il Sole 3.7.15
Muro della minoranza Pd ma Renzi media
Venticinque senatori dem rilanciano l’elezione diretta dei futuri senatori con la benedizione di Bersani e Speranza
Il governo apre al principio della «riconoscibilità» nel testo
di Emilia Patta
ROMA «All’indomani della promulgazione dell’Italicum diviene prioritario il tema della composizione del Senato, che non può rimanere composto da eletti di secondo grado, come stabilito in prima lettura, dal momento che l’unica Camera politica in vigore avrà una maggioranza di parlamentari nominati dalle segreterie...Si apre dunque lo spazio per l’elettività diretta dei senatori da parte dei cittadini con metodo proporzionale contestualmente alle elezioni regionali». Elezione diretta dei futuri senatori con metodo proporzionale, dunque, mantenendo un’indennità propria. Non solo: il nuovo Senato dovrà avere più competenze e i deputati dovranno essere meno di 630 in modo da riequilibrare le forze con il Senato dei 100: «Lo squilibrio esistente tra il numero dei componenti di una Camera rispetto a quelli dell’altra può essere risolto prendendo in considerazione la riduzione del numero dei deputati, con il duplice obiettivo di recuperare un maggiore equilibrio fra i due rami del Parlamento e di ottenere un’equivalente riduzione dei costi della politica».
Le riforme costituzionali ripartono in Senato, con l’incardinamento in commissione Affari costituzionali (l’esame vero e proprio del testo inizierà martedì 7), e in casa Pd sembra si voglia giocare al gioco dell’oca. Nonostante la doppia lettura conforme di Senato prima e Camera dopo dell’articolo 2 del Ddl Boschi, secondo cui il futuro Senato delle Autonomie sia eletto dai Consigli regionali, ieri 25 senatori della minoranza del Pd hanno presentato un documento che va nella direzione esattamente opposta e che addirittura prevede di mettere in discussione anche la composizione della Camera dei deputati. Le firme in calce al documento sono quelle note: da Miguel Gotor a Vannino Chiti, da Maurizio Migliavacca a Walter Tocci, da Massimo Mucchetti a Lucrezia Ricchiuti. Venticinque, laddove la maggioranza in Senato si regge su meno di dieci voti. E stavolta i “dissidenti” non possono essere descritti come cani sciolti, dal momento che sull’iniziativa dei senatori della minoranza scende la benedizione di Pier Luigi Bersani e di Roberto Speranza, l’ex capogruppo a Montecitorio ora leader di Area riformista: «Il documento dei 25 senatori sulle riforme istituzionali va nella direzione giusta - si affretta a commentare Speranza -. L’Italicum determinerà purtroppo una Camera dominata dal partito vincente e composta prevalentemente da parlamentari nominati. Dinanzi a tale sistema elettorale è necessario un Senato delle Autonomie pienamente investito dalla diretta volontà popolare».
Ha un ben dire il “falco” di Forza Italia Renato Brunetta, capogruppo alla Camera, che «dopo il documento dei 25 Matteo Renzi non ha più i numeri per le riforme». E mentre i renziani doc, nelle due Camere, allargano le braccia e commentano all’unisono «è un disastro», nel cerchio del premier si studia già una possibile ipotesi di mediazione tesa se non a recuperare tutti i dissidenti (è convinzione del premier che alcuni di loro non voterebbero a prescindere) almeno a spaccare il fronte dei dissidenti. La soluzione su cui si ragiona da alcune settimane è quella di prevedere un “listino” ad hoc all’interno delle liste dei partiti per l’elezione dei Consigli regionali in modo che gli elettori sappiano preventivamente quali consiglieri andranno a ricoprire anche la carica di senatori: un meccanismo che dovrà essere disciplinato da una legge ordinaria di attuazione della riforma. La novità è che il governo apre all’ipotesi di introdurre questo principio di riconoscibilità dei futuri senatori, ferma restando tecnicamente l’elezione di secondo grado, anche nel testo della riforma costituzionale. Senza tuttavia toccare l’articolo 2, dal momento che la prassi parlamentare e costituzionale vuole che gli articoli approvati conformemente dalle due Camere non possano più essere emendati (anche se i bersaniani si appellano ad altre interpretazioni, come quella del costituzionalista Enzo Cheli). Il principio di riconoscibilità andrebbe dunque introdotto in altri articoli del testo.
«Il modo si trova, sta alle tecniche parlamentari», assicurano nel cerchio renziano. Ma è chiaro che questa modifica si farà se ci sarà reale apertura da parte della minoranza, apertura che i vertici Pd del Senato non escludono in queste ore. Altrimenti si andrà alla conta in aula, in un braccio di ferro il cui esito - sperano i renziani - sarà determinato dalla nulla volontà di ritornare al voto da parte di tutti i parlamentari, a cominciare da quelli delle opposizioni. Perché è chiaro che in caso di mancata approvazione della riforma costituzionale c’è solo la via del Quirinale per Renzi. Ma certo, il rischio che un colpo sparato a casaccio finisca a segno c’è sempre.