domenica 12 luglio 2015

Corriere 12.7.15
Le colpe dell’Occidente nelle carte segrete
Usa e alleati rifiutarono di difendere la città
La Cia era convinta che «la maggior parte della popolazione musulmana sarebbe fuggita»
di Ennio Caretto


A vent’anni esatti dalla strage di Srebrenica, in cui furono assassinati 8 mila bosniaci musulmani, la strage più grave in Europa dalla Seconda guerra mondiale, un fitto carteggio desecretato dalla Casa Bianca e dalla Cia indica che essa poteva essere prevenuta, ma non lo fu perché gli Stati Uniti, la Francia, l’Inghilterra e l’Onu rifiutarono di difendere la città.
Mentre nessun leader occidentale poté immaginare che il generale serbo bosniaco Ratko Mladic avrebbe ordinato lo sterminio dei civili, tutti erano al corrente fino da marzo del 1995 del suo intento di «fare svanire la popolazione islamica dalla regione». «L’unica opzione realistica» osservò tuttavia il maggio successivo il consigliere della sicurezza nazionale della Casa Bianca Anthony Lake, opponendosi a un intervento militare alleato nel conflitto, «è che togliamo i caschi blu dalle posizioni più vulnerabili». La più vulnerabile di tutte era Srebrenica.
Tra i documenti desecretati, uno dei più inquietanti è un telegramma dell’ambasciata americana a Sarajevo al Dipartimento di Stato. Datato 27 maggio 1995, il telegramma riferisce il duro monito del generale inglese Rupert Smith, il capo delle forze dell’Onu, ai leader alleati. «La nostra macchina si è rotta — dice il generale — e la nostra missione fallirà a meno che non siamo pronti a entrare in guerra, a subire perdite, a sacrificare i nostri ostaggi oggi nelle mani dei serbi bosniaci, a rimanere a lungo nei Balcani». «Se non siamo pronti a varcare la soglia del dolore — conclude Smith — smettiamola di parlare di zone franche, di enclaves, di raid aerei. Con le bombe della Nato non si ottiene nulla, ci vogliono truppe di terra». E’ lo stesso monito del generale Bernard Janvier, il capo delle operazioni, di due giorni prima, quando i serbi bosniaci hanno preso ostaggi 400 caschi blu in rappresaglia per i bombardamenti.
Non solo il monito rimane inascoltato. Washington, Parigi e Londra intraprendono anche il cammino opposto a quello prospettato da Smith. Il 28 maggio, il Gruppo di contatto sui Balcani, gli Stati Uniti, l’Inghilterra, la Francia e la Russia, decide infatti di sospendere i bombardamenti sulle forze serbe «per il futuro prevedibile». In una nota al presidente Clinton, Lake suggerisce «di accettare la pausa ma di non renderla pubblica». Aggiunge che «cercherà con i francesi e con gli inglesi una formula per sospendere anche le sanzioni contro la Serbia e negoziare la pace». Il consigliere della Casa Bianca conclude che «sarebbe meglio se le truppe dell’Onu non lasciassero enclaves come Srebrenica» ma che se divenisse necessario e gli alleati chiedessero l’aiuto americano «dovremmo esaudirli per non perdere di credibilità presso la Nato».
E’ la decisione sbagliata, ma la Cia la sottoscrive in un rapporto del primo giugno, dando per lontana la possibilità della caduta di Srebrenica. «I serbi bosniaci — scrive — vogliono eliminare le enclaves di Srebrenica, Zepa e Gorazde perché le considerano basi della guerriglia islamica nei Balcani … Se l’Onu le abbandonerà potrebbero non attaccarle subito, probabilmente lo farebbero dopo sei mesi o un anno … In questo caso, occuperebbero prima Srebrenica, la catturarono quasi nel 1993». La Cia non sembra avere sentore dell’eventualità di una strage, prevede anzi che «un’offensiva serba farebbe fuggire la maggior parte della popolazione». La contesterà a sterminio avvenuto il ministro della difesa olandese Joris Voorhoeve, scagionando i suoi soldati, il battaglione dell’Onu, rimasto solo e impotente nella città: «Le grandi potenze appresero ai primi di giugno che Mladic stava per colpire ma non ce lo comunicarono».
E’ sorprendente che né la Casa Bianca né la Cia parlino di genocidio. Il memorandum del Consiglio di sicurezza nazionale del 12 luglio invita il presidente Clinton ad appoggiare la mozione della Francia all’Onu per la liberazione di Srebrenica «sebbene non ve ne siano i mezzi» e a proteggere Gorazde e Sarajevo senza precisare come. E una relazione di Lake del giorno 15 lo esorta ad affiancarsi al presidente francese Chirac che vuole «irrobustire i caschi blu in Bosnia», ma a condizione di «non dovervi mandare truppe di terra e non essere accusati del fiasco dell’Onu». La Cia è parimenti anodina. In un’analisi datata 18 luglio si concentra sui motivi del crollo di Srebrenica: «L’esercito bosniaco ha perso perché poco armato, perché male comandato e perché ha fatto troppo affidamento sul battaglione olandese». Depreca comunque che «la leadership politica si sia illusa che la Nato intervenisse».
L’impressione tratta dal fitto carteggio americano è che nella guerra bosniaca Washington fece da freno a Parigi e Londra. La giustificazione a posteriori è che nel 1993 era intervenuta militarmente in Somalia subendo una disfatta, e che nei Balcani era ostacolata dalla Russia, alleata storica della Serbia. L’allora sottosegretario di stato americano Strobe Talbott afferma che «inizialmente Srebrenica divise in due l’Occidente, ma condusse poi alla pace», firmata quattro mesi dopo a Dayton.