di II e III livello la percentuale di gravidanze per ciclo iniziato, da 43 anni in su, è del 4.6%, gravidanze che hanno un esito negativo nel 63.1% dei casi. «Le tecniche di fecondazione assistita rappresentano un’opportunità importante per il trattamento della sterilità, ma non sono in grado di dare un bambino a tutti», afferma il ministero che ricorda il Piano Nazionale per la Fertilità approvato per rendere consapevoli i cittadini sul ruolo della fertilità, sulla sua durata e su come proteggerla evitando comportamenti a rischio.
Sono oltre 12 mila i bambini nati nel 2013 in Italia con la fecondazione assistita, con un rafforzamento dei centri privati che crescono di numero ed un trend di aumento dell’età delle donne che ricorrono alle tecniche per diventare madri. Quasi una su tre ha infatti oltre 40 anni. Lo afferma il ministero della Salute nella relazione trasmessa al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 40. Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, intanto, ha firmato il decreto di aggiornamento delle linee guida della L.40/2004, che regola la Procreazione Medicalmente Assistita (PMA), un provvedimento molto atteso dagli operatori del settore e dalle coppie che accedono a queste tecniche, e che entrerà in vigore con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Nel 2013 risultano 369 i centri autorizzati in Italia con 91.556 cicli di trattamento iniziati su 71.741 coppie, 15.550 gravidanze ottenute, 13.770 gravidanze monitorate, 10.350 parti ottenuti con 12.187 bambini nativi vivi che rappresentano il 2,4% del totale dei nati in Italia nel 2013 e, pur aumentando lievemente rispetto al 2012 (quando era pari al 2,2%), resta inferiore al valore massimo di 12.506 ottenuto nel 2010.
L’accesso alle tecniche di fecondazione assistita di donne in età sempre più avanzata è dovuta, secondo l’analisi del ministero, alla tendenza per cui, nel nostro paese, si cerca di avere figli in un’età sempre più elevata, quando la fertilità è ridotta. Questo fenomeno implica anche che la scoperta dell’infertilità si verifichi ad un’età nella quale anche l’efficacia delle tecniche di procreazione assistita è limitata. Ad esempio per le tecniche a fresco di II e III livello la percentuale di gravidanze per ciclo iniziato, da 43 anni in su, è del 4.6%, gravidanze che hanno un esito negativo nel 63.1% dei casi. «Le tecniche di fecondazione assistita rappresentano un’opportunità importante per il trattamento della sterilità, ma non sono in grado di dare un bambino a tutti», afferma il ministero che ricorda il Piano Nazionale per la Fertilità approvato per rendere consapevoli i cittadini sul ruolo della fertilità, sulla sua durata e su come proteggerla evitando comportamenti a rischio.

La Stampa 2.7.15
La Cassazione:
“I giudici non prescrivano psicoterapie ai divorziati”


I giudici non possono prescrivere psicoterapie alle coppie che si lasciano in modo burrascoso e percorsi di sostegno alla genitorialità da seguire insieme: simili prescrizioni violano il «diritto alla libertà personale costituzionalmente garantito» e aggirano il divieto di imporre «trattamenti sanitari». Lo ha stabilito la Cassazione che - con la sentenza 13506 depositata ieri - ha messo al bando l’adozione di simili prescrizioni, ormai molto frequenti, da parte dei magistrati che tentano così di ridurre la conflittualità tra «ex» e addomesticarli ad avere rapporti se non proprio cordiali almeno un po’ più collaborativi e comunicativi.
Esprimendo questo orientamento, la Cassazione ha accolto il ricorso di un papà di Firenze, Luigi M., che nel 2007 si era lasciato ai ferri corti con la convivente Gabriela B., dalla quale l’anno prima aveva avuto un figlio. Il Tribunale e poi la Corte di Appello, avevano disposto l’affido condiviso del bambino collocandolo presso il padre e regolando le modalità di incontro con la madre. Erano inoltre stati prescritti «interventi di sostegno, orientamento e controllo mirati alla diminuzione del conflitto genitoriale».

