lunedì 8 giugno 2015

Repubblica 8.6.15
L’ultima offerta del premier: cambiamo il Senato, senza melina
di Goffredo De Marchis


ROMA Cambiare verso alla riforma della scuola e alla legge costituzionale ma senza cedere sui tempi. Matteo Renzi si avvicina alla direzione del Pd di stasera, la prima dopo le regionali, con l’idea di evitare la resa dei conti, aprendo alla correzione di alcuni provvedimenti e dialogando con l’ala più moderata della minoranza. Frenare dunque non vuole dire rimandare l’approvazione dei testi. A cominciare dalla “buonascuola” sulla quale si comincia a votare in commissione domani. «Niente rinvii, neanche sull’abolizione del Senato», dice ai suoi fedelissimi negli sms dal G7 in Germania. Però i voti del Pd servono. Tutti o quasi tutti, in particolare a Palazzo Madama dove la maggioranza balla sul filo di 7-8 voti di vantaggio e la fiducia può diventare un azzardo dopo l’esperienza nella partita della legge elettorale.
Allora, il premier si lascia sfuggire che il suo intervento al cospetto del parlamentino Pd sarà «distensivo». Rivolto alla sinistra interna più disponibile al confronto: quella di Cuperlo e dei “responsabili” di Maurizio Martina, persino quella di Roberto Speranza, l’ex capogruppo che ha sbattuto la porta un mese fa. Diverso invece sarà l’atteggiamento verso l’ala irriducibile che Palazzo Chigi riconduce ormai a quattro nomi simbolici: Bersani, Bindi, Fassina e Gotor. A loro, senza citarli direttamente forse, verrà indirizzato un invito a scegliere con chiarezza da che parte stare. Col Pd e dunque dentro la discussione interna o ai margini del Pd pur senza minacciare misure disciplinari. Naturalmente, il progetto di tenere dentro le minoranze passa per le proposte concrete che il premier-segretario farà stasera.
Niente rinvii significa che non ha diritto di cittadinanza la proposta di alcuni dissidenti (Gotor e Tocci in testa) di stralciare le assunzioni dei precari nel comparto scolastico procedendo per decreto mentre il resto della riforma viene modificato preparando un percorso molto più lungo al Senato. Però è giusto lavorare, per modificare, sul potere dei presidi, sugli sgravi fiscali per i privati che investono negli istituti e sulle forme di regolarizzazione per i tanti precari rimasti fuori dal progetto governativo. Sono alcune delle richieste avanzate dai senatori ribelli e che saranno trasformate in emendamenti già in commissione. Su alcune di queste materie l’esecutivo darà parere favorevole e la riforma cambierà.
L’altro punto è l’abolizione del Senato. Un punto chiave per l’equilibrio democratico dopo l’approvazione dell’Italicum, secondo le minoranze in questo caso piuttosto compatte. Giorno dopo giorno, il premier ripensa alla forma rappresentativa del Senato così com’è stata disegnata nella legge Boschi. In poche parole, considera possibile ora immaginare un’assemblea elettiva e non di secondo grado, in modo che siano i cittadini a scegliere i neosenatori. Se la sinistra mostrerà in qualche modo una disponibilità a trattare, Renzi lavora a due possibili vie d’uscita. La prima: formare, al momento del voto per le regionali, un listino di consiglieri che si sa da prima che andranno a occupare le poltrone di Palazzo Madama. Una modifica che andrebbe fatta con legge ordinaria. La seconda, più radicale: ridiscutere l’intero articolo 2, quello che definisce l’elezione dei senatori. Vorrebbe dire che la riforma riparte dall’anno zero perché l’articolo 2 non è, a giudizio di quasi tutti i tecnici, più modificabile. Ma se la prospettiva è arrivare davvero al 2018, ovvero a fine legislatura, c’è anche lo spazio per ricominciare daccapo. Naturalmente la soluzione 1 è la preferita a Palazzo Chigi perché impedirebbe ritardi nel percorso riformatore. Ma c’è da parte di Renzi un’apertura al dibattito.
Quello che il segretario vuole evitare stasera è «una terapia di gruppo» su vittoria o sconfitta alle regionali. Non esiste discussione, il 5 a 2 racconta un successo e i problemi semmai vengono dopo questa presa d’atto. Per affermare il principio, il leader del Pd ha anche deciso di smentire qualsiasi ipotesi di rivoluzione al vertice del partito. «Squadra che vince non si cambia », è la sua posizione rispetto alle voci di rimescolamento di incarichi. Niente vicesegretario unico, salvo sorprese dell’ultima ora. Dovrebbero rimanere al loro posto sia Lorenzo Guerini sia Debora Serracchiani. Ettore Rosato, com’era annunciato fin dall’inizio, andrà con ogni probabilità a occupare il posto che fu di Speranza come capogruppo del Pd alla Camera. Semmai andrà rafforzato il controllo sull’organizzazione potenziando il rapporto con i cosiddetti territori. La sconfitta di Raffaella Paita e la vicenda contrastata di Vincenzo De Luca in Campania, dalle primarie in poi, sono servite da lezione.