LA MISCELLANEA DI MARTEDI 1 LUGLIO 2015
Il Sole 1.7.15
La scommessa dei mercati: nessuno vuole lo schianto
di Morya Longo
Sono disposti i leader europei a scaricare sulle spalle della collettività l’enorme costo economico derivante da un eventuale default della Grecia, pur di non pagare il costo politico di un eventuale accordo sgradito ai loro elettori? Questa è la domanda che sui mercati finanziari - e non solo - in tanti si ponevano ancora ieri pomeriggio, alla vigilia dell’Eurogruppo. Perché se si guardasse solo l’aspetto economico della vicenda greca, l’accordo tra Atene ed Europa sarebbe scontato: il costo di una mancata intesa sarebbe infatti molto maggiore anche di un salvataggio vero e proprio del Paese ellenico. Ma tenendo in considerazione l’impatto politico, la risposta non è più così scontata: pressati dai partiti anti-euro, i capi di Stato oggi devono infatti gestire un’opinione pubblica sempre più ostile a concessioni alla Grecia. La domanda, in questi ultimi giorni di trattative, dunque è: i leader europei preferiranno pagare il costo politico o quello economico? O troveranno la quadra per ridurre entrambi? I mercati ieri erano sempre più convinti che, alla fine, la quadra sarà trovata. Ma la partita è ancora in corso.
I costi economici
Stimare i due piatti della bilancia non è facile. Ma qualche numero si può provare a ipotizzare. Iniziamo dal “piatto” economico. Se l’Europa per assurdo salvasse letteralmente la Grecia, riducendogli il debito in modo da portarlo a un gestibile 100% del Pil, pagherebbe un conto (secondo i calcoli di Alberto Gallo di Rbs) di circa 140 miliardi di euro. L’1,4% del Pil europeo. Sono tanti soldi, certo, ma nulla di ingestibile. Per eliminare la spina nel fianco della crisi greca, che ormai da 5 anni pesa sul Vecchio continente, forse varrebbe
la pena pagarli.
Se invece l’Europa lasciasse finire Atene in default o addirittura fuori dall’euro, il conto sarebbe molto più salato. Solo il costo diretto - stima sempre Rbs - potrebbe arrivare ad almeno 250-300 miliardi, ipotizzando perdite in percentuale sul debito in linea con altri casi della storia. A questo si aggiungerebbe poi il costo indiretto (soprattutto nel caso di Grexit): il verosimile contagio finanziario (che alzerebbe i rendimenti dei titoli di Stato e peserebbe sulle banche), ma anche il contagio economico e sul credito. Su questo fronte è impossibile fare stime, ma di certo il conto salirebbe molto. A guardare questi numeri qualunque leader europeo non dovrebbe dunque avere dubbi: è molto meglio salvare la Grecia, anche tagliandole parte del debito.
I costi politici
Ma la politica non si fa con la calcolatrice in mano. Una scelta del genere sarebbe ingiusta verso i paesi che di sacrifici ne hanno fatti tanti, favorirebbe comportamenti sempre meno responsabili da parte della stessa Grecia o di altri Paesi, e darebbe più forza ai partiti anti-euro. «Inoltre - osserva Andrea Delitala, Head of Investment Advisory di Pictet Am - eccessive concessioni ad Atene ridurrebbero la credibilità dell’Europa stessa, che dimostrerebbe di non essere in grado di imporre ai Paesi
membri le regole della convivenza comune».
Qui entra dunque in gioco l’altro piatto della bilancia: il costo politico. Alla fine di quest’anno si terranno le elezioni in Spagna, dove il governo di Mariano Rajoi è pressato dalla crescente esuberanza del partito anti-austerità Podemos. Per lui sarebbe difficile spiegare all’opinione pubblica che i sacrifici fatti dagli spagnoli sono stati “risparmiati” ai greci. E che i soldi prestati da Madrid ad Atene sono in parte stati “tagliati”, mentre quelli prestati dall’Europa alla Spagna devono essere pagati fino all’ultimo centesimo.
Tra due anni ci saranno anche le elezioni presidenziali in Francia e le politiche in Germania. E probabilmente non è un caso - nota Antonio Cesarano, economista di Mps Capital Services - che l’ultima offerta fatta dal Governo greco all’Europa preveda un’intesa che duri proprio due anni. Per tutti questi motivi, l’evidente convenienza economica di salvare la Grecia viene superata dall’altrettanto evidente sconvenienza politica (e per molti versi morale).
Gli operatori di Borsa, gli investitori e gli economisti tutto questo lo soppesano da mesi. Ma, in generale, restano abbastanza fiduciosi sul fatto che alla fine un accordo venga trovato: il sentiero del compromesso è sempre più stretto, ma in Borsa prevale la sensazione che nessuno voglia veramente il disastro. La chiave di volta per il compromesso e per la ristrutturazione del debito greco potrebbe essere la «condizionalità»: cioè condizionare la ristrutturazione a precise misure da parte
della Grecia. Il mercato inizia a crederci.
La Stampa 1.7.15
Obama teme i contraccolpi sul Pil e un Mediterraneo a trazione russa
La Casa Bianca in campo: dall’euro debole un colpo all’export
di Maurizio Molinari
Dietro le pressioni della Casa Bianca sui leader dell’Ue per evitare il collasso di Atene c’è il timore che la Grecia divenga il primo «Stato fallito» dell’Occidente, causando gravi danni all’economia Usa e avvantaggiando Vladimir Putin nel Mediterraneo Orientale.
È il presidente Barack Obama che, incontrando alla Casa Bianca la collega brasiliana Wilma Roussef, parla di «contatti intensi» con le capitali Ue e auspica «un’intesa»: sono gli stessi messaggi che i suoi inviati recapitano, con crescente insistenza, a Berlino, Parigi e Bruxelles. È un pressing che Joseph Gagnon, già economista alla Federal Reserve oggi in forza al «Peterson Institute» di Washington, riassume così: «Il crollo della Grecia può indebolire l’economia americana». Per capire cosa intende basta guardare a cosa è avvenuto nei primi tre mesi dell’anno: l’apprezzamento del dollaro sull’euro del 18 per cento ha fatto impennare il deficit commerciale portando a un brusco calo dell’1,9% del pil nel primo trimestre che si è aggiunto all’arretramento dell’1% nell’ultimo trimestre del 2014 per il complessivo maggior balzo indietro dal 1998. «Se l’Europa non cresce come deve, ciò ha un impatto su di noi» afferma Obama. William Dudley, presidente della Federal Reserve di New York, definisce la Grecia una «gigantesca incognita» perché l’uscita dall’euro potrebbe indebolire la moneta unica assegnando al dollaro una forza tale da nuocere all’export del «made in Usa» nel lungo periodo. Austan Goolsbee, già capo economista nella Casa Bianca ora tornato a insegnare all’Università di Chicago, va anche oltre, descrivendo questo scenario: «C’è chi pensa che la Grecia possa rimanere solo un problema greco, non sono d’accordo - spiega al “Washington Post” - perché se Atene lascerà l’Eurozona si innescherà un effetto-domino di shock che porterà altri Paesi europei a trovarsi in una situazione simile entro un paio di anni, penso probabilmente al Portogallo o anche all’Italia». Da qui la necessità di un ruolo americano incisivo per arginare la crisi greca nell’area finanziaria euro-atlantica, come già avvenuto più volte negli ultimi sei anni. Ma non è tutto perché «se la Grecia dovesse diventare uno Stato fallito - aggiunge Sebastian Mallaby, analista di economia internazionale al Council on Foreign Relations di New York - sarebbe un regalo geopolitico alla Russia di Putin». Il motivo è che «a dispetto degli ingenti sforzi dedicati da Usa e Ue a sanzionare economicamente la Russia per l’Ucraina, ci troveremmo davanti ad un ex Paese Ue che finisce nell’area economica di Mosca» con evidenti effetti negativi sulla Nato. Le recenti visite a Mosca e San Pietroburgo dei leader ellenici sommate alle allettanti offerte di Putin per un accordo sullo sfruttamento del gas naturale nel Mediterraneo Orientale - assieme a Cipro e Israele - fanno sì che «Atene ha un’alternativa disponibile se l’Ue le chiuderà la porta in faccia» sottolinea Mallaby. Se a ciò aggiungiamo che il Mediterraneo Orientale è già un fianco indebolito dell’Alleanza Atlantica, a causa delle ambiguità della Turchia di Recep Tayyp Erdogan nella lotta ai gruppi jihadisti, ce n’è abbastanza per spiegare perché Obama definisca la Grecia fonte di «preoccupazioni molto serie per questa amministrazione».
Corriere 1.7.15
Matteo Renzi
La scelta di stare con Merkel: senza la linea dura si favoriscono i populisti
di Maria teresa Meli
ROMA Matteo Renzi, che oggi vedrà Angela Merkel (un incontro più dovuto alle circostanze che ad altro) è preoccupato per quello che sta avvenendo in Grecia. Soprattutto per i riflessi che questa vicenda potrebbe avere sul nostro Paese. E non si sta parlando solo degli effetti economici di una eventuale fuoriuscita di quel paese dalla Grecia.
Il premier contava di poter allargare le maglie strettissime della Ue rispetto al nostro debito e di rinegoziarlo già nel 2016. Certo il prossimo anno non avrebbe tentato di rimettere in discussione il fiscal compact . Quello era fuori discussione. Ma l’avrebbe fatto sicuramente l’anno dopo ancora.
Ora il quadro è cambiato e il premier si deve adeguare. Con un punto che resta fermo: mantenere l’asse faticosamente costruito con la Germania. Dal giorno in cui Renzi ha capito che Hollande, pur stando con lui nel partito socialista europeo, non gli avrebbe mai fatto da sponda contro il rigore dei tedeschi, ha compreso che avrebbe dovuto prendere un’altra strada per ottenere quel risultato.
Ma adesso la vicenda greca rischia di rovinare tutta la sua opera diplomatica. E non solo per questo.
Già, perché se Tsipras ricatta l’Europa in nome di un referendum antieuro e alla fine ottiene qualcosa, Renzi ha perso anche la sua partita politica. E questo significherebbe che i suoi spazi di manovra si restringerebbero ulteriormente. Su questo fronte il ragionamento del presidente del Consiglio, in soldoni è questo, e lo ha fatto a ministri, collaboratori e fedelissimi: «Se in Europa passasse la linea dettata da Tsipras e Varoufakis, per il governo italiano sarebbe la fine. E non solo per quello italiano, perché dovrebbero cominciare a preoccuparsi anche gli spagnoli, tanto per fare un esempio vicino a casa nostra. «A quel punto — è la riflessione che il presidente del Consiglio ha fatto ad alta voce davanti ai fedelissimi, chiuso in una stanza di Palazzo Chigi — qualsiasi forza estremista senza progetto di cambiamento o di governo potrebbe essere avvantaggiata in un duello elettorale. Quindi, «in Spagna vincerebbe Podemos e qui in Italia salirebbero alle stelle le quotazioni di Grillo e Salvini».
È chiaro che in questa fase il premier preferisce non giocare all’attacco, ma, piuttosto, stare in difesa e cercare di capire che cosa succede altrove. «Noi abbiamo una nostra dignità da difendere, ma questa svolta dovrà difenderla tutta l’Europa»
Fin dove si spingerà la minoranza interna del Pd, giacché una fetta di quel partito preferisce invece andar via dal Nazareno e gestirsi in proprio, guardando a Tsipras, è un altro fronte aperto in questo momento per Renzi. Forse il meno preoccupante. Perché le immagini di una Grecia in ginocchio, causa euro (anche se non è così, continua a ripetere il premier), non portano voti alla sinistra del Pd, ma a Grillo e Salvini, per l’appunto, come ha spiegato bene lo stesso Renzi ai fedelissimi e ai parlamentari a lui più vicini.
