Fassina cita papa Francesco
Corriere 5.7.15
Fassina riunisce delusi pd e sinistra «Siamo qui per fare un partito»
Sul palco Civati e Cofferati, in platea Salvi e Ferrero: verniciamo di rosso la politica
di Monica Guerzoni
ROMA Impugnare un metaforico pennello e «dare una verniciata di rosso alla politica italiana». È l’immagine che evoca dal palco, tra gli applausi, il filosofo Michele Prospero e che Stefano Fassina, in camicia bianca, declina in ogni sfumatura possibile: «Siamo qui per fare un partito politico, chiamiamo le cose con il loro nome!». E poi, strappando l’ovazione: «Vogliamo essere l’affluente di un fiume che si misura con una prospettiva di governo».
Sudati e contenti i 600 del Palladium sono qui per questo, perché quella voglia di rosso diventi un vessillo, da sventolare già alle Amministrative del 2016. Guardano alla Grecia e sognano che, in autunno, metta radici da noi una Syriza italiana, con Fassina, Civati, Vendola e forse anche Landini. Un partito fondato su lavoro, scuola e democrazia, le tre colonne d’Ercole che Renzi avrebbe varcato per traghettare il Pd altrove, fuori dai confini della sinistra. «Il Pd si è riposizionato con gli interessi di Marchionne, si è appiattito sulla Merke l — scandisce Fassina —. Tra il Pd e il popolo democratico abbandonato dal Pd, noi abbiamo scelto il popolo democratico».
I fuoriusciti «dem», fondatori come Pippo Civati e Sergio Cofferati o giovani leve come Monica Gregori, ripartono da Garbatella, antica borgata romana col cuore a sinistra. Senza simboli, pronti a navigare a vista. Perché, teorizza Fassina, «non possiamo vendere un prodotto preconfezionato». Il partito si farà, giura l’ex viceministro che fu silurato dal premier con l’interrogativo «Fassina chi?». E guai a cadere nella «sindrome di Jep Gambardella» in La grande bellezza, essere un vuoto in cerca di contenitori : «La proposta è uscire da qui senza costruirne. Avviamo invece un cammino nei territori, in mille città e municipi».
Lasciare il Pd è stato «doloroso» eppure non c’è rimpianto, nemmeno un filo di nostalgia. L’economista bocconiano guarda avanti e sfida Renzi: «Le battaglie giuste si fanno anche quando sono a rischio di sconfitta. Sì, la strada è in salita. Sì, il progetto è ambizioso e troveremo ostacoli. Ma rassegnarsi alla dittatura del presente sarebbe la vera sconfitta». È il suo primo intervento dopo l’addio, è la prova generale di una leadership da strutturare: «Se avessimo voluto conservare poltrone, avremmo avuto strade facili». Anche la sua «agenda alternativa» è da scrivere, ma i capisaldi Fassina li ha chiari. Scendere dal «Titanic Europa», rilanciare gli investimenti, «combattere contro i pirati del conformismo, del pensiero unico, dell’affarismo politico...». Combattere la povertà, il precariato, l’esclusione sociale: «Oggi è il 4 luglio e celebriamo l’indipendenza da una sinistra rassegnata e subalterna» .
Fassina cita papa Francesco, Fukuyama, Reichlin e impugna la Costituzione. Prospero evoca Marx. Arghiropoulos di Syriza pronuncia la parola «compagni». Applausi. La sala è strapiena. Tra platea e galleria segretari di circolo, amministratori locali e qualche «reduce» della vecchia sinistra, da Paolo Ferrero a Cesare Salvi, da Antonello Falomi a Vincenzo Vita. In prima fila Alfredo D’Attorre, ancora nel Pd. Ecco i vendoliani in partenza per Atene (Fratoianni, Scotto, Smeriglio, Furfaro), pronti a sciogliere Sel per l’«avventura unitaria» .
Civati fissa le tappe del movimento: «L’estate sarà un periodo di incubazione e in autunno arriverà il nostro progetto unitario». Fassina declama «L’isola che non c’è» di Bennato e Civati, convinto che il Pd sia un partito di centro, ci crede: «L’isola c’è ed è grandissima». Ma Roberto Speranza invita a costruire ponti, perché i fuoriusciti «non sono avversari» .