mercoledì 15 luglio 2015

Il Sole 15.7.15
L’ira israeliana e i rischi di un effetto a catena
Le ricadute nella regione. L’intesa potrebbe avviare una corsa al nucleare
di Ugo Tramballi


Un’opportunità per costruire un sistema di sicurezza collettiva per il Medio Oriente o un’altra causa d’instabilità dopo le guerre civili, lo scontro religioso e geopolitico fra sciiti e sunniti, l’Isis e la disgregazione delle vecchie frontiere? La prima preoccupazione dell’accordo di Vienna è un’altra: che possa avviare una incontrollabile proliferazione nucleare nella regione.
La minacciosa richiesta, qualche tempo fa, era stata avanzata dal principe Turki al-Faisal, l’ex capo dei servizi segreti sauditi: qualsiasi cosa concederete agli iraniani, la vogliamo anche noi. Ciò che in lunghi anni di negoziato Teheran ha ottenuto, è di poter sviluppare un programma nucleare civile. L’Npt, il Trattato sulla non proliferazione, garantisce questo diritto a tutti i Paesi firmatari: l’Iran è fra questi. Ma «a dire la verità i programmi nucleari civili sono stati usati come copertura per l’acquisizione di armi atomiche», scrive il Bulletin of the Atomic Scientists di Chicago. «Il ciclo di combustibile per una centrale nucleare fornisce tecnologia che fornisce il materiale necessario per costruire armi nucleari». È una tentazione forte. Tutti i proliferatori illegali (perché non hanno aderito all’Npt o lo hanno violato) sono diventati potenze atomiche incominciando da programmi civili: Israele, India, Pakistan, Corea del Nord. Anche l’Iran di Ahmadinejad ci stava provando.
Per sviluppare un programma nucleare occorre molto denaro – fra i 5 e i 10 miliardi di dollari – e un alto livello tecnologico. L’Arabia Saudita, il principale indiziato, abbonda del primo ma non ha la manodopera preparata per occuparsene. Con l’aiuto della Corea del Sud, il primo reattore nucleare dovrebbe diventare operativo non prima del 2022. Se alla fine si sentissero umiliati dall’accordo di Vienna, con i soldi i sauditi potrebbero comprare il prodotto finito dal Pakistan: a suo tempo il programma nucleare pakistano, la prima “bomba islamica”, era stato finanziato anche da Riad. Tuttavia un ordigno nucleare non è come un bombardiere supersonico, non si costruisce per l’esportazione ma per ambizione nazionale. «Mangeremo erba, diventeremo anche affamati, ma avremo la nostra bomba», diceva Zulfikar Ali Bhutto, il premier che avviò il programma pakistano.
Nonostante le difficoltà causate dalla guerra afghana, Islamabad ha bisogno dell’alleanza con gli Stati Uniti che non gradirebbero un baratto di questo genere. Le stesse considerazioni che non possono evitare i sauditi, la cui sicurezza nazionale è garantita dall’America. Alleati in polemica ma sempre alleati: e la parte più forte del sodalizio rimane quella americana.
Così la Turchia, un altro grande Paese della regione con tentazioni nucleari. È dal 1952 che i turchi beneficiano dell’ombrello nucleare che gli Stati Uniti assicurano a tutti i membri della Nato: la ragion di stato rende improbabile una bomba turca. In Anatolia saranno costruite due centrali a partire dal 2022, una con Rosatom russa e l’altra con un consorzio franco-giapponese. Ma la Turchia ha già firmato con l’Agenzia atomica dell’Onu, gli accordi di garanzia e un protocollo aggiuntivo, per la totale trasparenza. Come gli Emirati arabi che hanno il programma nucleare civile più sviluppato della regione e tuttavia sono considerati «un membro esemplare del regime internazionale di non proliferazione» .
L’unico Paese arabo ad avere avuto un programma nucleare militare è l’Egitto: ma vi rinunciò nel 1968, aderendo poi alla proposta dello Shah di Persia di un Medio Oriente senza armi atomiche. Da allora, piuttosto che in centrali e arricchimento, l’Egitto ha investito diplomaticamente sull’eliminazione delle armi di distruzione di massa, il cui unico detentore nella regione, oggi, è Israele: una centrale a Dimona e un arsenale di almeno 200 testate atomiche.
Non è per difendere questo primato che Bibi Netanyahu si è scatenato contro l’accordo di Vienna (definito «un errore storico e scioccante»): le ragioni sono altre, più politiche. Israele non ha mai minacciato i Paesi vicini di usare il suo arsenale che non nega né conferma di avere: è un’arma difensiva, di «estremo ricorso». Ma ciò non significa che se ne escluda l’uso. Henry Kissinger ha scritto che all’inizio della guerra del Kippur, nel 1973, quando gli egiziani superarono il Canale e i carri siriani si avvicinavano alla Galilea, ci fu il rischio che gli israeliani potessero usare i loro ordigni atomici.