La partita greca che si gioca nell’italica sinistra non lo preoccupa per niente. Il presidente del Consiglio non fa altro che ricordare alla minoranza interna che vorrebbe partire per la Grecia per dare una mano Tsipras che «sarà un’eterna perdente finché non capirà che occorre sfondare al centro». Esattamente ciò che Renzi ha fatto in Italia. E sta facendo in Europa, dopo aver imparato la lezione di Hollande. Una volta ebbe a dire: «So bene che lui, alla fine della festa, si schiera sempre con la Merkel». E allora perché non batterlo sul tempo e affiancarsi prima lui alla cancelliera tedesca? Prima di perdere quel piccolo ruolo che l’Italia mantiene ancora nello scenario internazionale? Quindi, se non «avanti tutta»con Merkel, almeno seguirla anche in questa intricatissima vicenda greca. Finché non sarà chiaro a tutti i partner europei che l’Italia, al contrario di altri, le sue riforme, le ha fatte, e ora può negoziare, senza ricatti o referendum stile Tsipras. Perché è questo quello che preme più al premier, che la Grecia non rovini il lavoro che ha fatto in questo anno e più per allentare le maglie della Ue nei confronti del nostro Paese.
Repubblica 1.7.15
La radice e la memoria
Siamo tutti figli del logos Ecco perché la Grecia resterà sempre la miglior patria d’Europa
La cultura nata all’ombra del Partenone fa parte del mito fondativo del Vecchio continente
E i singoli Stati non devono ignorarlo se non vogliono disfarsi tra nazionalismi e calcoli economici
Quel pensiero ci raccoglie insieme, è la nostra radice e ha informato di sé la storia e il destino dell’Occidente
Oggi Atene grida al mondo che l’unità del denaro non produce di per sé alcuna comunità politica
di Massimo Cacciari
Può l’Europa fare a meno della Grecia? Se la domanda fosse stata rivolta a uno qualsiasi dei protagonisti della cultura europea almeno dal Petrarca in poi, questi neppure ne avrebbe compreso il significato. La patria di Europa è l’Ellade, la “migliore patria”, avrebbe risposto, come verrà chiamata da Wilhelm von Humboldt, fondatore dell’Università di Berlino. Filologia e filosofia si accompagnano, magari confliggendo tra loro, nel dar ragione di questa spirituale figliolanza. Non si tratta affatto di vaghe nostalgie per perdute bellezze, né di sedentaria erudizione per un presunto glorioso passato, coltivate da letterati in vacua polemica con il primato di Scienza e Tecnica. Oltre le differenze di tradizione, costumi, lingue e confessioni religiose che costituiscono l’arcipelago d’Europa, oltre l’appartenenza di ciascuno a una o all’altra delle sue “isole”, si comprende che il logos greco ne è portante radice, che non si intende il proprio parlare, che si sarà parlati soltanto, se non restiamo in colloquio con esso. Quel logos ci raccoglie insieme e ha informato di sé la storia,il destino di Europa. Ciò vale per pensatori e movimenti culturali opposti, per Hegel come per Nietzsche.Vale per scienziati come Schroedinger, Heisenberg, Pauli. Vale anche per coloro che si sforzano di pensare ciò che nella civiltà europea resterebbe non-pensato o in-audito: anche costoro non possono costruire la propria visione che nel confronto con quella greca classica. Per la cultura europea, dall’Umanesimo alle catastrofi del Novecento, la memoria della “migliore patria” è tutta attiva e immaginativa: non si dà formazione, non può essere pensata costruzione-educazione della persona umana nella integrità e complessità delle sue dimensioni senza l’interiorizzazione dei valori che in essa avrebbero trovato la più perfetta espressione. Un grande filosofo, Edmund Husserl, li ha riassunti in una potente prospettiva: nulla accogliere come quieto presupposto, tutto interrogare, procedere per pure evidenze razionali, regolare la propria stessa vita secondo norme razionali, volere che il mondo si trasfiguri teleologicamente in un prodotto della vita di questo stesso sapere. Una follia? Forse — ma una follia che ha veramente finito col dominare il mondo. Eurocentrismo? Certamente — ma autore dell’occidentalizzazione dell’intero pianeta.
La Grecia non assume più per noi alcun rilievo culturale e simbolico? Possiamo ormai contemplarla come l’Iperione di Hölderlin dalle cime dell’istmo di Coritno: «lontani e morti sono coloro che ho amato, nessuna voce mi porta più notizie di loro»? Come è spiegabile un simile sradicamento? L’anima bella “progressista” risponde con estrema facilità: quell’idea di formazione che aveva la Grecia al suo centro era manifestamente elitaria, anti-democratica; la sua fine coincide con l’affermazione dei movimenti di massa sulla scena politica europea. Io credo che la risposta sia ancora più semplice, ma estremamente più dolorosa. Tra l’ora attuale( noi, i “moderni”!) e la “patria migliore” c’è il suicidio d’Europa attraverso due guerre mondiali. L’oblio dell’Ellade è il segno evidente della fine d’Europa come grande potenza. Si badi: grande potenza è anche lo Stato o la confederazione di Stati che intendano diventarlo. Essi dovranno, infatti, dotarsi tanto di armi politiche ed economiche quanto di una strategia volta alla formazione di classe dirigente e di una cultura egemonica. Sempre così è stato e sempre così avverrà. Quando vent’anni fa scrivevo Geofilosofia dell’Europa e L’Arcipelago ancora speravo che questo arduo cammino si potesse intraprendere. E ci si risparmi la fatica di ripetere che non è affatto necessario che ciò si realizzi nel senso di una volontà di potenza sopraffattrice. L’Europa può ora pensare di dimenticare la Grecia, perché rinuncia a svolgere una grande politica, la quale può fondarsi soltanto sulla coscienza di costituire un’unità di distinti, aventi comune provenienza e comune destino. Se questa coscienza vi fosse stata, avremmo avuto una politica mediterranea, piani strategici di sostegno economico per i Paesi dell’altra sponda, un ruolo attivo in tutte le crisi mediorientali. E avremmo avuto grandi interventi comunitari per la formazione, gli investimenti in ricerca, l’occupazione giovanile. Tutto si tiene. Una comunità di popoli capace di svolgere un ruolo politico globale non può non avere memoria viva di sé, memoria di ciò che essa è nella sua storia, e non di un morto passato.
Tutti miti — diranno gli incantati disincantati dell’economicismo imperante. So bene — l’Europa attuale è quella costruita sulla base delle necessità economico- finanziarie. Gli staterelli europei usciti dalla seconda Guerra non avrebbero potuto sopravvivere senza l’unità del denaro. Oggi la Grecia grida al mondo che una tale unità non produce di per sé alcuna comunità politica. Se pensiamo all’Europa come a un colossale Gruppo finanziario, allora è “giusto” che una delle sue società di minore peso( magari mal gestita, da un management inadeguato) possa tranquillamente essere lasciata fallire. L’importante è solo che non contagi le altre. Ma se l’Europa vuole ancora esistere in quanto tale,e non disfarsi in egoismi, nazionalismi e populismi, deve sapere che la Grecia appartiene al suo mito fondativo, e che nessuna credenza è più superstiziosa di quella, apparentemente così ragionevole e “laica”, che ritiene il puro calcolemus senso,valore e fine di una comunità.
Repubblica 1.7.15
L’amaca
di Miochele Serra
Comunque vada a finire la crisi greca, l’impressione che l’economia abbia assunto, nella nostra vita pubblica, un ruolo abnorme ne esce molto rafforzata. Nessuno è così ingenuo da pensare che l’economia non abbia, nella società, una funzione strutturale. Basta la vita di ognuno di noi a capire che il denaro di cui si dispone o non si dispone, il lavoro che si ha o non si ha, contano moltissimo anche nel determinare il resto. Ma un consistente “resto”, nella vita personale, esiste anche al di fuori della nostra condizione economica, e spesso esiste malgrado la nostra condizione economica. Il “resto” pesa, influenza l’umore, indirizza le scelte, il rapporto con gli altri. Non conosco nessuno, davvero nessuno che nella vita personale valuti i comportamenti propri e altrui esclusivamente in termini economici. Nelle cose politiche, invece, è come se il “resto” fosse scomparso. Come se niente potesse essere misurato se non in termini economici. La politica, che nei suoi tempi d’oro dava l’impressione di governare l’economia, dall’economia è totalmente governata. Per quanto arruffato, per quanto eterodosso, il tentativo di Tsipras ha colpito l’opinione pubblica europea, al di là degli orientamenti politici, perché contiene, in sé, una vera e propria eresia: i conti non sono tutto. Che sia un paese povero, a dirlo, ovviamente è sospettabile. È il debitore, non il creditore, a trarre convenienza dal ridimensionamento di un debito. Anche per questo ci aspettiamo che prima o poi sia un paese ricco a dire che non tutto si misura in quattrini: sarebbe insospettabile.
La Stampa 1.7.15
Sud, un campo minato che adesso toglie il sonno al premier
di Francesca Schianchi
«Tutto il Sud ora è nelle nostre mani», ha detto dopo il voto delle Regionali Matteo Renzi: «l’unico elemento che mi toglie talvolta il sonno». Ora, qua e là si accendono focolai di tensione. «Il Pd al Sud parte da vittorie difficili in territori che non sono tradizionalmente di sinistra, densissimi di reticoli micronotabiliari», analizza la situazione il politologo Mauro Calise: «Renzi ha portato al centro del partito un cambiamento violento, ma che lo potesse portare in poco tempo anche in periferia era impossibile». Un consiglio per il futuro? «Scelga lui almeno i sindaci delle grandi città: questa è la prova del fuoco che lo aspetta».
Sicilia
«Serve credibilità per chiedere una mano», bacchetta il governo dell’isola il sottosegretario Davide Faraone. «Faraone usa lo stesso linguaggio di Lima e Ciancimino», non è tenero il commento del governatore Crocetta, alle prese con lo sgretolamento della sua Giunta: è dato per imminente l’addio dell’assessore alla Sanità, Lucia Borsellino, dopo che nei giorni scorsi altri due hanno lasciato. E ora, si prepara per lui una mozione di sfiducia promossa da un renziano. Sabato, una Direzione regionale del Pd cercherà di fare chiarezza.
Campania
Il governatore Vincenzo De Luca si è appellato al Tribunale contro un decreto del premier Renzi che lo ha sospeso, attuando la legge Severino. Nel frattempo la convocazione del Consiglio regionale è stata sconvocata, tra le proteste delle opposizioni: entro il 12 luglio bisognerà però riunirla, pena la decadenza. Tutto ampiamente prevedibile, fino qui. Non resta che aspettare la decisione del Tribunale: stamane i legali di De Luca dovrebbero ricevere comunicazione della data in cui sarà trattato il ricorso, e farsi un’idea di quando potrà arrivare la pronuncia.
Calabria
Un assessore agli arresti domiciliari, un altro assessore e il vicepresidente indagati nell’ambito di una inchiesta sull’uso dei finanziamenti dei gruppi consiliari. Il presidente Mario Oliverio, unico della smilza Giunta non coinvolto nell’inchiesta, ha già annunciato che presenterà una nuova squadra la settimana prossima. Con grandi innesti, si vocifera, di società civile. Un altro grattacapo per il Nazareno, dopo essere riusciti a strappare la regione al centrodestra appena otto mesi fa.
Puglia
Non sono questioni giudiziarie o liti locali a impensierire Renzi da qui. Quanto, piuttosto, la forte autonomia del suo presidente, Michele Emiliano. Già in campagna elettorale non ha esitato a bacchettare il governo nazionale, dalla scuola («non approvo il ddl e vorrei fosse chiaro a tutti») al gasdotto Tap: «La Puglia non ci sta», avverte Emiliano. Pronto a governare: tra i primi atti, stigmatizzato come «inopportuno» dal M5S, la nomina a portavoce della compagna. Che però, va detto per onestà, lavora con lui già da 11 anni.