Corriere 2.7.15
La nuova «Unità» e quel paragone con Pintor che irrita «il Manifesto»
di M. Gu.


ROMA La nuova Unità già litiga col Manifesto. Ha cominciato il direttore Norma Rangeri con un corsivo dal titolo «Eretico chi?». In bocca al lupo al giornale fondato da Gramsci e via con l’accusa di «travisare la storia con tesi bizzarre». Renzi come Luigi Pintor? L’azzardo è opera del neodirettore de L’Unità , Erasmo D’Angelis (ex Mani-festo), che riscontra nella «irruenza» del premier la stessa forza «rivoluzionaria» che animò il suo «maestro di giornalismo e di politica, un eretico dentro al Pci». Rangeri gli rinfresca la memoria: «Pintor in quanto eretico è stato radiato dal Pci. Rottama- to». Era dunque «l’esatto contrario» di Renzi, un «rotta- matore che sta mettendo ai margini gli eretici del suo partito». D’Angelis ribadisce la sua fede: «Il premier sta facendo riforme di sinistra mai viste, Rangeri ragiona con schemi Anni 70. Renzi non è un destrone figlio di Berlusco-ni». Ma Pintor, che c’azzecca? «Hanno portato entrambi una rivoluzione a sinistra. Matteo è un talento , nato per governare». Lecito chiedersi se l’Unità sarà «più realista del re». Tantopiù che, attacca Ran-geri, «non è con gli antenati altrui che si riconquistano i lettori». E D’Angelis, citando Renzi: «Il derby è tra speranza e antipolitica. O si cambia, o si muore».

Il Sole 2.7.15
Il suummit in Norvegia
Come finanziare l’educazione
L’accesso universale all’istruzione costa 210 miliardi di dollari entro il 2020
di Gordon Brown


