domenica 7 giugno 2015

Repubblica 7.6.15
SENZA L’EUROPA FEDERATA SAREMO UNA PEDINA SULLA SCACCHIERA
EUGENIO SCALFARI

LE ELEZIONI regionali, la scarsissima affluenza degli elettori alle urne, in particolare il Pd in quanto partito e senza le liste d’appoggio ai singoli candidati sceso dal 41 per cento delle europee al 24,9 per cento, mentre il solo partito che ha guadagnato, oltre 250 mila voti, è la Lega di Salvini; la vittoria 5 a 2 del Partito democratico: sono tutti fatti molti rilevanti ai quali vanno aggiunti i disegni di legge sulla scuola e sulla Rai che dovranno affrontare altre contestazioni e — per converso — le discrete notizie che provengono dalle cifre sull’occupazione, peraltro molto fragili e ancora passibili di variazione, sia al miglioramento sia al peggioramento.
Ma il primo vero tema da esaminare è quel che avviene nella politica dell’Unione europea della quale l’Italia non è soltanto un Paese membro ma molto di più.
L’Italia è anzitutto un Paese fondatore della Comunità europea. Poi, dal 1999, cioè dalla sua nascita, fa parte della moneta comune e quindi dei 19 Paesi dell’Eurozona, azionisti anche della Banca centrale.
Infine — debolezza e forza allo stesso tempo — abbiamo il terzo debito pubblico del mondo dopo il Giappone e gli Usa. Debolezza economica, è evidente, ma con la forza di ricatto politico eventualmente da giocare.
Perciò l’Europa è il tema numero uno tra i tanti che affliggono la società globale nella quale ormai tutto il mondo vive. La società globale pone delle regole, che non sono scritte in nessun trattato ma scolpite nei fatti che sono molto più importanti: i trattati si possono cambiare, i fatti no.
ESONO questi: la tecnologia ha creato la globalizzazione, l’emergere di grandi potenze di struttura continentale ha dato alla globalizzazione una nuova forma politica. Questo è quanto accaduto negli ultimi trent’anni e quanto ancora avviene con crescente velocità. Tra poco, quei Paesi che non avranno assunto una forma politica di dimensioni continentali diventeranno politicamente irrilevanti. Camperanno lo stesso ma con la forma delle pedine nel gioco degli scacchi: le pedine si muovono soltanto d’un passo alla volta, sempre in una direzione e mai all’indietro, mentre tra loro e spesso contro di loro volteggiano cavalli, alfieri, torri e la Regina che si muove quando e come vuole in tutte le direzioni.
L’Europa, se si trasformasse in Stati Uniti Europei, diventerebbe a dir poco una torre con qualche possibilità d’essere addirittura la Regina del gioco; ma se rimane come adesso una confederazione di Stati sovrani e soltanto nazionali, ciascuno di loro sarà una pedina, Germania compresa. È inutile dire che tra quelle pedine noi siamo la più debole esclusi Cipro, Malta e la Grecia. Visto che abbiamo un governo che punta sul cambiamento, non spetterebbe ad esso d’esser quello che batte il pugno sul tavolo per ottenerlo?
A me sembrava d’aver creduto che il documento presentato e notificato da Renzi a tutte le Autorità europee la scorsa settimana contenesse e indicasse questa politica e ne avevo fatto le lodi al suo estensore. A me Renzi non è molto simpatico, vedo in lui una vena autoritaria che mi desta molte preoccupazioni, ma quando fa un passo positivo credo di essere abbastanza onesto da segnalarlo politicamente e a volte mi inorgoglisce pensare che abbia accettato i miei consigli. Presuntuoso? Forse un po’? Me ne scuso.
Comunque, le mie lodi a Renzi domenica scorsa erano sbagliate, il suo documento all’Europa non puntava affatto sulla federazione degli Stati; voleva l’accordo europeo sulla crescita e sull’immigrazione. La crescita l’aveva già ottenuta sotto forma di flessibilità ma limitata in modo da non incrementare il debito e sempre condizionata agli impegni dovuti al “fiscal compact” cioè alla stabilizzazione del deficit e al pareggio strutturale del bilancio. Quanto all’immigrazione la risposta sostanzialmente è stata negativa. Di Stati Uniti d’Europa Renzi non aveva affatto parlato, anzi....