La Stampa 1.7.15
L’Unità rossa e filo-gay che “copre” a sinistra
di Fabio Martini
Nella prima pagina c’è già la mission della nuova “Unità”, in edicola dopo 332 giorni di assenza: sarà un giornale sinistrorso, attento ai diritti, all’ambiente, capace di coprire un po’ di quello spazio a sinistra che Matteo Renzi in prima persona non vorrà occupare. Nella prima pagina due grandi macchie di rosso che non comparivano neppure quando il giornale era l’organo del Pci. Come dire: ci porteremo dietro un po’ di memoria. Un articolo inneggia alle adozioni gay. Non è il preannuncio di una svolta del governo sul tema e neppure di una Unità “frondista”. Sta arrivando una Unità scapigliata, che ogni tanto farà l’occhietto a sinistra. Sinché non suonerà la sirena della polemica frontale.
La Stampa 1.7.15
Buzzi scrive a Francesco
“Convertito in carcere”
«Seguendo la via tracciata dalla Misericordiae Vultus, dichiaro la mia totale adesione al Suo invito alla conversione, “unita al coraggio della denuncia” perché la corruzione “impedisce di guardare al futuro con speranza ed è un accanimento nel peccato”. Mi auguro e spero di non essere il solo». È quanto scrive Salvatore Buzzi, l’ex presidente della cooperativa «29 giugno» in carcere a Nuoro nell’ambito dell’inchiesta Mafia Capitale, in una lettera inviata a papa Francesco che sarà pubblicata domani dal settimanale della diocesi sarda.
Buzzi, aiutato nel suo percorso dal cappellano don Giampaolo Muresu e dal vescovo Mosè Marcia, afferma di aver accolto l’invito del Pontefice ai fautori o complici di corruzione contenuto nella bolla di indizione del Giubileo straordinario della Misericordia.
Nella lunga missiva Buzzi racconta la sua storia personale, intrecciata a quella delle cooperativa, cresciuta a tal punto da diventare una eccellenza sociale e lavorativa.
«Dal 2010 - denuncia Buzzi in un passo della lettera - iniziammo ad avere richieste varie di utilità da parte di funzionari ed amministratori: facemmo un esposto alla Procura di Roma ma non ci fu seguito, tentammo anche la via della denuncia politica, ma anche questa via non portò risultati. Ed allora io in prima persona cedetti. Da vittima divenni pian piano complice di un sistema corruttivo cresciuto sempre di più, sia a livello politico che amministrativo».
Corriere 1.7.15
Nuovo Senato (e Ncd) frenano le unioni gay
Il muro dei centristi su prescrizione e diritti. Cirinnà: aperture da Forza Italia, in Aula anche senza relatore Priorità alle modifiche della Carta con l’ipotesi dell’elezione diretta. A rischio pure il riordino della Rai
di Dino Martirano
ROMA Dei tre piatti forti previsti dal calendario parlamentare prima della pausa estiva, alla fine, ne potrebbe rimanere uno solo sul tavolo del Senato. La riforma costituzionale del bicameralismo paritario, che verrà incardinata giovedì in I commissione con l’obiettivo di essere approvata (terza lettura) entro il 7 agosto, rischia infatti di sbarrare il cammino per l’Aula a provvedimenti di rilievo per il governo come i ddl sulle unioni civili e sulla prescrizione, creando poi interferenze anche per la riforma Rai.
Cinque settimane di lavoro, da qui all’interruzione di agosto, non consentono dunque di sbrogliare l’ingorgo che si è creato a Palazzo Madama. Ma non è solo una questione di calendario. La fretta di far fare il terzo passo in avanti alla riforma costituzionale del Senato nasconde anche le difficoltà politiche della maggioranza (Pd e Ap-Ncd in rotta di collisione) su fronti assai controversi: le unioni civili, che prevedono la reversibilità delle pensioni e le adozioni di figli naturali precedenti e dunque sempre «interne» alla coppia; la prescrizione raddoppiata per il reato di corruzione.
Ieri la presidente della I commissione, Anna Finocchiaro (Pd), ha ufficializzato l’imminente partenza del dibattito sul ddl costituzionale anche se, rispetto a un anno fa, quando si votò per la prima volta sul testo Boschi, il clima sembra cambiato con qualche apertura del premier Matteo Renzi sulla composizione del nuovo Senato e sull’elezione diretta dei senatori: «Discutiamo con calma, senza considerare la data del 7 agosto come ultimativa», ha avvertito la presidente Finocchiaro. Mentre il bersaniano Miguel Gotor puntualizza che finora «non è stata avviata alcuna trattativa per modificare il testo».
Se la riforma Renzi-Boschi si appresta a fare un passo in avanti, il testo sulle Unioni civili (relatrice Monica Cirinnà, Pd) rischia di andare a sbattere contro un muro di emendamenti eretto dal partito di Alfano: «Forse, e ripeto forse, solo a Natale si potrebbe arrivare in aula», avverte Carlo Giovanardi del Nuovo centro destra.
Tradotto in numeri l’ostruzionismo del Ncd prevede più di mille emendamenti (su 1.446 totali) ai quali si sono aggiunti ieri sera altri 206 subemendamenti (su 286) dei centristi: «Senza un accordo tra Pd e Ncd sarà difficile andare in Aula con il mandato al relatore perché, per regolamento, si possono concedere anche 60 minuti per illustrare ogni singolo emendamento», fa sapere il presidente della commissione Giustizia Francesco Nitto Palma (FI). Eppure nel Pd, che ha pure i suoi problemi con il fronte cattolico interno, la relatrice Cirinnà è convinta che il testo base potrebbe andare in aula anche senza relatore: «Dentro Forza Italia, tra i fittiani e i socialisti ci sono molti liberi pensatori che voterebbero il testo....». Il terzo fronte oscurato dall’avanzata della riforma del Senato è quello della prescrizione. Al vertice di maggioranza il vice ministro Enrico Costa ha manifestato il suo disappunto contro il Pd che «si impunta su posizioni di bandiera: ma solo senza impuntature il dibattito potrà portare una soluzione ragionevole e condivisa».
Il Sole 1.7.15
Istruzione. Ddl il 7 luglio in aula
Oggi gli emendamenti ma ogni gruppo potrà presentarne 40
Scuola, verso ok rapido alla Camera
di Eu. B.
ROMA La “buona scuola” è sempre più vicina a diventare legge. Il ddl con la riforma dell’istruzione ha iniziato ieri il suo iter alla Camera ed è atteso martedì 7 luglio in aula. Una scadenza che la maggioranza farà di tutto per rispettare, come ha assicurato la relatrice Maria Coscia (Pd): «Siamo pronti a lavorare anche nel fine settimana se si renderà necessario, per oggi (ieri, ndr), dipenderà dal numero di interventi della discussione generale, ma non è prevista una seduta notturna».
Il terzo giro parlamentare del provvedimento che sblocca 102mila assunzioni di precari, rafforza l’alternanza scuola-lavoro, introduce una prima tranche di merito nella retribuzione degli insegnanti e rafforza (poco) il ruolo del preside si annuncia rapido. La conferenza dei capigruppo ha fissato per oggi alle 14 il termine per la presentazione degli emendamenti in commissione Istruzione a Montecitorio. Ma il rischio che si verifichi una pioggia torrenziale di proposte di modifica sembra scongiurato visto che ogni gruppo potrà discuterne al massimo 40. Una scelta stigmatizzata dall’opposizione. Il Movimento 5 Stelle ha parlato di?«ultimo atto della messinscena sulla riforma della scuola farsa».
Tornando all’iter, domani inizierà la valutazione di ammissibilità degli emendamenti, dai commi 1 al 104, che riprenderà nel pomeriggio terminati i lavori d’aula. E sempre domani dovrebbero cominciare le prime votazioni. Ma il testo si annuncia blindato. A confermarlo è stata la stessa Coscia: «Alla Camera abbiamo apportato, tenendo conto delle critiche anche aspre ricevute e delle audizioni, notevoli miglioramenti al testo, il Senato ha proseguito positivamente su questa strada». Niente fiducia all’orizzonte, dunque. Almeno per ora.
Corriere 1.7.15
Interventi e repliche
Civati: perché ho lasciato il Pd
di Giuseppe Civati con una risposta di Aldo Grasso
Il Corriere della Sera affida uno spazio fisso sulle sue pagine ad Aldo Grasso, come sapete. In questo stesso spazio, nel corso degli ultimi tre mesi, ho ricevuto numerosi attacchi personali. Per come ero vestito (sul serio), perché Bersani stava diventando come me (!), infine, domenica 28 giugno, perché, secondo l’editorialista, starei dando il via a una sinistra frazionista e bla bla bla. Colpisce sempre la disinformazione, che per un giornalista è un po’ un problema. Colpisce anche il tono sprezzante. Ma bisogna prendere le cose sportivamente: ci vuole passione e molta pazienza, anche. Del resto fa piacere avere una rubrica fissa che parla di te sul principale quotidiano nazionale. E in prima pagina! Do solo il mio contributo, se posso: per prima cosa, non sono uscito dal Pd per uno strano calcolo o per frazionismo, ma per un atto di sincerità. Siccome non stavo votando più come il gruppo di cui facevo parte su questioni essenziali e avevo votato contro cose parecchio importanti, ho ritenuto di sospendere la mia adesione al percorso avviato due anni fa e rilanciato l’anno scorso, che mi aveva sempre visto molto critico. Altri proseguono come se nulla fosse. Per me era diventato impossibile. Come credo per molti elettori parecchio sorpresi per via del plateale travisamento delle promesse elettorali del 2013. Diciamo che cerco di rappresentare loro e molto di coloro (erano 400 mila, ma non so come erano vestite, quindi forse non interessano) che alle primarie avevano votato per me e in molti casi, documentati, sono scappate fin dallo scorso anno. In secondo luogo, non sto facendo proprio nulla di quanto scrive Grasso, che mi coinvolge in una strana riflessione, forse confondendo le persone di cui parla e abusando dell’argomento dell’uomo di paglia. Ciò che sto facendo lo trovate all’indirizzo possibile.com. E non lo sto facendo da solo, ma con forze vive e fresche. E competenti e documentate.
On. Giuseppe Civati
Fantastico Civati! Il pezzo di domenica scorsa era dedicato a Stefano Fassina e Civati era citato solo di sguincio per sottolineare la vocazione al “Perdemos” della sinistra italiana. Tutto qui. In risposta, Civati si allarga, si spiega, si autopromuove. Si prende molto sul serio. E questo, francamente, un po’ mi delude. (a.g.)
La Stampa 1.7.15
La lezione spagnola a Syriza e ai 5 Stelle
di Emanuele Treglia
Questa settimana, in Spagna, si sono concluse le investiture dei governi dei numerosi municipi e comunità autonome dove, poco più di un mese fa, sono state celebrate elezioni.
Lo spettro di una generalizzata ingovernabilità dovuta alla rottura del tradizionale sistema bipartitico è stato allontanato, almeno per il momento. Le due formazioni emergenti, Podemos e Ciudadanos, hanno adottato in questo senso un’attitudine costruttiva: hanno dimostrato, cioè, di essere disposte a scendere a patti con il Partito socialista (Psoe) e il Partito popolare (Pp), differenziandosi quindi dalla linea ostruzionista tipica dei Cinque Stelle italiani.
