mercoledì 3 giugno 2015

Repubblica 3.6.15
L’ultimo viaggio del sottomarino nazista in fuga nell’Atlantico a guerra finita
L’incredibile vicenda dell’U-1277 che riemerse davanti alle coste del Portogallo un mese dopo la resa tedesca
di Gabriele Romagnoli


PORTO ACCADDE esattamente settant’anni fa, in una notte di luna piena come questa. L’ora: 0 e 50. Le coordinate: 41.09 N, 08.41 W. Località: Cabo do Mundo, davanti alla spiaggia di Angeiras, propaggine della città di Porto, un villaggio di pescatori e per questo svegli a quell’ora. Dall’oceano tutto si aspettavano, tranne i fantasmi. Li videro arrivare su una piccola flotta di canotti: sfiniti e laceri, le divise fradice e sporche. Li guardarono increduli: non avevano mai visto da vicino un soldato nazista e quelli erano quarantasette. Li soccorsero perché questo impone la legge del mare. Li aiutarono a raggiungere la riva. Messi i piedi sulla terraferma, i naufraghi alzarono le braccia in segno di resa. Si consegnarono a chi la guerra non l’aveva mai combattuta, concedendosi l’illusione della neutralità. Era il 3 giugno del 1945. La Germania aveva accettato la disfatta da quasi un mese. Che cosa era successo a quegli ultimi, sfiniti guerrieri affiorati dal mare?
Un riflettore si accende su quello stesso litorale, nella stessa notte, settant’anni dopo. In piedi su una barca un attore di nome Rui Spranger proclama, citando Erri De Luca, che «il torto del soldato è la sconfitta». Alle sue spalle, proiettate su tre grandi vele, scorrono le immagini dei bombardamenti, dei lager, di Norimberga. Il pubblico, composto da residenti di quella che nel corso del tempo è diventata una destinazione turistica, osserva con il medesimo stupore che ebbero genitori e nonni. Una compagnia italiana, Assemblea Teatro, è venuta a riportare in superficie una storia dimenticata, ma che appartiene anche a loro. Il suo fondatore, Renzo Sicco, ha una casa proprio qui e qui ha sentito parlare del “sottomarino”. È affondato a trecento metri da riva. Se ne accorsero nel ‘73: le reti si impigliavano in “qualcosa” e chiamarono un gruppo di subacquei per scoprire in “che cosa”. Riemerse la storia.
Maggio ‘45, dunque. Il 4, constatato il crollo militare della Germania, l’ammiraglio Donetz diramò l’ordine a tutti i sommergibili di disarmare i siluri, riemergere, issare bandiera nera e consegnarsi. L’U-1277 era uno degli ultimi. Costruito alla fine della guerra, era entrato in acque ormai torbide da un anno. Pesava 871 tonnellate. Il serbatoio poteva contenerne 113 di benzina. Scendeva fino a 180 metri di profondità in 25 secondi. A bordo c’erano 47 uomini di cui 29 marinai, 10 caporali, 4 con il grado di sergente e 4 ufficiali. Avevano età comprese tra i 18 e i 20, tranne il comandante, il tenente di vascello Peter Stever, che ne aveva 27.
La loro prima e ultima avventura era iniziata il 22 aprile da Bergen. Solo dopo la partenza era stata aperta la busta sigillata con le istruzioni: dirigersi verso il canale della Manica e affrontare la flotta inglese. «Missione per andare in cielo», un nome in codice non troppo enigmatico. Su 40mila soldati tedeschi impiegati negli U-Boot 30mila sono morti. Poco dopo, il contrordine: è finita, fate rotta su Kiel e arrendetevi. Il tenente Stever spense la radio, guardò gli altri ufficiali. Kiel significava morte certa, i sovietici che la presidiavano non avrebbero avuto pietà. Abbassò lo sguardo sulle carte nautiche. Con l’indice puntò la loro posizione, poi lo fece scorrere, a occidente, fino a Vigo, alla Spagna franchista. Lì, lo batté e si fermò. Risollevò la testa. Gli altri annuirono. Avevano carburante e vettovaglie, ma un solo bagno disponibile, nessuna doccia, un cambio di biancheria. In un sottomarino c’è la stessa temperatura del mare e quello del nord è gelido. Spensero la strumentazione per non essere intercettati. Navigarono con le mappe e l’istinto.
Quasi un mese nella pancia di una balena d’acciaio nella pancia del mare: avevano perso e si erano persi. Difficile immaginare una simbologia più forte per la sconfitta: non ti lascia niente, né una causa, né un senso. Non sei più da nessuna parte, nemmeno dalla tua: per la Germania Stever e i suoi uomini erano disertori, per gli inglesi che li cercavano erano ancora nemici. Entrambi imputavano loro la colpa della disobbedienza. Sbagliarono approdo, ma di poco: Porto è a poco più di cento chilometri in linea d’aria. Quando videro la costa il tenente fece uscire le scialuppe e rimase a bordo con quattro uomini. Diede l’ordine di affondare il sommergibile, che oggi è ancora lì, adagiato e coperto di anemoni bianchi. Ne uscì a riveder le stelle dopo trenta notti.
Rischiarati dalla luna piena e pallidi com’erano, lui e gli altri parvero davvero spettri. I pescatori li sfamarono nelle loro case, con pesce e patate. Fu avvertita la Guardia Fiscal, il cui responsabile, Rudolfo Mesquita, aveva lo stesso nome del nipote che gli è succeduto e ha procurato i permessi per lo spettacolo «degli italiani», sul pubblico lungomare. Ricorda ancora «la leggenda del nonno e dei nazisti spiaggiati». Li chiusero in un vicino castello e poi li spedirono a Lisbona dove li presero in consegna gli inglesi. Rimasero prigionieri di guerra fino al ‘47. Peter Stever più a lungo, condannato per l’affondamento dell’U-Boot 1277. Trent’anni fa, nel quarantesimo anniversario, una dozzina di loro si è ritrovata qui, per una rimpatriata a cena. Settant’anni dopo, senza sopravvissuti, questo spettacolo.
«Il punto non è rievocare — dice Renzo Sicco mentre riarrotola le vele — ma riflettere. Sul dovere dell’accoglienza, sulle conseguenze della sconfitta ». E sul fatto che, nell’ora più buia, il torto del soldato è l’obbedienza e nel suo contrario c’è la salvezza, per lui e per tutti.