*** Nel frattempo c’è stato un incontro e un documento comune della Merkel con Hollande su vari e importanti temi: la crescita economica, l’Ucraina, la Gran Bretagna, il rapporto con gli Usa, gli interventi monetari della Bce. E soprattutto il rapporto Francia-Germania di fronte ai movimenti anti-europei e anti-euro, attivi in quasi tutti i Paesi europei e soprattutto in Francia e in Italia. È troppo pensare che, almeno per quanto riguarda Hollande, il vero motivo di questo incontro a due fosse quello di riproporre l’esistenza operativa del direttorio europeo Francia-Germania che negli ultimi cinque o sei anni si era alquanto attenuato se non addirittura spento sotto i colpi della più grave e lunga crisi economica dal 1929 ad oggi? Dell’incontro Merkel-Hollande e dei suoi contenuti il nostro giornale aveva dato per primo la notizia con un’intera pagina di Andrea Bonanni; successivamente ci furono notizie ulteriori sui contenuti e i relativi commenti. Il caso greco e la politica verso l’Europa dell’euro da parte del conservatore inglese Cameron ebbero il loro rilievo da prima scena, insieme agli accordi americani con l’Iran e al prezzo del petrolio. Il direttorio franco-tedesco chiamò a consulto la Commissione di Bruxelles, Draghi e il presidente dell’Eurozona. La Lagarde fu presente come consulente “esterno”. Renzi non fu chiamato, evidentemente l’Italia è oggetto e non soggetto di questi vertici. Il motivo c’è: l’Italia vorrebbe cose che le autorità europee non sono disposte a concedere. In Libia ci hanno conferito il comando militare delle operazioni, per ora tuttavia quel comando serve ad evitare coinvolgimenti militari sulla terraferma e ad impedire che i barconi carichi di immigrati escano dalle acque territoriali libiche. Non è granché.
Quanto alle quote di immigrati da distribuire in Europa, appare molto difficile progredire: gran parte degli Stati europei (Francia, Spagna, Olanda, Germania, Gran Bretagna) hanno già molti più immigrati dei nostri e noi del resto non riusciamo neppure a ridistribuire tra il nostro Sud e il nostro Nord gli immigrati che affollano la Sicilia e la Calabria. E questo è quanto.
Ma voglio qui ricordare l’ultimo appello che Giorgio Napolitano lanciò al Parlamento e agli italiani alla vigilia delle sue dimissioni. Tra le varie esortazioni che inviava al governo e al Paese c’era quella dell’Unione europea da trasformare in una federazione politica, come del resto prevede il trattato di Lisbona che da alcuni anni giace tuttavia ineseguito. Napolitano insisteva a metterlo in opera, ma finora quell’esortazione non ha avuto nessun seguito. C’è soltanto Draghi che opera in quella direzione ma i suoi strumenti sono soltanto monetari. Spingere il pesante treno europeo in quella direzione trasformando lo strumento monetario in impulso politico non è un compito facile. È la Merkel che bisognerebbe coinvolgere, riconoscendone l’egemonia. La cancelliera ondeggia: una parte di lei vorrebbe gli Stati Uniti Europei sotto la guida tedesca, un’altra parte si ritrae; l’egemonia di fatto è più facile da sopportare (l’egemonia pesa, è una responsabilità angosciante) perché può più facilmente cambiare direzione.
Questa è la situazione e qui l’Italia, se volesse battere il pugno veramente su quel tavolo, avrebbe la forza di farlo e troverebbe forse anche degli alleati. Ma Renzi evidentemente non se la sente perché forse non comprende il problema. O meglio, lo comprende perfettamente ma non si sposa col suo punto di vista. Gli Stati Uniti Europei declassano gli Stati nazionali, che quindi non cessano di esistere ma dentro un livello d’autonomia limitato, come avviene tra un Texas, un Ohio o una California e il potere federale di Washington e della Casa Bianca. Renzi non vuole questo. È uno che conta molto in casa propria fino a quando l’Europa sarà un condominio dove ciascuno dei condomini dice la sua. Pensare che sia lui a battere quel pugno su quel tavolo affinché il trattato di Lisbona sia portato avanti con decisa volontà politica è pura illusione. La settimana scorsa mi ero illuso ma, l’ho già detto, avevo commesso un grave errore. *** Il nostro presidente del Consiglio, che ieri mattina è venuto a Genova al Festival delle Idee di Repubblica per un dibattito con il nostro direttore, ha dinanzi a sé un percorso abbastanza accidentato: la riforma costituzionale del Senato, la legge elettorale, la riforma della scuola, quella della Rai e “last but not least” quella sui partiti. Sono tutte di grande importanza, specie quest’ultima, ma non è singolare che non vi sia in agenda nessuna legge che riguardi l’economia, come invece Draghi va da tempo predicando?