Al tempo stesso, hanno dato prova di una notevole abilità nel dettare l’agenda politica. Non solo infatti sono riuscite a imporre al centro del dibattito pubblico le questioni del «cambiamento» e della «rigenerazione democratica», ma sono anche state in grado di sfruttare al massimo quello che si potrebbe definire come il loro «potenziale di ricatto»: pur di ottenere il loro appoggio, indispensabile per governare in pressoché tutte le principali località, il Psoe e il Pp si sono infatti visti costretti ad accogliere delle cospicue e composite serie di condizioni. Emblematico a tal proposito è il caso della Comunità di Madrid, in cui i popolari hanno finito per accettare una lista di ben 82 punti proposta da Ciudadanos che, oltre a misure riguardanti la gestione della cosa pubblica come ad esempio l’arresto al processo di privatizzazione del settore sanitario, include persino l’impegno a democratizzare la vita interna del Pp attraverso la celebrazione di primarie per la designazione dei suoi dirigenti. Ne consegue che quello raggiunto attualmente è un equilibrio quanto mai fragile, la cui capacità di tenuta dipenderà dalle tattiche che nei prossimi mesi i vari partiti decideranno di seguire con vista alle generali di novembre.
Per quanto riguarda Ciudadanos e Podemos, occorre tener presente che si trovano comunque in due situazioni diverse. Il primo, infatti, il 24 maggio scorso ha ottenuto dei risultati che, per quanto positivi, sono stati al di sotto delle sue aspettative e non è riuscito ad affermarsi in nessuna località come primo partito. Nella maggior parte dei casi – eccezion fatta per l’Andalusia, dove sostiene il Psoe - ha optato per fornire il proprio appoggio condizionato al Pp, ma restando all’opposizione. Non ha perciò responsabilità governative, il che potrebbe essere un vantaggio, permettendogli di presentarsi in autunno come l’unica forza «pura», non contaminata dalla prova dei fatti. D’altra parte, continua a presentare un’elevata ambiguità e una scarsa definizione programmatica - appella semplicemente al «buon senso» –, due elementi intrecciati tra di loro che, sebbene abbiano funzionato relativamente bene fino ad ora, se protratti eccessivamente potrebbero diventare fattori di debolezza.
L’avvenire di Ciudadanos dipenderà anche dall’evoluzione che sperimenteranno i popolari: il Pp al momento è in subbuglio e, se le richieste di rinnovamento avanzate da alcuni suoi leader come Cristina Cifuentes – la nuova governatrice della Comunità di Madrid – dovessero prevalere, non è escluso che riesca a riassorbire parte dell’elettorato che a maggio si è orientato verso il partito di Albert Rivera.
Podemos invece, oltre ad appoggiare il Psoe in diversi municipi e comunità autonome, per mezzo di liste civiche ad esso collegate è alla guida del governo in numerose località, tra cui spiccano Madrid e Barcellona. È ancora presto per fare un bilancio dell’attività svolta, dato che le nuove sindache delle due principali città spagnole – rispettivamente Manuela Carmena e Ada Colau - sono entrate in carica da circa due settimane. Tra gli obiettivi che si sono proposte per i loro primi cento giorni di mandato vi sono misure di marcato carattere sociale, come lo stop agli sfratti e l’implementazione delle mense popolari per i minori. Carmena si è già incontrata con rappresentanti delle banche per dimostrare loro che intende assumere un atteggiamento dialogante e che non vi è il rischio, paventato dalla destra, dell’instaurazione di un modello chavista.
Di particolare interesse in questi giorni è stato il definitivo rifiuto, da parte di Podemos, di arrivare a un patto con Izquierda Unida, la coalizione guidata dal Partito comunista. Pablo Iglesias, segretario generale di Podemos, in polemiche dichiarazioni rilasciate a Público, ha affermato che la creazione di una nuova maggioranza non passa attraverso accordi con un vecchio partito che in questi anni, pur di difendere la sua identità ormai sorpassata, si è accontentato di una esigua percentuale di voti. Iglesias, in un’ottica più generale, nell’intervista ha voluto prendere chiaramente le distanze dalla cultura della sinistra tradizionale, caratterizzata da «pessimismo esistenziale» e che ormai si rivolge solo a un gruppo minoritario fatto di persone tristi, noiose e amareggiate.
Non bisogna infine dimenticare che gli scenari futuri saranno influenzati anche dagli sviluppi di quella che si è ormai profilata come una vera e propria Tangentopoli spagnola, che quotidianamente miete nuovi indagati tra le fila del Psoe e, soprattutto, del Pp, continuando così a minare la credibilità di questi due partiti.
Emanuele Treglia è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss Guido Carli (Roma) e membro del Centro de Investigaciones Históricas de la Democracia Española (Madrid). Si occupa di storia dei movimenti sociali e dei partiti politici spagnoli.
La Stampa 1.7.15
Obama alza lo stipendio a cinque milioni di americani
Cambieranno le norme sugli straordinari: “Chi lavora tanto sia pagato di più”
di Francesco Semprini
Barack Obama lancia la campagna per il «riconoscimento degli straordinari pagati», garantendo così l’aumento delle retribuzioni ad almeno cinque milioni di lavoratori americani. Una misura che si inserisce nella già ampia agenda di riforme in tema di economia sociale, per il rilancio della classe media e a tutela dei ceti meno abbienti, attuata dal presidente degli Stati Uniti in oltre sei anni di mandato. «Dobbiamo essere sicuri che chi lavora tanto venga retribuito adeguatamente», dichiara Obama in un editoriale pubblicato da «Huffington Post».
Le novità
La riforma che il dipartimento del Lavoro si prepara a varare riguarda il capitolo della normativa dipendente, secondo cui i datori dovranno pagare una volta e mezzo la retribuzione prevista per ogni ora lavorata oltre le 40 settimanali. Sino ad oggi era possibile eludere il pagamento di straordinari, inquadrando come «manager» qualunque dipendente con salario sopra i 455 dollari a settimana, o 23.660 dollari l’anno. La qualifica conferiva competenze di supervisione, spesso assai limitate, ma soprattutto l’ineleggibilità al pagamento di lavoro extra. L’ultima revisione retributiva inoltre risale al 2004, e il livello dei salari reali nel frattempo ha dovuto fare i conti con l’inflazione. La riforma prevede un innalzamento della soglia oltre la quale non vengono pagati gli straordinari di oltre il doppio, a 970 dollari a settimana, pari 50.440 dollari l’anno (sempre lordi).
La classe media
Tom Perez, segretario del Lavoro, spiega che la modifica è destinata a generare un aumento tra 1,2 e 1,3 miliardi di dollari per gli stipendi, e consentirà a lavoratori e famiglie di far fronte alla ripresa delle pressioni inflazionistiche pur mantenendo livelli di vita dignitosi. Secondo la Casa Bianca, a beneficiarne nel primo anno saranno per il 56% donne e per il 53% laureati.
Premiato nei sondaggi
La riforma ha già causato una levata di scudi da parte di imprese e dei repubblicani, convinti che scoraggerà le assunzioni. «Molti datori passeranno alle retribuzioni orarie, facendo venir meno alcuni benefici, come le ferie pagate, mentre altri taglieranno sui tempi», spiega David French, dirigente della National Retail Federation, secondo cui l’economia non è senza fondo e distribuisce più denaro solo perché lo ordina il governo.
Obama tira dritto, e spiega che questa è una misura per «investire nel futuro», come le altre che hanno segnato la sua agenda di economia sociale per il rilancio della classe media, dall’Obamacare, alle pari opportunità in materia salariale tra uomini e donne, all’aumento dei salari minimi garantiti. E ancora le agevolazioni in materia fiscale per la classe media, e il sostegno alle Pmi al cospetto dello strapotere di Wall Street (campagna quest’ultima ancora incompiuta), o l’«Healthy Families Act», il pagamento dei giorni di malattia e di assenza per motivi familiari, come la maternità.
Misure che hanno ridato tono all’immagine del presidente, visto che l’ultima rilevazione di Cnn e Orc International, ha visto risalire il gradimento nei suoi confronti al 50%, per la prima volta in due anni.
La Stampa 1.7.15
Netanyahu pronto a colloqui
senza precondizioni con Abu Mazen
A Gerusalemme l’incontro del premier con Gentiloni
di Maurizio Molinari
Disponibilità alla ripresa del negoziato con i palestinesi «senza precondizioni» e ferma opposizione all’accordo sul nucleare con l’Iran: sono i due messaggi che il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha consegnato ieri mattina al ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, durante un intenso incontro a Gerusalemme.
Dissenso sull’Iran
Fonti diplomatiche al corrente dei contenuti del colloquio, spiegano a «La Stampa» che Netanyahu ha espresso un «secco e articolato rifiuto» del possibile accordo fra il gruppo 5+1 e Teheran sul nucleare iraniano, lasciando intendere che Israele vi si opporrà «con fermezza» a prescindere dalle sue caratteristiche tecniche. Tale determinazione è stata ribadita in pubblico da Netanyahu quando, nella conferenza stampa, ha detto che l’intesa «consentirà a Teheran di avere non solo la bomba ma un ordigno nucleare». Affidare un simile messaggio all’Italia - considerata uno degli alleati europei più vicini, assieme alla Germania - significa da parte di Israele voler far sapere all’Ue che «l’intesa con l’Iran rappresenta un pericolo per il mondo intero».
I negoziati con i palestinesi
Sul fronte dei negoziati con l’Anp di Abu Mazen, Netanyahu si è dimostrato invece aperto a possibili iniziative diplomatiche tese a raggiungere un’intesa sull’obiettivo dei due Stati. «Siamo favorevoli ad una ripresa dei colloqui senza precondizioni», ha detto il premier all’ospite italiano, lasciando intendere disponibilità anche per una cornice multilaterale che potrebbe vedere più Paesi recitare un ruolo di garanzia: non solo europei ma anche arabi come l’Egitto, la Giordania e l’Arabia saudita. Netanyahu però si oppone al progetto francese di risoluzione Onu perché «il negoziato non può avere già un esito predefinito». Sono contenuti che confermano e rafforzano quanto era emerso nel recente incontro fra il premier e il «ministro degli Esteri Ue», Federica Mogherini, soprattutto riguardo la possibilità di un coinvolgimento dei Paesi sunniti in pace con Israele o, come nel caso dei sauditi, accomunati dall’opposizione al nucleare dell’Iran. Lo scenario di una ripresa dei negoziati era stato evocato, il giorno precedente a Ramallah anche dal palestinese Abu Mazen con Gentiloni, sottolineando però l’importanza di ricevere «segnali israeliani sul tema degli insediamenti».
A Ramallah c’è preoccupazione per i negoziati segreti Hamas-Israele, temendo che possano portare alla nascita di un’Autorità palestinese concorrente. A conclusione della maratona di incontri, il ministro Gentiloni ha riassunto i messaggi raccolti sul fronte della ripresa delle trattative - bloccate dall’aprile 2014 - augurandosi che «nei prossimi mesi possano esservi notizie positive su questo dossier». È su questo sfondo che Matteo Renzi, sarà a Gerusalemme e Ramallah il prossimo 21 luglio.
Il Sole 1.7.15
La guerra al terrorismo. Dalle alture del Golan l’esercito di Tel Aviv studia l’avanzata delle milizie dello Stato islamico in Siria
Israele e l’Isis, l’altro nemico alle porte
Ma per gli israeliani la «jihad globale» resta al quarto posto tra le minacce allo Stato
di Ugo Tramballi
MAJDAL AL-SHAMS Il confine con il caos è a un centinaio di metri dal villaggio. Oltre la barriera di filo spinato, la base dell’Onu è stata abbandonata dai caschi blu molto tempo fa e da allora è deserta: l’esercito siriano non avrebbe la forza per presidiarla e i qaedisti di Jabat al-Nusra non hanno intenzione di occuparla. Preferiscono stare a debita distanza dagli israeliani. Ma sono oltre la cresta delle colline e, più a Est, a Kuneitra. E ancora più a Nord, come ai tempi delle invasioni barbariche lungo il confine dell’impero, premono le milizie dell’Isis, più pericolose di al-Nusra.
Anche d’estate l’ombra viene presto a Majdal al-Shams, questo villaggio druso delle alture del Golan occupate da Israele: non appena il sole muove verso Ovest, finisce dietro i quasi tremila metri del monte Hermon, il cui picco è irto di antenne e radar d’ascolto israeliani. Fino a quattro anni fa i drusi che abitavano il villaggio si sentivano siriani. Oggi un po’ meno, anche se continuano a esporre i ritratti di Bashar Assad: essere occupati dai “sionisti” adesso è un colpo di fortuna.