La Norvegia, rappresentata dal premier Erna Solberg e dal ministro degli Esteri Børge Brende, ospiterà il 6 e 7 luglio una conferenza sull'istruzione per lo sviluppo con l'obiettivo di promuovere la cooperazione globale in materia di istruzione. La speranza è che il summit, a cui parteciperà il Segretario Onu Ban Ki-moon, contribuisca al perseguimento dell'obiettivo previsto dall'agenda per lo sviluppo post-2015 di garantire l'educazione prescolare, primaria e secondaria a tutti i bambini entro il 2030.
Ma di strada da fare ce n'è ancora tanta. Se oggi vi sono oltre 40 milioni di bambini scolarizzati in più rispetto al 2000, ce ne sono ancora 58 milioni e 63 milioni che non hanno accesso rispettivamente alla scuola primaria e secondaria e circa la metà dei bambini in età da scuola elementare vive in Paesi colpiti da guerre e crisi. Non ci sono mai stati tanti profughi bambini dai tempi della Seconda guerra mondiale. Le femmine, in particolare, riscontrano maggiori difficoltà perché devono lottare per guadagnarsi il diritto all'istruzione quando la lotta contro i matrimoni precoci, lo sfruttamento minorile e il traffico di donne e bambine non è ancora stata vinta.
I progressi non saranno facili, anche perché la crisi degli aiuti allo sviluppo è sempre più acuta. Nonostante l'aumento del 9% tra il 2010 e il 2013, gli aiuti destinati all'istruzione di base sono precipitati del 22%, passando dai già miseri 4,5 a 3,5 miliardi di dollari. Nei Paesi non fragili e a basso reddito, l'aiuto per l'istruzione primaria ammonta a soli 23$ annui a bambino – appena sufficienti per acquistare due libri di testo – 8% in meno rispetto a dieci anni fa. L'aiuto annuo per l'istruzione primaria è di soli 11$ a bambino nella Repubblica Democratica del Congo, in Togo e Guinea, di 10$ a bambino nella Repubblica Centrafricana e in Madagascar, di 5$ a bambino nel Ciad e di soli 4$ a bambino in Nigeria, il Paese con il più elevato tasso di non scolarizzazione.
Quelle cifre sono basse perché la spesa interna e altre fonti di finanziamento non sono abbastanza elevate da compensare la differenza. Nei Paesi più poveri, la spesa totale per l'istruzione è di circa 80$ a bambino l'anno – rispetto a più di 8000$ a bambino nelle economie avanzate – e può scendere fino a 24$ l'anno (nella Repubblica Democratica del Congo).
Il punto è che garantire un'istruzione a tutti i bambini del mondo costa. Garantire l'accesso universale all'educazione prescolare, primaria e secondaria nei Paesi a reddito basso e medio-basso costerà circa 210 miliardi di dollari entro il 2020 – cifra che non scende molto nemmeno con le più ottimistiche delle previsioni. Se i Paesi poveri spendessero tutta la loro capacità fiscale per l'istruzione, avrebbero bisogno di almeno altri 25 miliardi di dollari di fondi aggiuntivi.
La speranza è che i donatori di tutto il mondo aumentino gli aiuti all'istruzione a un ritmo simile a quello goduto dagli aiuti complessivi allo sviluppo negli ultimi dieci anni. I Paesi più poveri vedrebbero aumentare i loro tassi di crescita economica dell'1-2% portando il budget per l'istruzione da 2 al 5% del Pil, eppure, anche così mancherebbero almeno 15 miliardi di dollari l'anno.
Per colmare quella mancanza serve un approccio nuovo, che sfrutti nuove fonti di finanziamento come il settore privato, le organizzazioni filantropiche e le economie emergenti, assicurando un impiego più efficiente possibile del denaro. Le proposte interessanti non mancano certo.
Una proposta importante è una piattaforma umanitaria globale che finanzierebbe l'istruzione – insieme al sostentamento, alla protezione, all'alloggio e all'assistenza sanitaria – durante le emergenze. Un insieme di fondi prestabiliti e di facile accesso avrebbe potuto aiutare i milioni di bambini intrappolati nei conflitti in Iraq, Libia e Siria o il milione di alunni nepalesi rimasti senza una scuola a seguito del terremoto. Invece, si sono ritrovati con un gap di 4,8 miliardi di dollari. Con le crisi durature che stanno colpendo i bambini in tutto il mondo – dal Sud Sudan al Myanmar – non c'è tempo da perdere per istituire una piattaforma del genere.
Una seconda proposta vorrebbe che i governi nazionali tagliassero i sussidi nazionali per l'energia, costosi, inutili e poco mirati, e convogliassero il denaro così risparmiato nell'istruzione. Quei sussidi ammontano a qualcosa come 300 miliardi di dollari l'anno (secondo stime prudenziali) e tendono ad avvantaggiare i più abbienti, incoraggiando un consumo eccessivo.
L'Indonesia, per esempio, ha ridotto sostanzialmente i sussidi ai carburanti quando il governo si è reso conto che tra il 2009 e il 2013 vi aveva investito di più rispetto ai programmi per le infrastrutture e il welfare sociale. Con il prezzo del petrolio così basso, molti Paesi potrebbero seguire l'esempio indonesiano sfruttando le entrate extra per costruire scuole, assumere e formare nuovi insegnanti e migliorare l'insegnamento per tutti.
Una terza proposta implica il ricorso a meccanismi di aiuto innovativi come i Social impact bond per anticipare la nuova spesa per l'istruzione. Un approccio del genere, orientato al risultato, contribuirebbe a spronare la filantropia a favore dell'istruzione che al momento rappresenta solo un decimo di quella per la sanità. Sforzi altrettanto creativi potrebbero far aumentare l'impegno delle fondazioni caritatevoli: al momento le fondazioni americane investono solo l'1% delle risorse allo sviluppo nell'istruzione di base dei Paesi poveri.
L'ultima proposta al vaglio della Banca Mondiale è un'emissione di debito a fronte dei prestiti IDA. Con un afflusso di più di 150 miliardi di dollari nei prossimi quindici anni, potrebbe esserci un nuovo, cospicuo investimento sociale da parte della Banca.
Bertrand Badre, direttore finanziario della Banca Mondiale, ha un piano per sfruttare quegli afflussi futuri che andrebbero a sommarsi ad altre fonti di finanziamento. Se il piano Badre venisse attuato, verrebbero raccolti altri 10 miliardi di dollari – se non 20 – da destinare ogni anno allo sviluppo internazionale e parte di quei fondi sarebbe sicuramente investito nel settore che l'inchiesta della Banca Mondiale ha indicato come prioritario: l'istruzione.
Negli ultimi quindici anni abbiamo dimostrato che un'azione globale funziona, ma se vogliamo garantire a tutti i bambini le opportunità cui hanno diritto, dovremo fare molto di più.
(Traduzione di Francesca Novajra)

