domenica 12 luglio 2015

Corriere 12.7.15
Pietre sul leader serbo a Srebrenica
Alla cerimonia per gli 8.000 bosniaci massacrati, alcuni giovani attaccano il premier Vucic
Da Belgrado accuse di tentato omicidio. «Ma la mano della riconciliazione resta tesa»
di Fabrizio Caccia


SREBRENICA Dall’alto della collina fischiano forte e gridano «Allahu Akbar», Allah è grande. E ancora: «Morte ai cetnici», «tornate a casa…». Sono un gruppo di giovani musulmani di Bosnia venuti qui apposta per lui, il primo ministro serbo Aleksandar Vucic.
Lo stavano aspettando, sapevano che sarebbe arrivato nel giorno del ventesimo anniversario del «genocidio» di Srebrenica ed è proprio quella parola, «genocidio», che lui si ostina a non voler pronunciare. Così, mentre Vucic si sta avvicinando all’uscita, adesso che è finita la cerimonia tanto attesa dell’11 luglio, loro sfondano le transenne e cominciano a bersagliarlo con sassi, bottiglie, scarpe.
Le guardie del corpo provano a fermarli, ma a Vucic volano via gli occhiali che si rompono a terra. Con un ombrello aperto gli fanno scudo tra la folla e lo portano via, insieme però all’illusione che dopo vent’anni potesse affacciarsi qui, sulla spianata di Potocari, finalmente per la prima volta un barlume di pace, tra musulmani e serbi, dopo tanto odio e dolore.
Rimane uno striscione tra le tombe, lo avevano preparato quegli stessi ragazzi (uno di loro in serata è stato fermato dalla polizia) ed è come se fossero i morti adesso a sollevare il grido che contiene, gli oltre 8 mila musulmani – uomini e ragazzi - trucidati l’11 luglio del 1995 dalle truppe serbo-bosniache del generale Ratko Mladic, il boia dei Balcani: «Per ogni serbo, 100 musulmani uccisi», è questa la frase stampata sulla stoffa, proprio la stessa che usava lui, Vucic, vent’anni fa, quando da ministro dell’informazione lavorava al sogno della Grande Serbia di Belgrado nel governo di Slobodan Milosevic. Uno striscione per ricordargli chi era.
E invece chissà forse oggi è davvero cambiato; dopo lo choc per l’aggressione subita, tornato a Belgrado ecco che dichiara: «La mano della riconciliazione rimane tesa, i serbi continuino a trattare i vicini bosniaci come amici. E’ stato un attacco organizzato e ben preparato, dietro sicuramente non ci sono le famiglie delle vittime innocenti di Srebrenica». Epperò il suo governo ha poi mandato una nota di protesta a Sarajevo per il «tentato omicidio», chiedendo una condanna pubblica dell’episodio ai bosniaci, peraltro già arrivata.
L’ex presidente Usa Bill Clinton lo ha lodato davanti a tutti durante la cerimonia «per il coraggio di essere qui». «Mi aspetto — ha aggiunto — che lo faccia in futuro anche il presidente della Serbia, Tomislav Nikolic», che invece per adesso non ci pensa neppure. «Ma non bastano vent’anni per perdonare, forse a volte nemmeno cinquanta», dice Laura Boldrini, la presidente della Camera venuta a rappresentare l’Italia, rigirandosi tra le mani il fiore di Srebrenica lavorato all’uncinetto dalle vedove dei morti. Margherite di cotone con il bianco del lutto, il bottone verde della speranza e undici petali a ricordare per sempre quella data: 11 luglio.
Perché la speranza malgrado tutto è viva, soprattutto nei giovani che qui sono arrivati con addosso magliette che la dicono lunga sul desiderio di quasi tutti: «Plus Jamais», «Never Again», «Mai Più». Ma non sarà facile, con 16 mila criminali di guerra ancora a piede libero, nascosti tra la Serbia e la Bosnia. E 8 mila desaparecidos tuttora da ritrovare, dei 135 mila morti di quegli anni. I due più alti responsabili individuati, Mladic e Karadzic, sono ancora sotto processo e non si è arrivati neppure a una sentenza di primo grado davanti al Tribunale di guerra per i crimini nell’ex Jugoslavia, che chiuderà i battenti il 31 dicembre 2017.
Ecco perché i morti di Srebrenica sono ancora senza pace e senza giustizia, come è scritto in un bel libro di Luca Leone e Riccardo Noury uscito quest’anno («Srebrenica, la giustizia negata»). Lo ha detto anche Barack Obama nel suo messaggio inviato per l’occasione: «Solo punendo i colpevoli potremo dare un senso di giustizia a coloro che hanno perso i loro cari e solo chiamando il male con il suo nome, genocidio, possiamo trovare la forza di superarlo».
Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ribadisce che «Srebrenica fu una sconfitta dell’umanità». Il premier Matteo Renzi riconosce che «ci furono responsabilità politiche», i caschi blu olandesi per esempio che preferirono girarsi dall’altra parte quando il massacro era già iniziato. «Purtroppo — conclude l’ambasciatore d’Italia a Sarajevo Ruggero Corrias — le strumentalizzazioni politiche dopo vent’anni rimangono molto forti. Ma il 90% della gente comune qui vuole soltanto la pace, il lavoro, il futuro, l’Europa». Un obiettivo lontano .