domenica 5 luglio 2015

Corriere La Lettura 5.7.15
Il carcere non può essere una pena
Interviene il Coordinatore degli Stati generali sul trattamento e il recupero dei detenuti
di Glauco Giostra


Un’emblematica coincidenza: mentre tra pochi giorni l’ordinamento penitenziario compie quarant’anni, in Parlamento è iniziato l’esame del disegno di legge delega per la sua riforma. L’ottimismo con cui saremmo indotti a brindare a questo compleanno così foriero di promettenti prospettive è «guastato» da alcuni inquietanti interrogativi, cui non è facile dare una risposta incoraggiante. Come è possibile che con un ordinamento penitenziario al tempo tra i più avanzati del mondo siamo giunti a subire una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, per trattamento inumano e degradante delle persone detenute? Come è possibile che il disegno di legge delega miri «all’effettività rieducativa della pena», quando è già la nostra Costituzione a esigerlo da quasi settant’anni? Come è possibile che oggi l’aratro della riforma insista, a ben vedere, sugli stessi solchi tracciati dalla legge penitenziaria di quarant’anni fa?
A questo sconfortante bilancio hanno concorso molteplici cause, ma la causa delle cause risiede nella diffusa convinzione che il carcere sia l’unica risposta alle paure del nostro tempo e nella corrispondente tendenza politica — elettoralmente molto redditizia — ad affrontare ogni reale o supposto motivo di insicurezza sociale ricorrendo allo strumento meno impegnativo e più inefficace: aumentare le fattispecie di reato e l’entità delle pene, diminuendo nel contempo le possibilità di graduale reintegrazione del condannato nel consorzio civile. Una politica penale di tal fatta si è espressa ciclicamente con «scorrerie legislative» di segno involutivo e «carcerocentrico», che non potevano non produrre un crescente sovraffollamento penitenziario e minare la credibilità stessa della funzione risocializzativa della pena. Il problema, dunque, è culturale, prima che normativo.
Verosimilmente, è proprio con questa consapevolezza che il ministro della Giustizia ha voluto affiancare alla riforma legislativa in corso un’iniziativa inedita: gli Stati generali dell’esecuzione penale. Una iniziativa che intende sollecitare per circa sei mesi l’attenzione pubblica e il dibattito culturale sulla complessa problematica della pena, specie carceraria. Sono stati costituiti tavoli tematici su aspetti nevralgici della realtà dell’esecuzione penale, interpellando quelle professionalità e quelle esperienze (circa duecento persone) che per ragioni diverse la intersecano (e ciò dovrebbe bastare a chiarire quanto fosse «in difficoltà di senso» la polemica dei giorni scorsi sul caso Sofri). Il lavoro dei tavoli, che prende avvio proprio in questi giorni, potrà avvalersi anche delle indicazioni provenienti dalla «consultazione pubblica» promossa in varie forme dal ministero della Giustizia e sfocerà in proposte da sottoporre a un Comitato scientifico, a cui spetterà il compito di compendiarle in un articolato prodotto finale, oggetto di seminari e dibattiti aperti alla cittadinanza.
Una tale mobilitazione culturale e sociale dovrebbe apportare significativi contributi alla riforma normativa e organizzativa del nostro sistema penitenziario. Ma soprattutto, sensibilizzando l’opinione pubblica, potrà costituire una sorta di «placenta culturale» per tale riforma, preparandone l’habitat sociale, nella consapevolezza che nessuna novità legislativa farà mai presa sulla realtà, se prima le ragioni che la ispirano non avranno messo radici nella coscienza civile del Paese.
Nel nostro quotidiano il carcere resta fuori — per così dire — dal campo visivo dello sguardo sociale, salvo poi rievocarlo dall’ombra quando efferati fatti di cronaca ce ne ricordano o ce ne fanno reclamare la necessità. Solo allora torniamo a «vedere» il carcere come il luogo dove rinchiudere illusoriamente tutti i nostri mali e le nostre paure. Puntare a lungo il riflettore dell’attenzione collettiva sull’esecuzione della pena significa, invece, indurre a guardare, a conoscere, a capire; a pensare che la sacrosanta esigenza di vedere rispettate le ragioni di chi subisce le conseguenze, spesso gravissime, di un reato non si debba necessariamente risolvere in una cieca punizione del colpevole, ma possa tradursi, tra l’altro, nella valorizzazione delle attività del reo volte a compensare il danno morale e materiale ingiustamente causato; a comprendere che l’espiazione della pena deve essere anche occasione per il condannato di avvalersi di opportunità di risocializzazione, responsabilizzandone rigorosamente le scelte, in un contesto però rispettoso della sua dignità e dei suoi diritti, che ripudi ogni processo di «incapacitazione», vòlto a indurre una rassegnata minorità.