Ogni vallo fra mondi ostili è pericoloso ma nasconde anche tacite e inimmaginabili intese, fedeltà viscose e qualche paradosso prodotto dalla Realpolitik. Il nemico è alle porte e per Israele non è un modo di dire: è una descrizione concreta. A Sud, nel Sinai che l’esercito egiziano non riesce a controllare, c’è la versione locale del califfato di al-Bagdadi. Anche nella striscia di Gaza i salafiti insidiano il potere di Hamas il quale incomincia a essere un male minore. Qui a Nord la presenza dei qaedisti e la pressione dell’Isis creano un fatto nuovo nella definizione israeliana della sua sicurezza.
Almeno sembra, anche se non è del tutto così. Il giorno prima a Gerusalemme un alto rappresentante della “comunità dell’intelligence” (c’è il Mossad esterno, lo Shin Bet interno, l’Aman militare e quello del ministero degli Esteri), aveva offerto la classifica israeliana delle minacce, in ordine d’importanza: l’Iran, Hezbollah, Hamas e solo poi l’arcipelago della “global jihad”. È un elenco piuttosto tradizionale. «Per noi gli iraniani ed Hezbollah non sono diventati i bravi ragazzi della regione solo perché c’è l’Isis», aveva spiegato la fonte. L’Iran continua a essere ideologicamente anti-israeliano ed è l’unico a possedere la massa critica per una mobilitazione militare di larga scala. «Osservando il comportamento di Putin in Crimea, l’Iran si è convinto che con la forza e la determinazione può fare ciò che vuole». I miliziani dell’Hezbollah libanese ora sono impegnati a combattere in Siria per la sopravvivenza del regime di Bashar e la loro. Ma al confine, nel Sud del Libano, hanno lasciato 105mila missili di varia potenza, molti dei quali capaci di raggiungere Tel Aviv. Quando torneranno dal fronte siriano avranno accumulato un’esperienza militare pericolosa.
Il confronto interno all’apparato di sicurezza israeliano per decidere se la sopravvivenza di Damasco sia un bene o un male – un dibattito inimmaginabile fino a qualche tempo fa – non si è risolto a favore di Bashar Assad. «Non crediamo nella politica del male minore: è stato lui a creare Hezbollah e a portare l’Iran alle porte di casa nostra». Nessuno in Israele crede che il regime stia per cadere: probabilmente continuerà a controllare una parte del Paese. Ma la Siria non tornerà a essere lo Stato fino ad ora conosciuto: resterà divisa in zone etniche, qualcosa fra la Somalia e un medio evo nel quale ogni città avrà la sua milizia, la sua religione e i suoi commerci.
Quanto alla “global jihad”, l’attenzione è evidentemente alta. Ma con Jabat al-Nusra in Siria c’è una specie di accordo di non belligeranza: sono state fissate alcune linee rosse e per ora i qaedisti le rispettano scrupolosamente. Riguardo all’Isis, forse significa qualcosa se la sua propaganda hi-tech dedica più spazio alla conquista di Roma che alla liberazione di Gerusalemme, terzo luogo più importante dell’Islam. Per questo il Sinai è considerato più pericoloso del Golan. Ci sarebbe anche la Cisgiordania palestinese: sia l’Autorità palestinese di Abu Mazen che Hamas sono molto deboli: non hanno consenso popolare e la Jihad potrebbe insinuarsi con una certa facilità. «Ma lì ci siamo noi, siamo noi a controllare le cose», aveva concluso l’uomo dell’intelligence israeliana.
Il Sole 1.7.15
Negoziati a Vienna
Nucleare iraniano, 7 giorni in più per trovare l’intesa
Scaduto il termine del 30 giugno, Teheran e i Paesi del Consiglio di Sicurezza Onu più la Germania (Gruppo 5+1) che stanno negoziando un accordo sul nucleare iraniano si sono dati una settimana di tempo in più per trattare, manifestando ottimismo malgrado gli ostacoli che restano da superare.
«Il 5+1 e l’Iran hanno deciso di estendere le misure previste (dall’accordo ad interim del 2013) sino al 7 luglio, in modo da dare più tempo ai negoziati e arrivare a una soluzione di lungo termine», ha dichiarato la portavoce del dipartimento di Stato Usa, Marie Harf. Anche fonti russe da Vienna avevano anticipato la decisione.
Le questioni tecniche e giuridiche che rimangono da affrontare per un’intesa definitiva non sono affatto minori, e in particolare sono tre gli elementi su cui vi sono ancora forti divergenze. Il primo è l’effettiva riduzione delle capacità di arricchimento dell’uranio (pari al 98% secondo fonti Usa, semplicemente «limitate» secondo Teheran) e la durata temporale di tale limitazione, che Washington vorrebbe almeno decennale.
In secondo luogo vi è l’estensione dei controlli e delle verifiche effettuati dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea) e, in particolare, le ispezioni dei siti militari che Teheran considera spionaggio vero e proprio. La questione è di particolare importanza anche per il terzo punto in discussione, quello delle sanzioni. Le grandi potenze insistono infatti sulla necessità di un via libera dell’Aiea prima di una revoca formale: una luce verde che potrebbe arrivare solo sei mesi dopo la firma dell’intesa definitiva, e non il primo giorno dall’entrata in vigore come vorrebbe Teheran.
Da Washington, Barack Obama ha chiarito ieri di essere sempre pronto ad abbandonare il tavolo delle trattative, se si profilasse un «cattivo accordo» con la Repubblica islamica: insistendo sulla necessità che la strada tracciata per impedire all’Iran di dotarsi di un’arma atomica sia verificabile.
Il Sole 1.7.15
Listini sull’ottovolante: ieri a Shanghai balzo del 5,5% dopo l’ondata di vendite degli ultimi giorni
La speculazione colpisce anche la Cina
di Rita Fatiguso
PECHINO Borse cinesi sull’ottovolante, come non mai. Lo Shanghai composite, l'indice più importante dei mercati finanziari di Mainland China, ha chiuso con un guadagno del 5,5% dopo le perdite del 5% di lunedì; dai massimi del 12 giugno il calo è del 17%, anche se nell’ultimo anno il listino ha comunque raddoppiato i valori. La speculazione ha gonfiato le quotazioni, ma il punto è che la speculazione continua ad impazzare in un Paese che è un gigante che dà 11,2 trilioni di beni e servizi: a dirlo è il Fondo monetario, che ha in mano le sorti della Grecia, il minuscolo Paese spina nel fianco dell’Europa. Ogni scossa sismica cinese può avere effetti devastanti: gli investitori privati, circa l’80% del mercato, da mesi e mesi speculano sui titoli per cercare investimenti che possano offrire profitti maggiori di quelli dei depositi bancari. Il boom però, com'era prevedibile, è finito e adesso il problema è come ritornare con i piedi per terra. Di qui i movimenti a elastico come quelli registrati negli ultimi due giorni.
Inoltre il taglio dei tassi, il quarto in sei mesi, operato dalla Banca centrale nel weekend li ha lasciati indifferenti. Non è a loro che pensava il Governatore, ma con i fondamentali dell’economia a rischio e una speculazione capace di creare squilibri così forti la Cina rischia di far ancora più paura.
Ha rallentato del 14% negli ultimi anni dal 2007, il debito del Governo centrale è pari al 43% del Pil, quindi ancora in limiti ragionevoli, ma i colossi statali e le aziende private indebitate arrancano mentre la manovra di salvataggio degli enti locali non spiega ancora tutti i suoi effetti. Come ha spiegato lo stesso ministro delle finanze Lou Jiwei la manovra prevista dalla nuova legge di bilancio va a rilento, le entrate del Governo centrale non sono all’altezza delle aspettative.
Il taglio dei tassi cerca di contribuire all’allentamento dei cordoni del credito, il Governo cinese pur di mantenere un decente livello di crescita è disposto a fare dietrofront rispetto al passato. Ma l’azionario sembra andare per la propria strada, spinto da orde di investitori ormai disillusi dall’andamento del mercato immobiliare ma pienamente soddisfatti delle manovre degli ultimi mesi.
Le altre forme di investimento alternative hanno complicato il quadro. I prodotti finanziari legati all’immobiliare hanno rallentato il passo, il Governo ha anche imposto regole di comunicazione per chi investe in prodotti a rischio.
Ma la realtà è che non esiste ormai da tempo alcun collegamento tra andamento borsistico ed economia reale.
Questo stato avrà effetti pesanti sul tentativo di immettere nuova linfa nei listini. Da tempo si sta cercando di aprire le porte della Borsa ad aziende davvero sane, in grado di affrontare i mercati.
La volatilità spaventa e la speculazione è in crescita, al punto che ormai circolano le voci più incontrollate: c’è chi dice che il Governo stia preparando misure proprio sull'andamento della Borsa, chi segnala che sono allo studio misure come la riduzione dell’imposta di bollo. Le Finanze hanno detto che permetteranno ai fondi pensione di investire in azioni.
In realtà dietro l’angolo c’è una frenata generalizzata. Anche l’ingresso in borsa di un big come China Nuclear Engineering Corp., potrebbe subire un rallentamento. Se ne parla da settimane, ma il D-day non arriva mai.
Si sta anche intensificando il fenomeno dei fondi ibridi, quelli specializzati nelle Ipo. Il numero degli ibridi è salito da zero a 200 dall’anno scorso, ora gestiscono attivi per circa 2 miliardi di yuan (322 miliardi dollari). Siccome vanno a rimorchio delle Ipo, il loro appeal finisce se le Ipo si bloccano.
C’è già una coda di 552 aziende in attesa di approvazione, dopo il deposito delle domande iniziali di offerta, tante ne censisce il sito della Csrc, l’autorità di controllo della Borsa. Ma un nuovo blocco delle Ipo sarebbe davvero un ulteriore colpo ai tentativi dei mercati cinesi per una svolta significativa.
Corriere 1.7.15
Sempre più diseguali e più liquidi
E non sarà la politica a salvarci
di Massimo Gaggi
«I nternet ha cambiato la storia perché sul web tutto è contemporaneo, ha cambiato la geografia perché in rete tutto è ubiquo, ha cambiato l’economia creando società digitali che hanno un valore superiore a quello di imprese secolari, ha cambiato il costume con un’inversione della conoscenza tra noi e i nostri figli». Trasformando anche, «vertiginosamente, la nostra possibilità di essere informati», con un flusso continuo di notizie che si accavallano e «si autosostituiscono prima di poter produrre un’idea». Tutto questo mentre l’incrocio tra la crisi economica, gli effetti della globalizzazione e dell’automazione dei processi produttivi e l’estrema mobilità del capitale finanziario, produce un’accentuazione delle diseguaglianze che corrode i meccanismi sociali e mette alle corde una politica impotente, che arretra sotto i colpi del neopopulismo.
È un mondo che pare diventato una vera Babele, quello di cui discutono il grande sociologo polacco Zygmunt Bauman e un giornalista dello spessore di Ezio Mauro, direttore da ormai quasi vent’anni di «Repubblica», in un libro intitolato, appunto, Babel , pubblicato di recente da Laterza. Un dialogo ambizioso, che passa da un tema universale all’altro, nel quale i due intellettuali si scambiano analisi e moltissime domande, alle quali ammettono di faticare a trovare risposte. Un dialogo che a tratti appare addirittura sussiegoso, nei tanti riconoscimenti reciproci. In realtà, pur condividendo molti tratti essenziali dell’analisi della crisi che stiamo vivendo, Bauman e Mauro seguono due approcci abbastanza diversi.
