lunedì 13 luglio 2015

Il Sole 13.7.15
Iran verso l’accordo sul nucleare
Atteso oggi l’annuncio dell’intesa che pone fine alle sanzioni
di Alberto Negri


Se almeno uno dei problemi del Medio Oriente fosse risolto con la diplomazia e non attraverso la guerra, questo sarebbe già un enorme risultato, senza precedenti nella storia di una regione dove sono in corso conflitti devastanti. Era questa la speranza che accompagnava le ultime battute del negoziato di Vienna tra il Cinque più Uno e l’Iran, quando sembrava ormai vicino l’annuncio di un’intesa. Le guerre mediorientali non hanno mai fine e quella di Palais Coburg appariva l’unica alternativa offerta dalla diplomazia alle armi.
Che la posta in gioco fosse ben più del nucleare iraniano lo avevano capito tutti gli attori della regione, da Israele all’Arabia Saudita che hanno sempre avversato un accordo con l’Iran sciita degli ayatollah. L’Iran è una potenza non araba, portabandiera dell’Islam sciita, acerrima rivale dell’Arabia Saudita, il bastione del sunnismo, ed è considerata da Israele una sorta di nemico esistenziale. Per questo i negoziati di Vienna apparivano agli alleati degli americani, agli arabi sunniti in particolare, come una sorta di tradimento, l’inversione di una storica tendenza della politica estera Usa, cominciata sin da quando Roosevelt nel ’45 aveva stretto alleanza con la dinastia di Ibn Saud.
Obama ha cercato di sparigliare le carte sulla mappa del Medio Oriente. «L’Iran potrebbe diventare una potenza molto prospera», aveva dichiarato alla National Public Radio Barack Obama il 29 dicembre 2014. Il presidente americano non aveva mai fatto intendere con questa chiarezza che il negoziato sul nucleare iraniano, in corso da 13 lunghi anni, andasse ben oltre la questione delle centrifughe e dell’arricchimento dell’uranio. Un ritorno a pieno titolo di Teheran sulla scena mediorientale può incidere in maniera fondamentale sulle relazioni tra Usa e Iran ma ridisegna anche la carta geopolitica della regione. In realtà è di questo che si è discusso a un tavolo dove le potenze coinvolte hanno portato le loro istanze e i loro interessi, non sempre convergenti. Per questo un accordo era difficile ed è sembrato quasi impossibile.
Questo, del resto, è sempre stato un faccia a faccia tra Teheran e Washington. A partire da quel fatale 4 novembre 1979 con il sequestro degli ostaggi americani nell’ambasciata Usa di Teheran. Come raccontava Ibrahim Yazdi, l’ex ministro degli Esteri iraniano, le cose dovevano andare ben diversamente. Quando l’Imam Khomeini seppe che gli studenti avevano occupato l’ambasciata Usa disse: «Prendeteli a calci e mandateli a casa». Ma quando si accorse che migliaia di persone erano ammassate davanti alla sede diplomatica cambiò idea: «Questa - annunciò - è la seconda rivoluzione dopo quella contro lo Scià».
Eppure, nonostante l’eredità rivoluzionaria rappresentata dalla Guida Suprema Ali Khamenei, per l’Iran le cose sono abbastanza chiare, forse più che per chiunque altro degli attori del negoziato. L’Iran è il protagonista meno irrazionale del Golfo. Nonostante la matrice religiosa del regime, la repubblica islamica nei momenti decisivi ha sempre mostrato di preferire il pragmatismo all’ideologia. E questa volta la posta è fondamentale: la trattativa, in ogni caso, avrà conseguenze rilevanti per la stabilità del Medio Oriente, nella lotta al Califfato e negli equilibri di potenza regionali tra Teheran, l’Arabia Saudita, Israele e la Turchia. In un momento drammatico in cui nel Levante arabo si disgregano stati come Siria, Iraq, Yemen, e nel Nordafrica, dalla Tunisia all’Egitto, si moltiplicano gli attentati ispirati dall’Isis, l’Iran sciita e i suoi alleati, dagli Hezbollah a Bashar Assad, al governo di Baghdad, sono insieme ai curdi i maggiori nemici sul campo dei jihadisti sunniti: è da un’eventuale intesa a Vienna che l’Occidente poteva cominciare a sciogliere il rebus mediorientale.
Un fallimento, dicevano a Teheran in questi giorni, non porterà certamente né più sicurezza né più stabilità ma non sarà neppure la fine del mondo: piuttosto la constatazione che anche una media potenza come l’Iran può sopravvivere alle sanzioni, per altro rispettate quasi soltanto dagli occidentali. La Cina è il primo partner commerciale dell’Iran con 50 miliardi di dollari di interscambio l’anno, e fornisce il 40% delle armi ai Pasdaran. Non solo, con l’accordo “oil for goods”, petrolio contro merci, la Russia si impegna ad acquistare dall’Iran 500mila barili di greggio al giorno in cambio di beni di ogni tipo, oltre che a vendere a Teheran i missili balistici S-300.
Certo il compromesso sul nucleare per Teheran vale assai di più: 100 miliardi di contratti petroliferi - è la stima del ministero del petrolio di Teheran - il ritorno delle major occidentali e forse altri 50-100 miliardi per lo scongelamento dei conti all’estero, oltre all’asset inestimabile di vedersi riconoscere il rango di “normale” potenza sulla scena internazionale. Alcuni anni fa i russi dicevano che «era meglio avere un Iran nucleare che un Iran filo-americano». Forse per i russi oggi «è meglio un Iran armato da loro che da altri», comunque vadano le cose a Vienna.