Corriere 4.7.15
In cosa crediamo
Il 25 per cento dei Millennial ice che la religione non ha alcuna importanza nella vita
E si apre una nuova strada per capire chi siamo e verso dove stiamo camminando
di Daniela Monti
«Non ha nessuna importanza». In pochi si spingono fino a definirsi atei o agnostici (cosa che presuppone, per lo meno, l’essersi fatti delle domande e l’essersi dati delle risposte). Per gli altri, semplicemente, la religione «non ha nessuna importanza» nella loro vita. Non si tratta più di scegliere da che parte stare, o con Dio o senza Dio. C’è una terza opzione: puff, lasciare che tutto evapori, disinteressarsene. La questione, appunto, «non ha nessuna importanza».
Due nuovi studi arrivano alle stesse conclusioni. Il primo, pubblicato dalla rivista Plos One , prende in considerazione l’orientamento spirituale degli adolescenti americani nel periodo tra il 1966 e il 2014. Risultato: i Millennial (ovvero i nati dal 1980 in poi) sono i meno religiosi delle ultime sei decadi di storia. Rispetto agli Anni Settanta, che già non brillavano per mistica devozione, il doppio degli studenti universitari non partecipa ad alcuna funzione e il 75 per cento in più sostiene che Dio «non ha nessuna importanza» nella loro vita. Il secondo, del Pew Research Center, sostiene che il 25 per cento dei Millennial non crede in Dio, contro l’11 per cento dei Baby Boomer alla loro stessa età (i nati fra il 1946 e il 1964, adolescenti degli anni 1960 e 1970) e il 7 per cento della generazione dei nati fra il 1928 e il 1945. «L’ultima generazione religiosa», titolano i siti Usa, perché all’orizzonte non c’è alcuna inversione di tendenza e perché il meccanismo di trasmissione dei valori da una generazione all’altra rema decisamente contro: i figli di genitori non religiosi «hanno solo il 3 per cento di probabilità di abbracciare, da grandi, una fede».
Sì, certo, i Millennial sono ancora ragazzi. Cambieranno con l’età adulta, la nascita dei figli, l’incamminarsi verso la vecchiaia? La risposta è no. Per i ricercatori del Pew, il sentimento religioso si consolida intorno ai vent’anni. «Abbiamo perso la fede in un mondo buono dove nessuno sparisce ma i morti ci guardano dall’alto — scrive Elena Loewenthal (che Millennial non è) ne “Lo specchio coperto. Diario di un lutto” (Bompiani) —. Credo di aver capito che solo per questo sono nate le religioni: per guarirci dallo sgomento del niente, dopo. Non abbiamo ancora imparato a fare i conti con quel niente, in compenso abbiamo perso la fede. Sono disarmata». Non è la sola, i «disarmati» stanno prendendo il potere.
Il calo di interesse, stando ai due studi, si estende all’intera sfera della spiritualità. Coloro che, con un impronunciabile acronimo, avevamo imparato a chiamare Sbnr, «spiritual but not religious», sono figurine sbiadite: creativi della trascendenza, che scansano riti, preghiere e sacramenti conservando comunque un senso del sacro tagliato su misura come un abito di sartoria, pure loro sono ormai superati. «La ricerca di senso è nettamente diminuita dai Baby Boomer ai Millennial», sentenziano le due ricerche.
Ma se non siamo più cristiani che cosa siamo? Perché in qualche modo bisognerà pure definirci e la faccenda è tutt’altro che di nessuna importanza. «L’immigrazione ci pone di fronte alla questione della nostra identità», incalza il filosofo francese Alain Finkielkraut, che ha da poco pubblicato per Guanda «L’identità infelice».
I Millennial si sono guadagnati la medaglia di campioni del cambiamento. Nonostante, negli Usa, sia l’unica generazione che sostiene con maggioranza schiacciante il matrimonio gay e si schiera con decisione a favore della depenalizzazione della marijuana, «il denominatore comune — scrive il New York Times — non è la politica di sinistra, ma la politica dell’individualismo». «The Me Me Me generation», titolava una storica copertina di Time . «Nel futuro ci sarà solo un ismo: l’individualismo», era la sintesi. Questo livello di individualismo dei Millennial post-patriottico, post-familiare, post-religioso diventerà la cultura dominante?
Ma post-qualcosa è un modo un po’ debole per definirsi. Il filosofo Remo Bodei partecipa al gioco del post con una sua personale definizione: post moderni, cioè «identità di plastica, mobili, cancellabili, riciclabili. Liberamente fluttuanti». Perché c’è un altro elemento che i Millennial hanno relegato in un angolo, insieme a Dio: il passato. «Ci è concesso di congedare i nostri padri: abbiamo il diritto di essere storditi, incoerenti, discontinui, attirati da mille cose — riprende Finkielkraut —. Per la prima volta nella storia, le tre condizioni per il nostro colloquio con i morti — il silenzio, la solitudine, la lentezza — sono contemporaneamente sotto attacco. L’identità nazionale è dunque stritolata, come tutto ciò che dura, tra l’istantaneità e l’interattività dei nuovi media. Per decostruirla non c’è bisogno dei filosofi e degli storici. È sufficiente la tecnologia».
Se la religione, il passato, la storia sono argomenti spuntati, bisognerà far ricorso ad altro per capire chi siamo. E questa davvero è una sfida. Elias Khoury, libanese che in Italia ha pubblicato, fra gli altri, il libro «La porta del sole» (Feltrinelli), in epoca di fondamentalismi in competizione fra loro denuncia la «vergognosa morsa del confessionalismo» e ci conduce per mano verso una via d’uscita: lasciarsi alle spalle «l’incubo della domanda sull’identità religiosa, che prelude alla fine di tutte le domande. E quando finiscono le domande, niente ha più senso».