Certo, comune a tutti e due è la preoccupazione per lo «scivolare verso un territorio sconosciuto», mentre dubitiamo perfino della democrazia. Ci chiediamo quale sia il valore d’uso di una politica che non è più in grado di incidere sulla nostra vita quotidiana, sempre più confinata al ruolo di puro gestore del monopolio della forza per garantire un po’ d’ordine pubblico. Una «politica ridotta a evento che vive solo nell’immediato» senza più percorsi, mentre il leader diventa un performer .
Ma poi le analisi di Bauman e Mauro divergono quando discutono della trasformazione del cittadino in cittadino-consumatore e di accentuazione delle diseguaglianze, dei cui effetti deleteri, a partire dalla demolizione del ceto medio, si discute da almeno dieci anni. Erede dell’azionismo piemontese, Mauro è preoccupato soprattutto dalla polarizzazione dei redditi, che «sta diventando la cifra di un’epoca, spacca in due la società». Tollerabili finché c’era un’offerta diffusa di opportunità, le diseguaglianze diventano una bomba sociale a orologeria ora che «la democrazia fondata sul lavoro e sui diritti è una porta chiusa» e che «la scala della crescita sociale è stata confiscata».
Ma a Mauro, che sfiora la deriva apocalittica quando arriva a parlare di «fine del progresso, almeno come processo unitario», Bauman oppone un’analisi che non è centrata sulle diseguaglianze né sulla rottura del vincolo tra ricchi e poveri, ma sulla opposizione tra mobilità e fissità: per lui è cruciale il venir meno del rapporto tra capitale e lavoro, figlio della globalizzazione produttiva e finanziaria che ha segnato la fine della «fase solida della modernità capitalista, quella dell’interdipendenza tra datori di lavoro e lavoratori». È il Bauman che ricorre alle sue classiche categorie della modernità «liquida». Un quadro incerto di strutture che si decompongono e ricompongono sulle ceneri di un’era ormai archiviata: quella del capitale fisso che veniva investito in impianti non trasferibili.
I due convergono, però, nell’analizzare lo spiazzamento della politica e lo sfaldamento dell’opinione pubblica. Cambia il nostro modo di pensare politicamente perché siamo davanti a una decostruzione del contesto. E «in un mondo senza contesto mille informazioni non fanno una conoscenza». Come uscirne? La risposta di Bauman è liquida come la sua visione sociologica: continuare a interrogare gli altri per cambiare se stessi e il mondo. Quella di Mauro è, soprattutto, la risposta pragmatica del giornalista: in un mondo di «solitari interconnessi», nel quale la connessione ha sostituito la partecipazione, la risposta non può essere che quella di continuare a fare un buon giornale, capace di organizzare l’informazione, darle una gerarchia, smontando ed esaminando i fatti. Contrastando la tendenza della rete a far emergere un pensiero preselezionato, che nega la gerarchia delle notizie e la verticalità dell’informazione in nome di un’astratta orizzontalità della comunicazione.
La Stampa TuttoScienze 1.7.15
Enrico Fermi Award
“Perché Obama mi premia nel nome di Enrico Fermi”
A Claudio Pellegrini il riconoscimento più prestigioso degli Usa
intervista di Gabriele Beccaria
Claudio Pellegrini riceverà il premio alla Casa Bianca, in una data da stabilire, dal presidente degli Usa Barack Obama: è il secondo italiano, dopo un altro fisico, Ugo Fano, nel 1995, a essere insignito dell’«Enrico Fermi Award», uno dei riconoscimenti scientifici più prestigiosi d’America. Creato nel 1956 e intitolato a un nome iconico della scienza made in Italy, vanta una lista di intelligenze da brividi. Personaggi che hanno fatto la storia: da John von Neumann a Julius Robert Oppenheimer, da Luis Alvarez a Freeman Dyson. E molti altri.
Pellegrini non è da meno. E basta una ricognizione tra i suoi studi per rendersene conto. Dopo il debutto ai Laboratori di Frascati dell’Infn e tante ricerche in Europa e Usa, è stato professore di fisica alla Ucla di Los Angeles e oggi è «consulting professor» in un laboratorio d’avanguardia, lo «Slac National Accelerator Laboratory». Tra gli addetti ai lavori il suo nome è tutt’uno con la super-macchina nota come XFel, il laser a elettroni liberi a Raggi X, capace di moltiplicare la nostra capacità di visione. Facendoci vedere l’infinitamente piccolo della materia come mai l’avevamo visto.
Professore, lei ha detto che il premio è il miglior regalo di compleanno che potesse immaginare.
«È un grande onore ed è davvero un bel regalo. Ho appena compiuto 80 anni».
Lei sarà premiato con Charles V. Shank ed è considerato «il padre del laser a elettroni liberi». Che cosa significa?
«Direi di sì, in effetti sono il “padre”. Ma ovviamente il laser è frutto del lavoro di molte persone. Io sono quello che ha messo insieme vari studi e risultati e ho proposto di costruire questo laser qui allo “Slac”, a Stanford».
È stato il primo e ora fa scuola: nel mondo c’è una corsa ad avere un super-laser.
«Sta dilagando un po’ dappertutto. Ci sono molti progetti. Un laser è entrato in funzione in Giappone nel 2011, mentre altri sono in fase di realizzazione: l’“XFel” europeo, ad Amburgo, di cui è direttore l’italiano Massimo Altarelli, e poi le macchine in Svizzera e in Corea».
Com’è il suo laser? Lo può descrivere in un paio di battute?
«È basato su un acceleratore lineare di elettroni, lungo un km, seguito da quello che chiamiamo “magnete ondulatore”, dove si generano i Raggi X e che misura 30 metri. I Raggi X vengono poi fatti viaggiare fino alle aree sperimentali per le ricerche. Il tutto si estende per un paio di km».
Le aree sperimentali che cosa studiano?
«Tanti campi diversi. Uno dei più attivi è la biologia, ma ci sono anche chimica e fisica, oltre all’analisi dei materiali ad alta densità di energia, come si trovano nelle stelle. La scienza, oggi, si sta concentrando proprio sui sistemi atomici e molecolari».
Quali sono le applicazioni?
«Tante, a cominciare da quelle astronomiche e mediche. Pochi giorni fa, in Svezia, al Nobel Symposium c’è stata una rassegna delle attività e dei risultati di queste applicazioni: a renderle possibili c’è il fatto che il laser produce impulsi di Raggi X con cui osservare la materia sulla scala dei singoli atomi, sia nello spazio sia nel tempo. La durata di questi impulsi, infatti, è di un femtosecondo, pari a un milionesimo di miliardesimo di secondo».
Un tempo minimo che equivale a che cosa?
«È il tempo che impiega un elettrone per fare il giro intorno al proprio atomo. Si producono così immagini che consentono di studiare la materia come mai è stato fatto prima».
Immagini non solo dettagliate, ma affascinanti. Artistiche. Come quelle delle proteine.
«Sono ricostruzioni elaborate ed eleganti. E visualizzare la struttura delle proteine, per esempio, è importante perché consente di studiare come interagiscono tra loro e anche all’interno di una cellula. Si è così visto, tra l’altro, come si comporta la proteina legata al processo della malattia del sonno e, quindi, ora si può pensare a una cura».
Da quanti anni vive negli Usa?
«Mi sono trasferito nel 1978: vivo a Menlo Park, vicino alla Stanford University».
Si considera un cervello in fuga?
«No, affatto. Se si vuole fare scienza a livello avanzato, si deve andare dove ci sono le possibilità. Così ho trascinato la mia famiglia in giro per il mondo, in Danimarca, Svizzera, Gran Bretagna e poi negli Usa. Gli scienziati sono mobili. Sono “clerici vagantes”. È una tradizione antica».
La ricerca italiana come le appare dall’osservatorio della California?
«I suoi problemi sono noti e le ricette tutto sommato semplici: si deve creare un sistema basato sul merito e dare spazio ai giovani. Poi occorre avere i mezzi, ma ci vuole un’amministrazione, negli istituti e nelle università, che aiuti».
Che voto darebbe?
«Ci sono elementi di eccellenza, ma purtroppo la media non è alta».
Che cosa dirà a Obama?
«Non credo che abbia bisogno dei miei consigli. È un intellettuale ed è molto interessato alla scienza. E quindi spero che mantenga alto il livello finanziario necessario alla ricerca».
Qual è il costo del suo laser?
«Il primo che abbiamo costruito era sui 600 milioni di dollari. Ora c’è una seconda fase e ne saranno necessari 700-800. Il progetto ad Amburgo, invece, vale più di un miliardo di euro. Sono molti soldi, ma solo così si possono fare cose uniche».
La Stampa TuttoScienze 1.7.15
E l’Europa finanzia con 1,8 milioni il progetto italiano sulle particelle
L’obiettivo è misurare il passaggio delle particelle subatomiche. Ma ciò che prima avveniva in tre dimensioni, presto sarà possibile su quattro: lunghezza, larghezza, altezza e tempo. La realizzazione del nuovo rivelatore, da qui ai prossimi cinque anni, sarà nelle mani di Nicolò Cartiglia, primo ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare di Torino, che s’è aggiudicato un «grant» di 1,8 milioni di euro dal Consiglio Europeo della Ricerca, l’organismo che dal 2007 a oggi ha finanziato 5 mila ricercatori nel Vecchio Continente. Toccherà a lui guidare il gruppo incaricato di sviluppare un sistema di misura basato sul silicio e capace di restituire un’immagine a quattro dimensioni delle particelle che lo attraversano.
La novità sta nell’introduzione della quarta dimensione, il tempo: così si rileverà il passaggio di una particella con una precisione spaziale infinitesimamente piccola, in intervalli di tempo quasi indistinguibili, pari a 10 millesimi di miliardesimo di secondo. «Con tale accuratezza si potranno associare le particelle che appartengono allo stesso evento, scartando quelle che attraversano il rivelatore in tempi successivi», commenta Cartiglia, da sempre impegnato nella progettazione di dispositivi in grado di indagare la materia.
Oltre alla ricerca di laboratorio, questa tecnologia troverà applicazione in contesti di ricerca applicata in cui la rilevazione di particelle permette un miglioramento delle prestazioni degli strumenti. Uno è l’adroterapia, l’approccio terapeutico utilizzato contro diverse forme di cancro resistenti alla radioterapia.
La Stampa TuttoScienze 1.7.15
Il test che indaga la materia oscura
Indagare il lato oscuro dell’Universo: è la missione di DarkSide-50, il detective hi-tech inaugurato presso i Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Infn. L’esperimento cercherà di catturare le tracce lasciate dalle particelle di materia oscura quando interagiscono con l’argon liquido: è questa, infatti, la sostanza che riempie un grande rivelatore cilindrico, ricoperto di fotomoltiplicatori. Si tratta di «occhi» ultrasensibili, capaci di registrare segnali molto deboli ed estremamente rari.
La Stampa TuttoScienze 1.7.15
A caccia dei rumori dello spazio-tempo
Si chiama «Humor» e l’esperimento apre la prospettiva di testare uno dei punti-chiave della Teoria delle Stringhe: se cioè il tempo e lo spazio, che ci appaiono continui, siano in realtà fatti di minimi intervalli. Una questione fondamentale, la cui soluzione potrebbe spiegare l’origine dell’Universo. Ecco perché hanno suscitato grande interesse i primi risultati del test (il cui acronimo sta per «Heisenberg Uncertainty Measured with Opto-mechanical Resonators»), che sonda lo spaziotempo a dimensioni estremamente piccole: le misurazioni - si spiega su «Nature Communications» - sono state realizzate grazie a microspie iper-sensibili. «A bassissime energie - dice Francesco Marin, professore all’Università di Firenze - abbiamo effettuato, per mezzo di laser e sensori elettromagnetici, misure di spostamenti e di tempi con una precisione elevatissima, rilevando le vibrazioni di oscillatori di diverse dimensioni e masse, da qualche nanogrammo a qualche milligrammo». Sono dati preziosi: verranno utilizzati per verificare le previsioni delle teorie che mirano a unificare la gravità e la fisica quantistica.