Repubblica 2.7.15
Lo scrittore
Mezzo secolo di stenti, ma alla fine vince Fidel
di Norberto Fuentes


UNA volta Fidel Castro disse che la sua più grande preoccupazione, in caso di guerra contro gli Stati Uniti, era che i cubani la vincessero. Ora tutto sembra indicare che quel giorno è arrivato, anche se forse non nella forma che lui poteva prevedere, con i suoi barbudos che marciavano su Washington a bordo dei loro carri armati T-62, e costretti a farsi carico immediatamente degli affari della General Motors e della AT&T.
È certo che i cubani hanno messo abbastanza morti nella contesa, e che la proporzione è minima in rapporto alle perdite di cittadini americani causate dai cubani. C’è da dire che non c’era americano che venisse catturato (a Cuba o in Angola) che Fidel non mandasse a giustiziare. In tutto non devono essere più di dieci. Il resto delle loro truppe sono sempre state la carne da cannone messa a disposizione dalla controrivoluzione annidata a Miami. Ma è stata soprattutto una guerra combattuta sul terreno della retorica, e in questo senso dobbiamo a Fidel Castro due cose: la sua abilità di non arrivare mai a uno scontro militare diretto («Fidel ha la capacità geniale di avanzare di concerto con il nemico», diceva il Che Guevara a quelli più intimi), e il fatto che in quelle battaglie di discorsi e propaganda è sempre riuscito a spuntarla, e a loro volta gli fornivano l’indispensabile ossigeno di rappresentatività internazionale che gli ha consentito di sopravvivere per cinquant’anni.
È rivelatore, in questo senso, quello che ha detto Obama nella sua conferenza stampa di questo mercoledì alla Casa Bianca per annunciare la riapertura – dopo 54 anni – delle relazioni diplomatiche a livello di ambasciate fra gli Stati Uniti e Cuba.
È indubbio che la rottura delle relazioni diplomatiche sia durata «troppo a lungo». Però quando aggiunge che nel momento in cui furono sospese, nel 1961, «nessuno si aspettava che sarebbe durato tanto», comincia la distorsione, e una volta di più precipitiamo nell’abisso della vecchia retorica. Perché sì, è vero che quando Eisenhower ordinò la rottura delle relazioni diplomatiche sperava che la normalizzazione potesse arrivare in «un futuro non lontano», ma quello che Obama elude, dimentica, o non racconta a se stesso è che nell’istante in cui Ike prese la decisione la Cia aveva duemila uomini che si addestravano a Retalhuleu, in Guatemala, e tutte le possibili componenti di un’invasione di Cuba – inclusi aviazione, mezzi navali ed elettronici – si stavano preparando. Ah, my dear friend, ora sì che ci capiamo. Le relazioni si sarebbero ristabilite subito perché ci saremmo sbarazzati di quegli impudenti nel giro di tre mesi. E quelli che occuperanno le rovine fumanti del palazzo presidenziale all’Avana saranno i nostri uomini, i nostri stipendiati, per dirlo con esattezza.
Quello che è successo dopo, e il marasma delle relazioni fra i due Paesi (che non era, ovviamente, nei piani della Cia) che si è prolungato per mezzo secolo, lo si deve all’incredibile capacità di resistenza che Fidel impresse a quel processo. E dunque, a guardar bene, in realtà si può dire che abbia vinto la guerra. Ma in modo differente.
Portando acqua al suo mulino, Obama dice che non appena riapriranno le ambasciate, il 20 luglio, «la bandiera a stelle e strisce potrà sventolare sull’Avana». Ha i toni di un conquistatore militare. Ma non vi lasciate trarre in inganno. Quello stesso giorno, e alla stessa ora, sventolerà a Washington anche la modesta bandiera con la stella solitaria.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

