domenica 12 luglio 2015

Corriere 12.7.15
Ma i responsabili politici e morali restano nell’ombra
di Massimo Nava


Era illusorio che la commemorazione del «Ventennale» spegnesse l’odio e il risentimento che ancora covano nella martoriata società bosniaca. I vecchi non dimenticano, le nuove generazioni non sono cresciute in un clima di riconciliazione, bensì in una situazione di storia raccontata a senso unico, in un clima cupo d’incertezza politica e istituzionale, di divisione sostanziale delle componenti etniche e religiose, aggravata da una crisi economica senza sbocco.
Non è bastato nemmeno il gesto coraggioso del premier serbo Vucic di partecipare alle cerimonie. Al contrario, la sua presenza a Srebrenica ha invelenito gli animi.
Certo, Vucic, un protagonista nel tempo di guerra, non è un Willy Brandt, ma nel corso degli anni la Serbia ha riconosciuto responsabilità nei massacri in Bosnia e ha consegnato al tribunale dell’Aja alcuni dei più efferati criminali. Certo, la definizione di «genocidio» non è condivisa né dai popoli della ex Jugoslavia, né dall’opinione pubblica internazionale.
La Russia ha posto il proprio veto. I serbi vorrebbero non occupare sempre il posto dei cattivi e — a proposito di genocidio — essere ricordati anche come il popolo che, dopo gli ebrei, è stato più colpito dal nazismo.
Tuttavia, nel corso degli anni, sono stati almeno messi da parte i tentativi «negazionisti» di uno dei più orrendi massacri dalla Seconda guerra mondiale: le vittime furono i musulmani bosniaci e i carnefici furono il generale Mladic e le sue milizie, probabilmente con l’assenso del regime di Belgrado.
Se, a vent’anni di distanza, questa «narrazione» degli eventi non è più messa in discussione, la verità storica sulla genesi del massacro è ancora incompleta. Ci furono responsabilità politiche e morali a vari livelli rimaste controverse e persino nell’ombra.
Ne ricordiamo alcune: il comportamento del contingente del caschi blu dell’Onu che di fatto lasciò campo libero alle milizie di Mladic; il ruolo del comandante bosniaco della guarnigione di Srebrenica, Naser Oric, colpevole di vendette ed esecuzioni nei villaggi serbi attorno all’enclave, una lieve condanna al tribunale dell’Aja; la decisione delle autorità di Sarajevo di abbandonare la difesa di Srebrenica, probabilmente con il proposito di rafforzare la solidarietà internazionale e trattare da posizioni di forza a Dayton.
Per inciso, Oric, personaggio controverso, gestore di night a Tuzla ed ex guardia del corpo di Milosevic, è stato arrestato in giugno in Svizzera, ma la notizia non ha avuto rilievo per non turbare la vigilia delle celebrazioni.
La pietà per le vittime e la solidarietà verso madri, spose e figli dei bosniaci trucidati non dovrebbe fare dimenticare i civili serbi caduti dall’altra parte delle barricate, vittime anche di combattenti volontari giunti da Paesi musulmani. Vent’anni fa, l’espansionismo e il nazionalismo serbo, appoggiato da Mosca, costituivano la principale minaccia alle porte dell’Europa. Per questo, si sostennero l’indipendenza della Croazia e della Bosnia e l’irredentismo del Kosovo.
Oggi, il groviglio di popoli e religioni della ex Jugoslavia si guarderebbe con un occhio diverso. Ma servirebbe una dose eccessiva di obiettività. Meglio affermare il «genocidio» e prendere i serbi a sassate.