Corriere 1.7.15
Un duello franco-inglese sulle sponde del Nilo
risponde Sergio Romano
La pace europea è frutto della Cee. Non si dimentichino le due guerre mondiali e i milioni di morti. Anche i rapporti tra gli alleati sono stati lontani dall’essere sempre idilliaci. Mi riferisco, come esempio, all’incidente di Fashoda, scontro tra le politiche coloniali di Francia e Gran Bretagna scoppiato nel 1898. Siccome la vicenda è poco nota, la potrebbe descrivere e commentare?
Eleuterio Pispoli
Caro Pispoli,
Fashoda appartiene soltanto in parte alla storia dei rapporti anglo-francesi. Il grande libro, di cui quell’episodio rappresenta uno dei capitoli più pittoreschi, è quello che racconta la spartizione dell’Africa, soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento.
Quando le maggiori potenze si riunirono a Berlino nel 1884, le dimensioni assunte dal fenomeno coloniale esigevano ormai una sorta di codice collettivo. Sotto la presidenza di Bismarck, fu deciso che gli Stati europei e gli Stati Uniti si sarebbero ispirati agli stessi principi economici, umanitari e giuridici: abolizione della schiavitù e della tratta, libertà di commercio e navigazione sui grandi fiumi, criteri per la rivendicazione di un territorio conquistato o acquistato. L’accordo fu utile, ma lasciava pur sempre larghi spazi alle iniziative individuali di esploratori, avventurieri, missionari, militari e poeti (come Arthur Rimbaud), instancabilmente alla ricerca di sfide, denaro e gloria.
Uno di questi fu il capitano francese Jean-Baptiste Marchand. Dopo avere lungamente predicato il colonialismo nei salotti e nelle anticamere ministeriali di Parigi, Marchand riuscì finalmente a convincere i suoi interlocutori che la Francia aveva il diritto di contendere alla Gran Bretagna il controllo delle terre fra il bacino del Congo e il bacino del Nilo. Il governo gli dette una mano e gli permise di organizzare una sorta di carovana composta da soldati indigeni (120), alcuni ufficiali, impiegati civili, medici, interpreti, vettovaglie per i membri della spedizione e regali per le tribù locali. Il viaggio cominciò sulle coste dell’Atlantico e si concluse nel luglio del 1898, dopo 4.500 chilometri, in una località chiamata Fashoda, crocevia per le carovane che provenivano da Gibuti, sul Mar Rosso, e quelle che scendevano dall’Egitto. Appena arrivato, Marchand prese possesso della regione in nome della Repubblica, alzò il tricolore francese e si preparò a firmare i soliti trattati di amicizia con cui le potenze coloniali prendevano possesso di nuove terre.
Il capitano francese, tuttavia, aveva trascurato la presenza nella regione di un corpo militare britannico, comandato dal generale Kitchener, che aveva appena regolato i conti con i seguaci del Mahdi (una sorta di profeta islamico) e vendicato la morte del generale Gordon, ucciso a Khartoum tre anni prima. Kitchener intimò a Marchand di andarsene, il francese resistette e cominciò così un duello fortunatamente incruento che ebbe effetto di attizzare il fuoco dei rispettivi patriottismi in Francia e in Gran Bretagna. La crisi terminò quando un nuovo ministro degli Esteri francese spiegò ai suoi colleghi che la rottura delle relazioni con la Gran Bretagna avrebbe reso la Francia più debole di fronte alla Germania. Qualche mese dopo i due governi si accordarono per la spartizione della regione del Congo e del Nilo. I termini dell’accordo favorirono Londra, ma crearono le premesse di un altro accordo (l’Intesa cordiale) che Francia e Gran Bretagna avrebbero concluso nel 1904.
Repubblica 1.7.15
Che cosa vuol dire essere casti oggi
È l’arte di non trattare mai l’altro come un oggetto,altrimenti lo si “consuma”
L’amore tra due persone è un lungo cammino e deve vincere ogni giorno
di Enzo Bianchi
priore della comunità monastica di Bose
A VOI giovani dico: siate casti … fate lo sforzo di vivere l’amore castamente! ». Queste parole di papa Francesco ai giovani pronunciate domenica scorsa hanno suscitato reazioni di ogni tipo ma tutte rivelative del dato che “castità” è una parola sovente incompresa, anzi misconosciuta e derisa, soprattutto perché è confusa con l’astinenza o la continenza sessuale o con il celibato. L’etimologia ci suggerisce che è casto ( castus ) colui che rifiuta l’incesto (in-castus). L’incesto avviene ogni volta che non si vive la distanza e non si rispetta l’alterità, che non è solo differenza. Non è casto chi cerca la fusione, l’attaccamento, il possesso: segno di tale ricerca è l’aggressività che, in questi casi, facilmente si accende e si manifesta. Sono sempre più convinto che la sessualità sta nello spazio del dono, perché richiede di dare e di ricevere e si colloca sempre nella relazione tra due soggetti. La sessualità non si riduce alla genitalità e la capacità di dono e di accoglienza è più ampia di quella esercitata nella genitalità: investe, infatti, l’intera persona e le sue relazioni. Per questo la sessualità è cosa buona e bella, ma il suo uso può essere intelligente o stupido, amante o violento, legato all’amore o alla pulsione. La sessualità ci spinge alla relazione con l’altro, ma dipende da noi cercare, in questa relazione, l’incontro o il possesso, la sinfonia o la prepotenza, lo scambio o il narcisismo.
Potremmo dire che la castità è l’arte di non trattare mai l’altro come un oggetto, perché in questo caso lo si “consuma” e lo si distrugge. Arte difficile e faticosa, che richiede tempo: non si nasce casti ma al contrario — va detto con chiarezza — si nasce incestuosi, e l’esercizio di separazione e di distinzione ci conduce verso una soggettività vera e autonoma. La castità conferisce alle relazioni umane una trasparenza che permette alle persone di riconoscersi nel rispetto del loro essere più intimo. Si pensi all’incontro sessuale dei corpi nella loro nudità e all’intimità che ne deriva. Quando i corpi nella nudità si incontrano e si intrecciano, si accende una conoscenza reciproca che non è comparabile a quella che possono avere l’uno dell’altro anche gli amici più intimi. Condividere il corpo e il respiro crea un’unione che è “conoscenza unica”, è — oserei dire, citando Giovanni Paolo II — “liturgia dei corpi”, è conoscenza penetrativa, di una profondità unica. Quando si tocca un corpo, non si tocca qualcosa, ma una persona, che non è un oggetto di piacere, che non può essere consumata, ma che è possibilità di comunione autentica. Senza questa comunione non è possibile la castità, ma solo l’obbedienza alla pulsione, all’estro, al possesso. Scriveva Rainer Maria Rilke: «Non c’è nulla di più arduo che amarsi: è un lavoro, un lavoro a giornata… L’amore è difficile e non è alla portata di tutti».
L’atto sessuale, compiuto nei tempi e nei modi che gli amanti sanno discernere come belli, buoni e “giusti”, è conoscenza, e non si deve avere paura di affermare che proprio il piacere sommo dell’atto sessuale incendia tale conoscenza. Ma non è facile distinguere questo piacere sommo dell’incontro dei corpi, dei cuori, delle intelligenze, dalla pulsione. Sì, la pulsione da sola, con la sua prepotenza, può creare l’inferno, eppure essa ci abita, e, se non ci fosse, non saremmo naturalmente capaci di darci e di accoglierci. La pulsione da sola può addirittura portare a un’unione dei corpi che conosce solo l’attimo fuggente e a un’eccitazione dei sensi che conosce la senescenza precoce dei sensi stessi. Non è anche per questo che sovente le storie d’amore, anche sigillate pubblicamente, conoscono la fine e dunque il fallimento dell’amore? L’amore tra due persone è un lungo cammino che solo una forza più grande di loro — che il credente riconosce come la misericordia di Dio — può far leggere come cammino possibile senza interruzioni: da parte degli amanti c’è sempre un venir meno, un non essere adeguati all’altro, un’incapacità a essere sinfonici. L’amore deve vincere sempre, ogni giorno, su tutte le forze che gli sono contrarie perché obbediscono solo alla pulsione, la quale non vuole il bene dell’altro, anche se ci fa dire che all’altro si vuole bene.
Quando, di fronte all’altro soggetto, non si sa stare con rispetto, come davanti a un mistero, a una trascendenza; quando non si è capaci di inchinarsi di fronte all’altro e di farlo per amore; quando non si percepisce il segreto dell’altro, che sfugge alla nostra presa, allora non si è capaci di castità. Ecco la difficoltà della castità, quasi impossibile, invivibile si potrebbe dire; anche Gesù, del resto, ha messo in guardia i suoi discepoli: «Chiunque guarda una donna per bramarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore» (Mt 5,28). Guardare una donna per bramarla è vederla non in quanto donna, ma come oggetto, dunque non percepire in lei “la persona altra”; significa passare accanto a una possibile relazione autentica, per percorrere altre vie che non portano alla comunione.
Ma proprio mettendoci di fronte a questa esigenza, comprendiamo le nostre fragilità, le nostre incapacità, e misuriamo la dominante animale che è in noi e che non sempre siamo capaci di sottomettere e di ordinare. Proprio per questo — io credo — Gesù ha annunciato il mistero della sessualità e l’ha legato in modo escatologico al regno di Dio veniente. La castità è un lungo tragitto, e si sarà casti veramente solo se si accetterà di morire, se si sarà capaci di fare della morte un atto, un atto di scioglimento di legami. Troppo spesso si assimila il celibato alla castità, dimenticando che il celibato è una situazione che si vive, mentre la castità è a un altro livello: non è una situazione, ma una dinamica che non raggiunge mai pienamente il suo obiettivo. Noi umani siamo così deboli, conosciamo così poco le nostre profondità, non abbiamo presa sul nostro intimo più nascosto e siamo abitati da pulsioni e desideri non sempre distinguibili.
Proprio per questo, oso dire che chi fa professione di celibato può promettere davanti a Dio ed esprimere con i voti questa situazione, mentre la castità non dovrebbe essere una promessa, perché a essa il soggetto può tendere, ma mai viverla senza incrinature né contraddizioni. Il celibato cristiano richiede di cercare la castità ma non si identifica con essa. Del celibato si può forse dire che è “grandezza”, ma si deve dire che è anche “miseria”, quella miseria che ognuno conosce nelle sue contraddizioni alla castità. Ecco perché credo sia bene che papa Francesco abbia ricordato ai giovani le esigenze della castità, tensione interiore preziosa in ogni scelta di vita legata all’amore e impossibile da raggiungere senza un cammino di umanizzazione.
L’autore è priore della comunità monastica di Bose
Repubblica 1.7.15
Papa Francesco
Il pontefice Pastore e Profeta che vuole incontrare la modernità
Una riflessione a partire dall’Enciclica di Bergoglio e dalle sue intenzioni di ricostruire l’unità del mondo cristiano
E di intensificare il dialogo con le altre religioni
di Eugenio Scalfari
Bisogna rileggere il “Cantico” di Francesco d’Assisi, che proprio per questa rilettura è stampato in questa pagina e che papa Bergoglio ha posto come titolo della sua prima Enciclica. Esso illumina tutto il documento del Papa, spiega perché Bergoglio ha preso il nome di Francesco che non era mai stato usato nei duemila anni di storia della Chiesa e soprattutto dà significato e risposta ad una domanda che molti, fedeli e non fedeli, si sono posti: perché mai papa Francesco dedica la sua prima Enciclica all’ecologia? Non ci sono altri problemi assai più pressanti e drammatici in questi tempi oscuri che stiamo attraversando? Certo che ci sono e papa Francesco li affronta uno dopo l’altro in tutta la loro plenitudine, cominciando da quello della povertà, dall’emigrazione di
interi popoli ormai senza terra, dalle guerre che dilaniano il mondo, dall’imperante egoismo, dall’intollerabile diseguaglianza economica e sociale. Lui non si rivolge soltanto ai cristiani ma a tutti gli uomini che Dio ha creato con la terra affidando essi alla terra e la cura della terra a loro, cioè a noi.