La Stampa 2.7.15
Assalto dell’Isis ai militari nel Sinai
L’Egitto: “È guerra”
Blitz contro 15 postazioni: 70 soldati uccisi, centinaia i feriti
Il Cairo risponde con gli F16, ma non riprende il controllo
di Maurizio Molinari


È guerra nel Nord Sinai fra i jihadisti dello Stato Islamico (Isis) e l’esercito egiziano. Nel più ampio attacco finora lanciato, Isis ha bersagliato almeno 15 postazioni militari fra El-Arish e Rafah, concentrando l’assalto sulla centrale di polizia a Sheikh Zuweid dove i combattimenti continuano.
Prima i kamikaze
I jihadisti si sono fatti largo con attacchi kamikaze - almeno tre - seguiti da ondate successive di miliziani. Gli scontri, aspri, hanno visto Isis impiegare mine e trappole esplosive per ostacolare i movimenti di terra egiziani. «Hanno usato oltre 300 uomini, ripetendo tecniche viste di recente in altri Paesi» afferma il generale egiziano Hisham El-Halaby. Per questo Il Cairo ha dovuto impiegare F-16 e elicotteri Apache bersagliando dall’aria gli attaccanti, ma senza riuscire a riconquistare il pieno controllo della situazione. Il bilancio di sangue descrive l’entità della battaglia: almeno 70 i militari uccisi assieme ad una quarantina di terroristi, centinaia i feriti su ambo i fronti. Ma si tratta di notizie frammentarie, raccolte da fonti arabe locali secondo cui la guarnigione di polizia di Sheikh Zuweid sarebbe «imprigionata» all’interno dell’edificio, con gli agenti che «chiedono aiuto». I soldati egiziani hanno difficoltà a liberarla per il massiccio uso di missili anti-tank con cui i jihadisti colpiscono blindati e carri armati. È la prima volta che «Bayt al-Maqqdis», il gruppo islamico del Sinai che in settembre ha aderito ad Isis diventando «Provincia del Sinai», riesce a conquistare aree di territorio per un periodo prolungato, ottenendo un risultato tattico che crea imbarazzo al Cairo.
«Stato di guerra»
Questo spiega perché il premier Ibrahim Mahlab parla di «stato di guerra» preannunciando l’adozione di nuove misure anti-terrorismo da parte del consiglio nazionale di sicurezza, riunito in permanenza. E al Cairo le forze di sicurezza hanno ucciso in un blitz 9 militanti dei Fratelli musulmani. Il presidente Abdel Fattah Al Sisi ipotizza una «campagna di due anni» contro i jihadisti. A dare la misura di quanto sta avvenendo sono le reazioni di Israele.
La reazione di Israele
Il premier Benjamin Netanyahu ha riunito al ministrero degli Esteri gli ambasciatori accreditati affermando: «Isis è ai nostri confini, non più solo sul Golan ma a Rafah, in Egitto» creando una nuova situazione strategica. «Siamo a fianco dell’Egitto, assieme a molte nazioni nel mondo, nella comune battaglia contro l’estremismo islamico - ha aggiunto Netanyahu - che si origina dai sunniti di Isis come dall’Iran sciita». Lo Stato ebraico ha chiuso i confini con l’Egitto, posizionato i tank e adopera i droni per monitorare quanto sta avvenendo. La cooperazione militare fra Egitto e Israele si è intensificata da quando Al Sisi è stato eletto ma l’entità dell’offensiva di Isis contro Sheikh Zuweid ha sorpreso entrambi.

