sabato 4 luglio 2015

Corriere 4.7.15
I miei due padri. Una scelta impossibile

Uno è il papà biologico istituzionale, l’altro è lo zio omosessuale che il senso della famiglia ce l’ha nel dna
Non è facile crescere con una persona anaffettiva, soprattutto quando questa diovrebbe amarti per legge
Impari che nulla ti è dovuto e che tutto, anche gli amori apparentemente scontati, vanno guadagnati

Sto lì da una vita, sapendo in cuor mio di avere due padri, poi arriva un anno funesto che me li porta via tutti e due. Anche se il primo papà è ancora in vita ed il secondo non è che fosse proprio mio padre, ma mio zio. Insomma, il primo è il padre anagrafico, biologico, istituzionale; il secondo è quello che genitore ci è nato, nonostante, letteralmente, non lo sia mai stato. Ma la vita è strana, la mia famiglia pure e le due figure hanno finito presto per sovrapporsi l’una all’altra, spesso anche per opporsi. «Sono io tuo padre, ricordatelo», mi diceva sempre il papà numero uno, quello biologico. Ma se lo fosse stato veramente, non ci sarebbe stato bisogno di precisarlo. Perché tra un certificato dell’anagrafe da una parte, ed il senso di responsabilità e sentimento dall’altra, cosa scegli? Non c’è neanche da chiederlo. Così, se per un verso so perfettamente chi amo, per l’altro è con i miei sentimenti più bui che ho dovuto fare i conti.
Succede che un giorno sono lì che mi azzuffo con la mia vita, pensando al perché, al come e soprattutto al «ma che caspita» e il giorno dopo trovo mio padre che parla con i lampioni e discute con il frigorifero. Il nodo alla Regimental, appaiare i gemelli, allacciare le scarpe: diventa tutto impossibile. Un’altra femmina si è messa in mezzo, ma non una di quelle che in passato hanno quasi mandato ai matti mia madre. No, questa si chiama demenza ischemica e di seducente non ha proprio nulla. In compenso, risucchia tutto quello che è mio padre, come mai nessuna prima, lasciandomi solo un guscio vuoto, lo sguardo di chi guarda ma non vede. In quegli occhi vacui lo esamino, a lungo, cercando laggiù in fondo l’uomo che conoscevo, intrappolato ora in un corpo rinsecchito da cui non riesce più ad uscire. Ma non lo vedo mai. «È una conseguenza della malattia», dice il medico. Ma io lo so che non è vero: è la sua essenza che se n’è andata. Sfuggendo da me ancora una volta.
La casa di riposo che lo ospita attualmente ha chiesto di appendere una sua fotografia. Uno scatto che lo rappresenti, si è raccomandata l’infermiera. Ma dubito che una delle foto in cui sbadiglia durante la celebrazione del mio matrimonio farebbe una gran figura, e non mi è mai venuto in mente di ritrarlo mentre sacramenta contro chiunque. E dire che le occasioni non sono mancate. Non ricordo immagini di feste di compleanno, di abbracci sinceri. Non si può ricordare quello che non c’è mai stato. Ecco perché sulla porta della sua stanza campeggia solo il nome: Romeo.
Il rapporto con mio padre non è mai stato semplice, ovviamente. O forse lo è stato fin troppo e non voglio accettare che sia solo questo, che sia tutto qui. Non è facile crescere con una persona anaffettiva, soprattutto quando questa persona dovrebbe amarmi per legge, per tradizione, perché è nella natura delle cose. L’essere genitore è meno istintivo di quello che ci piace credere e l’evidenza ce l’abbiamo sotto gli occhi, tutti i giorni. E così si sono susseguiti anni di promesse mancate, attenzioni mai avute, gesti d’affetto mai nemmeno concepiti. Le troppe cose non dette, le mille urlate (anche se non veramente pensate) hanno fatto il resto. Fino ad oggi, quando la malattia ci ha tolto anche il litigio, unica forma di dialogo ormai possibile tra noi.
A voler guardare l’altra faccia della medaglia, quando cresci con un padre così, impari che nulla ti è dovuto e che tutto, anche gli amori apparentemente scontati, vanno guadagnati. E chi lo sa, magari è proprio a lui che devo il mio matrimonio felice: facendomi vedere i danni che sanno provocare le persone come lui, mi ha insegnato ad evitarle. Quando si dice essere un esempio per i figli.
Il secondo padre è stato mio zio, Pomeo. Una persona buona, nel senso più vero del termine. Un uomo che ha dato un significato più nuovo e profondo a parole come empatia, umanità, buon senso, dignità. Una persona elegante nell’animo, prima ancora che nei risvolti della giacca. Un gay. Che ha convissuto per anni con un altro uomo. A testa alta, senza vergognarsene mai, quando ancora non era di moda, quando non lo vedevamo in tv. Senza smancerie né esibizionismi, perché la verità non ha bisogno di essere ostentata, è così e basta, e solo così può essere accettata. Uno che il senso della famiglia ce l’aveva nel dna e lo sentivo a pelle, anche in quegli anni un po’ confusi tra Babbo Natale, la Befana e Topo Gigio, perché come deve essere un padre i bambini lo capiscono benissimo, d’istinto.
Se Romeo se l’è preso la demenza, lasciandogli solo la prostata a ricordargli che è vivo, Pomeo me l’ha portato via una di quelle malattie che non perdonano, come si dice. In realtà sono io che non ho perdonato la malattia, perché è arrivata come se niente fosse e si è presa una parte fondamentale di me, si è presa il cuore. E senza cuore come faccio? Rimangono i ricordi, mi sento ripetere. Ma l’amore e l’affetto si nutrono di presenza, quotidianità; il passato remoto non c’entra nulla con la vita.
A me rimangono più che altro delle domande: quale dei due era mio padre? Ancora oggi non lo so. Ma con entrambi c’era un legame. Lo stesso legame che oggi, venendo a mancare, mi impedisce di respirare.
Ora, ad un anno esatto dalla morte di Pomeo e dall’inizio della malattia che si è portata via Romeo, mi trovo sola con la mia rabbia, a cercare sfogo nelle lacrime per tutto quello che è stato con mio zio e per tutto quello che non potrà mai essere con mio padre. Perché certi dolori non conoscono parole, vanno pianti e basta.