La Stampa 3.6.15
La pittura italiana sul sentiero stretto tra Stalin e il neorealismo
“Guardando all’Urss”, una mostra a Mantova racconta l’influenza dell’arte sovietica nel dopoguerra
di Andrea Colombo
«Come vedete l’originalità del Premio di pittura di Suzzara consiste nel fatto che i riconoscimenti sono costituiti da prodotti dell’agricoltura e dell’industria. Solo il premio della Cgil è in danaro!». «Non approvo: anche la Cgil doveva offrire i suoi prodotti: uno sciopero e un’agitazione. Lo farò rilevare a Di Vittorio». Lo scambio di battute tra il personaggio di Anita e Stalin in visita nella Bassa padana, frutto della fantasia di Giovannino Guareschi e pubblicato sotto forma di fotoromanzo sul Candido nel 1952, rende bene l’idea di quanto l’ideologia in quegli anni pesasse nel dibattito artistico, con risultati che a volte rasentavano il ridicolo. Il sarcasmo di Guareschi prende di mira l’evento ideato nel dopoguerra da Tebe Mignoni, sindaco comunista della cittadina del Mantovano, Dino Villani, pubblicitario geniale e inventore di Miss Italia e Cesare Zavattini: premiare gli artisti con vitelli, puledri, salumi. Il motivo è duplice: mettere in contatto i maestri del pennello con la realtà produttiva del Paese e avvicinare contadini, operai, allevatori alla torre d’avorio dell’arte.
Il Premio Suzzara
Il Premio Suzzara, a partire dal 1948, aspira così a diventare il palcoscenico del neorealismo pittorico italiano. «Guardando all’Urss. Realismo socialista in Italia dal mito al mercato» (a cura di Vanja Strukelj, Francesca Zanella, Ilaria Bignotti, Palazzo Te, Mantova, fino al 4 ottobre, catalogo Skira) ripercorre proprio questa singolare iniziativa. L’altro cardine della rassegna è la partecipazione sovietica alle Biennali di Venezia dal 1934 al 1977.
Le 100 opere in esposizione raccontato di agricoltori, minatori e proletari, spesso sotto lo sguardo benevolo e protettivo di Lenin. E’ la storia di come il realismo socialista italiano muova i suoi primi passi in un Paese spaccato a metà fra comunisti e cattolici. Non a caso la mostra si apre con tre grandi manifesti targati Dc delle elezioni del 1948: il cosacco dell’armata rossa è raffigurato come uno scheletro o un carnefice con il coltello fra i denti. «E’ lui che aspettate?» è la domanda, a caratteri cubitali, che campeggia sul poster elettorale. Propaganda, la sorella gemella della pubblicità.
Quadri e vitelli
Sarà proprio un grande maestro degli slogan, Villani, a coniare la formula del Premio Suzzara: «Un vitello per un quadro non abbassa il quadro, innalza il vitello». La trovata suscitò parecchia ilarità nella stampa di allora. I giornali di quegli anni titolavano così: «Dalle tavolozze escono maialini»; «Pagati in natura»; «Miracolo di una mostra - Da buoi dipinti, una bistecca vera».
In realtà, al di là degli aspetti folkloristici, l’iniziativa, che vedrà la partecipazione di artisti di livello internazionale, come Renato Guttuso (in mostra con un Boscaiolo in puro stile realista) e Giulio Turcato (presente con Miniera, una tela che tenta di mediare fra istanze astratte e figurative), era molto ambiziosa.
Il progetto di Villani era quello di creare un punto di riferimento per un’arte accessibile a tutti, che parlasse di temi attuali legati al mondo del lavoro. E i risultati sono spesso di una certa efficacia e di sicuro impatto emotivo: come negli orgogliosi Operai di Milano di Ampelio Tettamanti, nel Primo maggio trionfale di Paolo Ricci o nel melodrammatico Cercavano lavoro – no morte di Armando Scivales che chiude la sezione italiana. Si guardava all’Urss quindi, dove imperavano i dettami estetici ispirati al figurativo ottocentesco.
Autarchia
Proprio a questa scuola sovietica, un’accademia che riprende schemi impressionisti e romantici, è dedicata la seconda sezione della mostra. Colpisce l’assoluto isolamento autarchico in cui si muovevano i russi, anche nei casi di Vera Muchina e Sergej Gerasimov che potevano vantare una notevole capacità tecnica. La lotta ideologica al cosmopolitismo si trasformava in un congelamento figurativo, in schemi fotografici ed edificanti che nulla avevano a che fare con la dura realtà del sistema comunista. Ma il mondo stava cambiando in fretta e l’arte, ricca di fermenti come la società di quegli anni, ne era uno specchio. Le sperimentazioni visive degli anni ’50 e ’60 misero una pietra tombale sui tentativi, inevitabilmente di retroguardia, di tenere in vita un figurativo di maniera che era ormai solo un nostalgico guardare indietro, quando non una sfacciata operazione propagandistica.
Il mito s’incrina
Intanto, a partire dal 1968, l’anno delle grandi rivolte studentesche, a Suzzara si comprende che il mito sovietico non regge più e allora si cerca di costruirne un nuovo racconto epico, più nostrano: quello della Resistenza. Ma gli studenti e i lavoratori guardano alla Cina e a rivoluzioni ben più radicali di quelle propugnate dai garibaldini togliattiani. Guttuso ha ancora tempo di vincere a Mosca il premio Lenin per la pace nel 1970 quando l’Urss è sempre più un arcipelago Gulag: artisti e scrittori russi pensano solo a fuggire. Rimangono in Russia paesaggisti e ritrattisti di maniera, che dipingono bambini felici sotto le statue di Lenin e contadini che festeggiano circondati da bandiere rosse. Un tentativo estremo di esorcizzare il fallimento di un sistema e dell’immaginario che lo sosteneva.