La Stampa 2.7.15
In Cina i trader di Borsa superano gli iscritti al Partito comunista
Giro di vite sulla sicurezza nazionale, il presidente Xi blinda il potere
di Ilaria Maria Sala


Sarà che la lotta spietata alla corruzione lanciata dal presidente Xi Jinping ha reso la carriera politica meno appetibile e non più la strada più sicura per arricchirsi; sarà forse che ormai la Cina guarda al mercato e alle sue regole da una posizione di forza e sono sempre di più coloro che beneficiano delle ricadute munifiche. Comunque nel Paese che fu di Mao e che ancora si regge - eccome - sul Partito unico, comunista, i trader, ovvero gli operatori di Borsa, hanno superato gli iscritti al Partito comunista. Novanta milioni contro poco meno di 88. Certo, per diventare trader non è necessario sottoporsi alla selezione che si affronta per entrare nel Partito, e molti di loro hanno sicuramente la tessera del Partito in tasca. Però il dato colpisce. E colpisce ancora di più se lo mettiamo in relazione alla ossessione per il controllo che Pechino non riesce a scrollarsi di dosso: la Cina insomma vuole essere moderna, ma continua a percepire ciò che è «straniero» come potenzialmente sospetto.
La nuova legge
In questa senso va la nuova legge sulla Sicurezza nazionale: anzitutto la definizione di «sicurezza nazionale» è talmente vasta che comprende praticamente tutto. Dal cyberspazio alla difesa, passando però per la religione e la «cultura», non meglio definita. Tutto può essere una minaccia per la sicurezza cinese, al punto da sollevare il dubbio che il Partito, malgrado mantenga nelle sue mani tutto il potere, abbia anche la preoccupazione sulla sua capacità di restare al comando.
Un uomo al comando
La legge è così vaga che nemmeno specifica quale sia l’istituzione incaricata di applicarla. «La legge mette l’intero potere decisionale in un’istituzione che non esiste», nota Nicholas Bequelin, direttore per l’Asia Orientale di Amnesty International: «Ovvero, affida ogni decisione allo stesso Xi Jinping. Non sembra nemmeno un documento giuridico, ma piuttosto un programma politico». Si tratta dunque di una legge che «ha più a che vedere con il desiderio di proteggere il controllo del Paese da parte del Partito comunista che non una legge sulla sicurezza nazionale: nella legge stessa, il monopolio del Partito comunista è menzionato in modo esplicito come parte integrante della sicurezza nazionale», commenta Bequelin.
La nuova legge potrebbe essere solo un antipasto di un successivo giro di vite: sono infatti attese altre due leggi: una sulle Organizzazioni non governative (Ong) straniere, e l’altra sul terrorismo che limita ancora di più le attività consentite in Tibet e Xinjiang.

La Stampa 2.7.15
Morto lo Schindler britannico
Salvò 669 bambini dai lager nazisti
Figlio di un banchiere ebreo, organizzò a Praga la fuga dei piccoli che le famiglie gli affidarono dopo l’annessione tedesca dei Sudeti
di Vittorio Sabadin