Sul Senato ho infinite volte espresso il mio parere: è opportuno togliere al Senato la facoltà di esprimere la fiducia al governo riservandola alla sola Camera dei deputati. Il Senato però dovrebbe avere, insieme ma separatamente dalla Camera, il compito di controllare l’attività della pubblica amministrazione, governo compreso, oltreché rappresentare e vigilare sul comportamento delle Regioni. Ma Renzi questa riforma non la farà. La minoranza di sinistra del Pd dovrebbe battersi su questo punto, perché esso è essenziale per la democrazia italiana.
Sulla scuola, Renzi cercherà un accordo e probabilmente ne rinvierà la discussione. Si concentrerà piuttosto sulla riforma della Rai per abolire la pessima legge Gasparri ed anche per esercitare il controllo effettivo della più grande azienda della cultura e dell’informazione italiana. Ma il disegno di legge che desta la maggiore preoccupazione è quello che deve organizzare, come la Costituzione prevede, la vita interna dei partiti.
Il principio, per quanto è filtrato dalle segrete stanze di Palazzo Chigi, riguarda i criteri che dovrebbero presiedere tutti gli organi che fanno capo allo Stato di diritto. I partiti sono nati per raccogliere il consenso degli elettori, hanno quindi un compito di estrema importanza nella vita politica e i criteri sono tre: quello della maggioranza, quello della rappresentatività e quello della integrità morale dei singoli candidati alle elezioni di qualunque grado e specie. Dalle “segrete stanze” emergono voci che privilegiano il criterio maggioritario, obbligando la minoranza ad obbedire dopo essersi espressa ed ascoltata. Quanto all’integrità individuale prevarrebbe il principio garantista come infatti sta avvenendo per quanto riguarda un sottosegretario alfaniano sotto inchiesta della Procura di Roma e come sta altresì avvenendo con il caso De Luca. Sul finanziamento dei partiti sembra invece che i pareri siano controversi anche all’interno del governo. Il disegno di legge sui partiti è molto preoccupante anche per il fatto che la legge si applica, una volta che sia stata approvata dal Parlamento, a tutti i partiti escludendo quelli organizzati come movimenti. La sua importanza deriva però soprattutto dal fatto che è studiato su misura per il Partito democratico che, sulla base della sua attuale consistenza, è il maggior partito centrista che esista in Europa. In tutti gli altri Paesi europei esiste lo schieramento bipartitico e la maggioranza può spostarsi dalla sinistra alla destra o viceversa. Al centro c’è solo talvolta un piccolo partito o comunque un piccolo gruppo di elettori, ma non esiste esempio di un grande partito collocato al centro, con alle ali una poltiglia o poco più.
Se quindi il Pd sarà congegnato per dare la prevalenza all’attuale gruppo dirigente renziano, quel gruppo avrebbe l’inamovibilità per molto tempo. Non a caso Renzi affermò qualche giorno fa che avrebbe governato fino al 2023. Nove anni di governo. Poi tornerà a vita privata. Che faticaccia! *** Due parole sul caso De Luca, sul quale è intervenuto recentemente l’avvocato Gianluigi Pellegrino che ha ottenuto la recente ordinanza della Corte di Cassazione a sezioni unite.
De Luca tra pochi giorni sarà proclamato governatore della Campania e con lui saranno proclamati i consiglieri regionali eletti dall’ufficio elettorale della Corte d’Appello di Napoli. A quel punto deve scattare la sospensione di De Luca in base alla legge Severino, tanto più che il codice penale prevede che «qualora l’atto di sospensione dovesse tardare provocando un favore ad altri, il reato di abuso di ufficio graverà sull’autorità che ha ritardato di compierlo». Nel nostro caso l’abuso d’ufficio graverebbe sul presidente del Consiglio, con le conseguenze che possono risultarne.
Questo è il caso De Luca. La procedura è chiarissima. Ne vedremo i seguiti.