Significa, soprattutto, offrire all’opinione pubblica gli strumenti per smascherare la inconsistenza di certi sensazionalismi mediatici e di certi demagogici allarmismi. Ci si potrebbe tardivamente render conto, ad esempio, di quanto mistificante fosse il termine «svuotacarceri» con cui sono stati etichettati gli ultimi provvedimenti legislativi: un termine che evocava l’idea di un cieco «sversamento» nella società del pericoloso contenuto dei penitenziari, mentre con quei provvedimenti si cercava soltanto di evitare la permanenza o l’ingresso in carcere di chi — secondo la Costituzione e il buon senso — non avrebbe dovuto né restarvi, né entrarvi. Ma nell’odierna informazione fast food le parole-concetto contano più della realtà: la tossina della mistificazione, una volta inoculata nelle vene mediatiche, non conosce antidoto efficace.
Si comprende bene, quindi, quanta parte del successo di questa sfida culturale dipenderà dalla capacità di coinvolgere i mass media. È fondamentale che gli operatori dell’informazione abbiano la piena consapevolezza della loro grande responsabilità, soprattutto in questo settore: la quantità e la qualità delle notizie riguardanti il crimine e la pena incidono sulla percezione sociale dei pericoli e, di conseguenza, sulla politica penale del legislatore. Non può non far riflettere, ad esempio, che da una indagine sulle principali testate televisive dei maggiori Paese europei, risulti che in Italia l’informazione televisiva dedica alle notizie riguardanti la criminalità circa il triplo dello spazio (il 58% dell’intera offerta informativa) ad essa riservato in Paesi come la Francia e la Germania ( Rapporto dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza , 2014), nei quali il ricorso alle misure alternative al carcere era, sino a qualche anno fa, quasi dieci volte superiore a quello italiano: è difficile non dare un significato a questa correlazione.
Una stampa meno sensazionalistica, più tecnicamente provveduta e documentata potrebbe dare un apporto determinante a quella crescita della cultura penale perseguita dagli Stati generali, che le potrebbero fornire dati, documenti e analisi. Avrebbe gli strumenti, infatti, per spiegare che la criminalità non si fronteggia vessando i responsabili già individuati e puniti, ma ponendo le premesse socio-economiche per ridurre al minimo le ragioni del delinquere e fornendo alle forze di polizia risorse, personale e strumenti per prevenire e contrastare le manifestazioni delittuose, nonché per accertarne le responsabilità; che non vi è alcuna correlazione tra il tasso di incarcerazione, da un lato, e il livello di criminalità e di sicurezza sociale, dall’altro; che le misure alternative alla detenzione, favorendo un progressivo reinserimento nella società del condannato, non rappresentano un modo per rendere ineffettiva la pena, bensì per renderne effettiva la funzione assegnatale dalla Costituzione; che l’espiazione non esclusivamente carceraria della pena abbatte drasticamente l’indice di recidiva e quindi riduce, non aumenta, le ragioni dell’insicurezza sociale; che l’evasione o l’azione criminosa di un soggetto ammesso a una misura alternativa (evenienza molto rara, ancorché amplificata a dismisura dai media) non è necessariamente frutto di un errore del magistrato che l’ha concessa o di una disfunzione del sistema, ma è il tributo che si paga a una scelta di politica penale che, dati alla mano, offre enormi vantaggi proprio in termini di sicurezza.
È dunque all’evidenza un progetto culturalmente molto ambizioso, quello degli Stati generali. Trattandosi di una iniziativa inedita e di grande respiro non mancheranno inadeguatezze operative, resistenze politiche e culturali, risultati inappaganti. Talvolta, forse, si dovrà orazianamente prendere atto che maiores pennas nido («ali più grandi del nido»), cioè le aspirazioni sono superiori alle possibilità. Di certo, come il passato insegna, sarà votato all’insuccesso ogni tentativo di affidare soltanto alle norme un mutamento della cultura penale nel nostro Paese.