Nel 1939, Nicholas Winton era un broker di successo alla Borsa di Londra. Figlio di un ricco banchiere, viveva con i genitori in una casa di 20 stanze e non aveva un problema al mondo. Era in partenza per una vacanza in Svizzera quando per uno di quegli inspiegabili impulsi che sono all’origine di molte azioni eroiche, decise di andare invece a Praga, in Cecoslovacchia. Aveva appena ricevuto la telefonata di un amico, Martin Blake, che a Praga si trovava già da parecchie settimane. «Vieni ad aiutarmi – gli aveva detto Blake –. Puoi lasciare gli sci a casa, non ti serviranno».
Nicholas Winton era di origini ebraiche, i suoi genitori erano emigrati tedeschi che si chiamavano Wertheim prima di convertirsi al Cristianesimo e adottare un cognome più «inglese». Quello che il suo amico Blake gli aveva raccontato al telefono aveva bisogno di una azione immediata: migliaia di bambini ebrei erano stati separati dai loro genitori dopo l’annessione dei Sudeti alla Germania decisa da Hitler e numerose famiglie avevano deciso di affidare i bambini ad amici e conoscenti, perché le voci delle deportazioni in massa si erano già diffuse ormai ovunque. A Londra, un anno prima, era stato istituito il Kindertransport, un sistema grazie al quale più di 10.000 bambini sarebbero stati portati al sicuro a Londra dal Continente prima dello scoppio della guerra. Ma il Refugee Children’s Movement che organizzava la complessa operazione aveva inviato emissari solo in Germania e in Austria, e nessuno si occupava dei bambini ebrei della regione dei Sudeti.
Arrivato a Praga, Winton trovò una stanza in un albergo e cominciò ad organizzarsi. Dopo qualche giorno, davanti alla sua porta c’era una lunga coda di coppie che gli portavano i loro figli, pregandolo di condurli in salvo in Gran Bretagna. I problemi da risolvere sembravano insormontabili, ma la vera guerra non era ancora cominciata e ci si poteva arrangiare in qualche modo. Quelli della Gestapo facevano storie, ma una buona mancia bastava quasi sempre a rabbonirli. Bisognava organizzare alcuni treni che avrebbero dovuto attraversare mezza Europa e altre mance andavano destinate a capistazione, casellanti e conducenti. Occorrevano documenti falsi, bisognava essere pronti a corrompere, a ingannare e mentire. Per trovare i soldi necessari, Winton tornò a Londra e organizzò un comitato con l’aiuto di sua madre, che coalizzò intorno a sé solidarietà e finanziamenti.
Il primo treno dei bambini di Winton partì da Praga il 14 marzo del 1939, il giorno in cui Hitler proclamò la Boemia e la Moravia protettorati tedeschi. Il convoglio attraversò parte della Germania, passando da Norimberga e Colonia, poi l’Olanda fino alla costa, dove i bambini furono caricati su una nave e portati ad Harwich, per proseguire in treno fino alla Liverpool Station di Londra. Winton riuscì ad organizzare nove treni e a portare in salvo 669 bambini. L’ultimo sfortunato convoglio, che ne trasportava 250, partì il 1° settembre del 1939, il giorno in cui Hitler invase la Polonia, ma fu dirottato lungo il percorso, senza lasciare alcuna traccia di sé e dei suoi passeggeri.
Winton tornò in patria e si arruolò nella Raf, per compiere il proprio dovere anche nella guerra vera. Non parlò con nessuno di quanto aveva fatto a Praga. Anni dopo spiegò che la considerava una cosa normale, che capita nella vita che si debbano compiere azioni rischiose: alcuni decidono di farlo, altri preferiscono di no. E’ stata sua moglie Grete Gielstrup, una danese che aveva sposato nel 1948, a scoprire in soffitta nel 1988 vecchi e polverosi registri che contenevano i nomi di centinaia di bambini ebrei con altre annotazioni che riguardavano il loro viaggio verso la salvezza. Winton, che non ricordava di avere conservato quei documenti, avrebbe voluto distruggerli, ma Grete si oppose e fece in modo che il mondo sapesse - mezzo secolo dopo - che cosa suo marito aveva fatto.
Oggi, davanti alla stazione di Liverpool Street c’è un bel monumento che ricorda i bambini messi in salvo durante la guerra e una decina di film e di documentari sono stati dedicati a Winton, paragonato a Oskar Schindler e a Raoul Wallenberg, insignito di decine di onorificenze in ogni parte del mondo e anche delle insegne di Cavaliere dalla regina Elisabetta nel 2003.
Il primo settembre del 2009, 70 anni esatti dopo la partenza dell’ultimo convoglio, un treno è partito dalla stazione di Praga, con a bordo molte persone anziane accompagnate da figli e nipoti: erano i «Winton children» e i loro discendenti. Sono circa 6000 e quasi tutti parteciperanno al funerale dell’uomo al quale devono la vita. Nicholas Winton è morto ieri a 106 anni nella sua casa di Maidenhead, a Ovest di Londra, assistito da sua figlia Barbara e da due nipoti. Nemmeno in questa occasione avrebbe probabilmente voluto che si parlasse di lui, ma questo eroe sarà invece ricordato per sempre, come merita.