Tutti i commentatori dell’Enciclica che in questi giorni ne hanno letto il testo, hanno concordemente sottolineato questi “passaggi” dandone ovviamente diverse interpretazioni. Perciò a me, che volontariamente non sono finora intervenuto su temi che mi hanno sempre interessato e che nei mesi scorsi ho più volte avuto l’occasione di discuterne direttamente con papa Francesco, non resterebbe che prendere atto sia dell’Enciclica sia della preparazione del Sinodo che avrà luogo nel prossimo ottobre sia degli interventi di Francesco avvenuti subito dopo la pubblicazione dell’Enciclica sia del suo incontro con i Valdesi a Torino e sia infine dei commenti che quest’immensa mole di lavoro religioso e pastorale ha provocato, per uscirne più ricco di conoscenza.
Certamente è così, ne esco arricchito e più informato della politica religiosa che Francesco porta avanti con ritmo sempre più serrato. Ma mi pongo due domande che meritano approfondimento e risposta: chi è veramente papa Francesco? E chi è veramente Jorge Mario Bergoglio?
Ogni Papa ha tratti salienti che configurano il ruolo che ha avuto nella storia del cristianesimo. Ma quel ruolo e gli effetti che ha provocato sulle società dell’epoca in cui quel Papa visse e operò derivano dalla personalità dell’uomo che a un certo punto della sua vita fu chiamato a sedersi sul trono di Pietro. Il carattere della persona determina la carica che ricopre, ma accade nello stesso tempo che la carica crea lineamenti nuovi in quella persona. Rispondere a quelle due domande che mi sono poste è ormai non solo possibile dopo due anni di pontificato, ma necessario per capire quanto sta accadendo nella Chiesa e quanto probabilmente accadrà fin quando sarà Francesco ad esercitare il suo magistero sulla cattedra di Pietro. *** Francesco non è più soltanto un Papa, ma un Profeta, anzi soprattutto un Profeta e un Pastore. Ch’io sappia non era mai avvenuto prima di Lui, Papi pastori forse sì, qualcuno, pochi comunque. Abbondano nella storia della Chiesa Papi diplomatici o guerrieri o mistici o liturgici o legislatori o organizzatori. Profeti no, non ce n’è stato nessuno. Paolo di Tarso fu anche profetico oltre che legislatore e fondatore della religione cristiana; Agostino altrettanto e Girolamo e Bonaventura e Anselmo e Francesco d’Assisi e molti altri, ma non erano Papi, non erano vescovi di Roma. Francesco invece lo è. Dobbiamo dire che l’eccezione conferma la regola e che dopo di Lui non ci sarà alcun altro come Lui? Temo di sì, temo che resti un’eccezione, ma la spinta che sta dando all’”Ecclesia” avrà profondamente cambiato il concetto di religione e di divinità e questo resterà un cambiamento culturale difficilmente modificabile.
Ma perché dico Profeta? In che cosa consiste la sua profezia e il suo concetto di divinità? Dio è Uno in tutto il mondo e per tutte le genti. Naturalmente l’affermazione vale soltanto per chi ha fede in un aldilà e in un Creatore.
L’unicità del Dio creatore esclude ogni fondamentalismo, ogni guerra di religione, ogni divinità plurima. La stessa Trinità, mistero della fede cattolica, cambia natura e Francesco l’ha detto più volte e proprio nei giorni scorsi ancor più chiaramente a Torino quando ha risposto alle domande di tre giovani di fronte a migliaia di persone radunate per ascoltarlo.
Ha detto che lo Spirito Santo è lo Spirito di Dio che suscita nel cuore degli uomini la vocazione al bene e il Figlio è Dio che ama le sue creature e suscita l’amore umano in tutte le sue caste forme. Questa è la Trinità: non più il mistero della fede ma l’articolazione dell’unico Dio, misericordioso, amoroso, creatore e quindi Padre. La misericordia è infinita, il peccato fa parte delle contraddizioni insite nel Creato, necessaria ricchezza di ogni singola creatura che non è il clone delle altre. Le contraddizioni contengono amore, perdono, ma anche rabbia per i torti subiti e vergogna per quelli compiuti contro gli altri. Nelle contraddizioni c’è ricchezza e peccato insieme. La misericordia del Padre viene trasmessa anche alle sue creature e sono i Pastori a insegnarla e a praticarla, essi per primi.
Forse papa Francesco non ha ancora tratto una conseguenza teologica da questa sua visione profetica che sta portando avanti ogni giorno: Lui non è più il Vicario di Gesù Cristo in terra, ma è il Vicario di Dio perché Cristo non è che l’amore di Dio, non un Dio diverso che s’incarnò, visse 33 anni, cominciò la predicazione a 30 anni e fu crocifisso quando l’imperatore Tiberio era stato appena insediato dal Senato dopo la morte di Ottaviano Augusto.
I vangeli raccontano quella storia, ma gli evangelisti — tranne forse Giovanni — scrissero racconti di seconda mano e non conobbero mai il Gesù di cui descrivono la vita e la predicazione. Quanto a Paolo di Tarso, fondatore della religione che da Cristo prese il nome, egli non conobbe e non incontrò mai Gesù di Nazareth. Eppure fu proprio Paolo il fondatore. Fosse stato per Pietro, il cristianesimo sarebbe rimasto una setta ebraica, definita dai suoi seguaci “ebraico-cristiana” come all’epoca ce n’erano molte: i Farisei, gli Esseni, gli Zeloti ed altri ancora, con al vertice il Sinedrio che amministrava la Legge e il Tempio che ne era la sede.
Così era concepita la comunità ebraico-cristiana guidata da Pietro e da Giacomo, che Paolo costrinse ad uscire da Gerusalemme e ad aprire la nuova religione da lui fondata al mondo circostante, nel Medio Oriente, in Grecia, in Egitto, a Roma e di lì in tutti i territori dell’Impero cioè tutta l’Europa.
Il Gesù raccontato dai vangeli probabilmente è esistito, probabilmente ha predicato. La sua persona è stata teologizzata, le comunità cristiane hanno creato una dottrina, una liturgia, un diritto canonico. Nei testi derivanti da quella dottrina Dio viene anche definito come il Dio degli eserciti. Il senso di questa definizione è duplice: eserciti di fedeli o eserciti di guerrieri, combattenti nelle Crociate, nell’Inquisizione, nelle guerre delle potenze europee nelle quali la Chiesa in vario modo è intervenuta. Il potere temporale del Papa l’ha indotto a partecipare ad alleanze o a guerre con la Spagna, con la Francia, con l’Austria, con l’Impero, con Venezia.
Questo è stato il Papato fino al 1861 quando fu proclamato il Regno d’Italia. Non per questo il potere temporale dei Papi finì. Continuò e in parte continua tuttora e Francesco ha impegnato contro di esso la sua lotta. La sua visione è una Chiesa missionaria in cui la Chiesa istituzionale rappresenta soltanto l’intendenza, destinata a predisporre i servizi dei quali la Chiesa missionaria ha bisogno.
La vera politica di Francesco è quella di riunificare il cristianesimo, foglia dopo foglia, ramo dopo ramo. Nei giorni scorsi ha incontrato il rappresentante della Chiesa valdese. Non era mai avvenuto un incontro simile. I Valdesi erano catari, un movimento scismatico che arrivò in Italia dall’Europa centrale, attraversò tutta la pianura Padana, giunse a Marsiglia ostacolato e combattuto in tutti i modi e a Marsiglia fu massacrato dalle truppe francesi, incoraggiate e benedette dalla Chiesa di Roma che si assunse la responsabilità di quel massacro.
Pietro Valdo faceva parte di quella comunità ma, arrivato nelle valli piemontesi, decise di fermarsi. Subì anche lui assalti e vessazioni di ogni sorta. Non sono molti i valdesi ma religiosamente sono una comunità importante e rispettata.
Ebbene, papa Francesco li ha incontrati a Torino pochi giorni fa e a nome della Chiesa cattolica ha invocato il loro perdono; i Valdesi lo hanno ringraziato “dal profondo del cuore”. Si rivedranno presto e apriranno un discorso più impegnativo. L’obiettivo di Francesco è di aprire la Chiesa a tutte le comunità protestanti e riunirle. Dio è unico e i cristiani debbono tornare ad essere un’unica religione, ma non basta. Non a caso Francesco è aperto anche con i musulmani perché il loro Dio è il medesimo dei cristiani.
Non è profetico questo pensiero? E non è profetico il titolo dell’Enciclica? Il Santo di Assisi ringrazia Dio per la morte corporale che è prevista dalla creazione. È un dono la morte. Ecco perché dico che Francesco è il Vicario di Dio, che lo Spirito Santo ha deciso di porre sul soglio di Pietro.
*** Ma Jorge Mario Bergoglio era così anche prima di diventare Papa? La carica che riveste ormai da due anni l’ha cambiato o è lui che ne ha cambiato il ruolo?
Ho incontrato papa Bergoglio quattro volte e ho scritto spesso su di lui. Mi permetto di dire che siamo diventati amici. Se Dio è unico in tutto il mondo anche la Chiesa non può che essere una e proprio perché è una dovunque non può e non deve occuparsi della politica. Libera Chiesa in libero Stato era il motto di Cavour ma direi che ora è anche il motto di Bergoglio. L’altro motto di cui è stato proprio Bergoglio a indicarmi in uno dei nostri incontri è: «Ama il prossimo tuo più di te stesso». Con quella frase si rivolge all’intera società del mondo e ai ricchi soprattutto perché sono loro che debbono donare e la ricompensa è soltanto nel donare senza nulla pretendere in cambio se non l’amore di Dio.
Bergoglio sa perfettamente che il mondo sta vivendo in una società globalizzata, sa che c’è un popolo di “senzaterra” di oltre sessanta milioni di persone che vagano per il mondo in cerca di dignità e di vita.
Infine Bergoglio si è anche proposto di cambiare la struttura della Chiesa che finora è stata verticale. Vuole affiancare a quella verticale anche una struttura orizzontale: i Sinodi dove convengono i Vescovi di tutto il mondo. Da questo punto di vista ha adottato l’idea centrale del cardinal Martini del quale era buon amico e che votò per lui nel Conclave dal quale uscì Papa il cardinale Ratzinger.
Una Chiesa verticale ed orizzontale: questa è la struttura che Francesco sta attuando e con essa un rilancio religioso delle Conferenze episcopali che debbono operare tutte in terra di missione poiché la Chiesa dev’essere ovunque missionaria.
Ho chiesto in uno dei nostri incontri a papa Francesco se non sia il caso di convocare un nuovo Concilio che prenda atto e dia il suo sigillo a tutte queste novità, ma Lui mi ha risposto: «Il Vaticano II pose come suo principale obiettivo quello di incontrarsi con il mondo moderno. Questa dichiarazione conciliare è importantissima ma da allora non ha mosso un solo passo avanti. Perciò non ho alcun bisogno di convocare un altro Concilio, debbo invece applicare concretamente il Vaticano II ed è questo che sto tentando di fare: l’incontro con la modernità».
Quest’incontro solleverà problemi enormi: la modernità occidentale è nata dall’illuminismo ed è approdata al relativismo, non c’è nulla di assoluto a cominciare dalla verità. Francesco naturalmente risponde a questi problemi sottolineando l’importanza della fede, ma non toglie che l’incontro con la modernità susciterà problematiche del tutto nuove che soltanto un Papa-profeta può intravedere e gestire. Gli auguro lunga vita, convinto come sono che è Lui la figura più rilevante del secolo in cui viviamo.