Repubblica 7.6.15
La Consulta e la legge 40
di Giuseppe Maria Berruti
CARO direttore, la sentenza numero 96 della corte costituzionale, presidente Criscuolo, estensore Morelli, fa compiere all’ordinamento italiano un altro passo avanti. Si è trattato questa volta di tre commi dell’articolo 1 della legge 40 del 2004, che impedivano la procreazione assistita, con diagnosi preimpianto, a coppie di coniugi fertili ma di cui uno risultava portatore di malattia genetica trasmissibile. La Corte ha compiuto l’esame del tessuto giuridico che costituisce il presupposto del suo intervento. Ha esaminato le ordinanze di rimessione e rilevato l’impossibilità, di fronte ad un divieto formale, di una interpretazione ispirata alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Dunque ha chiarito che l’abrogazione attraverso una propria sentenza si poneva come unica possibilità capace di togliere la carenza costituzionale che le coppie in questione avevano lamentato.
Quindi ha seccamente sottolineato l’aspetto di irragionevolezza insuperabile della situazione dei coniugi esclusi dalla procreazione assistita. Perché il nostro ordinamento mentre consente a coppie che abbiano avuto un figlio affetto da una patologia quale quella di cui si trattava, di accedere alla interruzione volontaria, anche reiterata, della gravidanza naturale, non consente la strada assai meno traumatica, ma essenzialmente curativa, della procreazione assistita. La Corte adopera l’aggettivo, “tragica”, e per definire l’alternativa dell’aborto. Insomma, non è ragionevole e perciò non risponde al principio di parità dei cittadini di fronte alla legge, proibire di acquisire le informazioni relative alla salute del possibile figlio, prima di concepire. E consentire invece, dopo del concepimento, acquisita la notizia della malformazione, l’aborto. Dando luogo anche al contrasto con l’articolo 32 della Costituzione che fonda il diritto alla salute. Perché è di palmare evidenza come la procreazione assistita non comprometta la salute della madre. E non uccide il feto. Consente, piuttosto, di sospingere una nuova vita sana.
La legge numero 40, di cui rammentiamo la difficilissima genesi politica, intese negare una soluzione considerata “non naturale”, se non in pochissimi casi tra i quali quello della mancanza di fertilità. Perché la famiglia, e la persona, come scriveva Iemolo, erano ritenute isole appena lambite dalla legge. Ma racchiuse intorno a concetti pregiuridici, che tuttavia diventavano diritto, e, come in questo caso, mancanza di ragionevolezza costituzionale. La Corte ha preso atto che la cultura ha fatto entrare in quell’isola la razionalità della legge.
Non mi pare infatti un caso che la sentenza, consapevole del clima che circonda il palazzo della Consulta, abbia rammentato come al giudice delle leggi non rimanga che togliere la legge ordinaria una volta che altri strumenti non siano possibili per eliminare una lesione dei diritti costituzionali. Spetterà, dice sempre la Corte, al legislatore di esercitare la sua discrezionalità per introdurre disposizioni che individuino anche sulla base dell’evoluzione scientifica le patologie che in concreto giustifichino l’accesso di coppie fertili alle procedure di procreazione assistita. Ma non può essere la mancanza di questa previsione a togliere, oggi, il difetto della legge vigente.