Repubblica 2.7.15
L’esperimento
Il mondo visto dagli occhi dei bimbi “Così a cinque mesi decifrano un sorriso”
Il mondo è sfocato e senza colori, quando si è appena nati.
I neogenitori possono immedesimarsi nei loro piccoli grazie a un software che simula la visione di un neonato che ha appena due giorni
di Elena Dusi


Gli adulti nel test avevano il compito di riconoscere le immagini riadattate Udito, tatto e olfatto sono facoltà innate. Invece per la vista è necessario un apprendimento

Per dare sicurezza, occorre che il sorriso di mamma e papà sia ampio, luminoso e soprattutto molto vicino. Se a 30 centimetri il bambino riconosce solo una vaga espressione del viso che ha di fronte, a 60 centimetri i volti diventano macchie grigiastre e a 120 sono praticamente indistinguibili. Da oggi i neogenitori possono immedesimarsi con gli occhi del loro bambino grazie a un software che simula la visione di un neonato di 2 giorni. Lo hanno realizzato gli esperti di ottica e psicologia delle università di Oslo e di Uppsala, in Svezia, che hanno poi pubblicato le immagini sul Journal of Vision .
«I bambini hanno una vista molto ridotta e non percepiscono i colori» spiega Svein Magnussen, lo psicologo di Oslo che ha coordinato lo studio. «Lo si è dimostrato tempo fa usando pannelli con strisce che avevano densità e contrasto variabili. Noi abbiamo preso delle immagini normali, abbiamo sottratto i colori e tutte le altre informazioni che i neonati non possono percepire. Il metodo che abbiamo usato non è troppo diverso da Photoshop». I video di un uomo e una donna che mutano le loro espressioni, da felice ad arrabbiata, poi neutrale e infine sorpresa sono stati mostrati a degli adulti, che avevano il compito di riconoscere lo stato d’animo delle immagini riadattate con gli occhi di un bimbo. A 30 centimetri (la distanza che in genere separa il volto di un bimbo da quello della madre che lo allatta) il test è stato superato da tutti i volontari che avevano di fronte un viso allegro, ma solo dal 60% di quelli che guardavano il volto arrabbiato. A 60 centimetri e poi a 120 capire che faccia avessero le immagini era diventato un rebus. “L’espressione più facile da indentificare per i neonati è il sorriso” scrivono i ricercatori. “Gli esseri umani hanno un meccanismo molto robusto sia per riconoscere che per sfoggiare questo gesto facciale”.
Perché un bimbo riesca a coordinare gli occhi occorre aspettare 5 mesi. «Tra i 5 e gli 8 mesi, oltre che a mantenere gli occhi dritti, un bambino impara a percepire i colori e riconoscere le distanze» spiega Paolo Perissutti, ex primario di oftalmologia pediatrica all’Istituto Burlo Garofolo di Trieste. Ma ci sono aspetti come la crescita dei bulbi oculari e la maturazione della retina che arrivano a compimento a 13 anni. «Anche se ha una visione imperfetta, il neonato riconosce gli elementi centrali di un volto come bocca e occhi» spiega Stefano Vicari, primario di neuropsichiatria infantile all’ospedale Bambino Gesù di Roma. «Questo gli basta per riconoscere le emozioni di un adulto e soprattutto per imitarlo». Prima ancora che la vista si sviluppi, un neonato è molto bravo a riconoscere il suo piccolo mondo sentendo l’odore della madre e percependo i battiti del suo cuore quando è in braccio. «Udito, tatto e olfatto sono facoltà innate nei bambini» spiega Perissutti. «La vista invece è frutto di apprendimento e ha bisogno di essere stimolata. Nei bambini molto piccoli si possono usare giochi dai colori accesi, tenuti a 40-50 centimetri di distanza». Ma se nel neonato le immagini sono ancora confuse, «un canto smorzato, una musica gradevole come Mozart, un massaggio dolce, una forte intimità con i genitori fatta di sguardi e carezze — sostiene Vicari — sono la premessa per lo sviluppo di un bambino equilibrato e intelligente».