domenica 12 luglio 2015

Corriere 12.7.15
Il caso Roma
L’impotenza dei politici e la tirannia dei burocrati
di Ernesto Galli della Loggia


Quando il sindacoMarino dice di Roma«la nostra città» risulta verosimile come lo sarei io se lo dicessi a proposito di Kansas City o di Oslo. Genovese-palermitano di origine, Marino,catapultato nella sua carica grazie alle pazzotiche «primarie» del Pd, alle conseguenti lotte tra i militanti della sinistra (a suo tempo, infatti, Verdi, Sel e «movimenti» lo imposero alla «Ditta») ma soprattutto grazie alla meritata débacle dell’impresentabile Alemanno, ha fin dall’inizio dimostrato che per lui Roma era un pianeta sconosciuto.
In una città con i dissesti che si conoscono, nella quale non un solo servizio pubblico funziona in modo appena accettabile, per prima cosa che fa Marino? Invece di pensare a far spazzare i marciapiedi o pagare il biglietto dell’autobus, perde settimane e settimane e impiega mezzi e uomini nell’impresa (da nessuno richiesta) di pedonalizzare una via di grande traffico, via di Fori Imperiali: al solo scopo, bisogna pensare, di ottenere una menzione e magari una foto sul New York Times . Come nella migliore tradizione del provincialismo italiano che consiglia innanzitutto di «fare bella figura all’estero». Cominciano poi a piovergli sulla testa le tegole di Mafia Capitale. Quell’inchiesta certifica quanto a chiunque abita a Roma ( tranne che a Marino) è noto da sempre: l’intera macchina amministrativa cittadina è marcia. La corruzione, il nepotismo, il vero e proprio malaffare, e di conseguenza l’inefficienza più spaventosa, dominano dovunque: dai vertici del Campidoglio e delle municipalizzate all’ultimo impiegato. E per ogni cosa: dalla spesa gratis che il vigile fa nei negozi delle «sue» strade, alle licenze commerciali e dei taxi, alle licenze edilizie, alla gestione dell’immenso patrimonio edilizio del Comune, alle decisioni in merito agli appalti, alla redazione del piano regolatore e delle sue varianti, all’assenteismo sistematico di tutti i dipendenti.
Nella capitale d’Italia, nella futura sede del Giubileo, in quella eventuale dell’Olimpiade, tutto insomma è comprato e venduto, per ogni regola ci si «aggiusta». Intimamente estraneo alla città, entrato a suo tempo in politica per la solita strizzatina d’occhio della Sinistra all’«indipendente della società civile» del caso, Marino però non si rende conto di nulla, e non fa nulla. Personalmente onesto, lo rimane: ed è tutto, mentre il mondo intorno a lui crolla.
Ma detto sul conto di Marino quanto va detto, è anche giusto chiedersi: che cosa realmente poteva fare? Si invoca da più parti il rinnovo della Giunta con nomi importanti e autorevoli. In effetti anche sulla composizione dell’organo di governo il sindaco di Roma non ha certo brillato. Si è fatto imporre qualche vecchia volpe dai ras romani del Pd, ha nominato qualche sconosciuto/a di sua fiducia, rivelatasi perlopiù impari alla bisogna. Ma che cosa potrebbero fare oggi anche gli eventuali nomi nuovi, importanti e autorevoli? Io credo ben poco.
Perché la verità è che chiunque in Italia occupa una carica di responsabilità politica per volontà del popolo, lungi dall’essere in grado di dirigere effettivamente la macchina amministrativa a cui è a capo, in realtà ne è diretto. Quasi sempre infatti — e non potrebbe essere altrimenti — egli ignora come essa funziona, non ne conosce le attribuzioni, le qualifiche, le competenze, le mille gabole e le mille trappole regolamentari e legislative che vi hanno corso. Ciò vuol dire che i padroni di ogni pratica e quindi di ogni decisione sono di fatto loro, i signori degli uffici. Sono loro che in maniera più o meno abile indirizzano la volontà del sindaco o degli assessori. Sono loro che possono accelerare, intralciare o addirittura vanificare qualunque decisione che non ritengano per qualunque motivo di loro gradimento. E tanto più la burocrazia lo può fare, e lo fa, in quanto il potere effettivo che ha su di essa l’autorità politica è praticamente quasi nullo. I vertici possono essere ancora spostati da una funzione all’altra, infatti, ma il resto della macchina, protetto in genere da un contratto di lavoro ipergarantista come il contratto del pubblico impiego, nonché da una selva di sigle sindacali interne che esistono solo in funzione del loro forsennato corporativismo, è virtualmente intoccabile. Nessuno può essere singolarmente premiato e tanto meno sanzionato: tanto è vero che dopo mesi e mesi dei circa ottocento vigili romani che si assentarono abusivamente dal lavoro la sera dell’ultimo dell’anno, se andrà bene riceveranno una sanzione in una quindicina. Se andrà bene.
Ma ciò che vale per le amministrazioni comunali vale in genere per tutto il settore pubblico. Sicché in tutto l’apparato di governo del Paese ogni repulisti, ogni vero cambiamento di atmosfera, di stile di lavoro, è divenuto da molto tempo impossibile. Un sistema messo in piedi per garantire l’indipendenza dell’amministrazione rispetto agli «interessi» dei politici, si è di fatto trasformato in un’amministrazione in grado di imporre di fatto il suo interesse alla politica, o perlomeno di stipulare con essa di volta in volta i compromessi che essa ritiene per sé più utili. Si è trasformato cioè in un sistema che è il contrario della democrazia, dal momento che almeno la politica risponde agli elettori, mentre la burocrazia ormai non risponde a nessuno.
Anche per questo in Italia è così difficile in ogni ambito cambiare, uscire dall’immobilismo, avviare per esempio nuovi modelli di gestione e di governo della cosa pubblica. Perché verso la burocrazia la politica è in uno stato di perenne soggezione, cerca di servirsene per i suoi piccoli e immediati vantaggi, ma per il resto lascia fare temendone le capacità di ostruzionismo, di ricatto o di vendetta. Ma in questo modo, in realtà, a essere tenuto in stato di soggezione e di ricatto è tutto il Paese.