mercoledì 3 giugno 2015

La Stampa TuttoScienze 3.6.15
Perché siamo sette miliardi ma con geni quasi fotocopia
Da Darwin a Lewontin, risolto il paradosso genetico numero 1
di Gianna Milano


Era il 1859. Charles Darwin dava alla stampe una delle opere cardine della storia scientifica, «L’origine delle specie», introducendo concetti chiave della biologia come quello della selezione naturale: organismi di una stessa specie evolvono gradualmente nel tempo attraverso un processo di selezione che favorisce quelli con caratteristiche ottimali per la sopravvivenza in un determinato ambiente. La selezione naturale opera su una variabilità preesistente (Darwin non poteva saperlo, ma oggi sappiamo che è dovuta al processo naturale di mutazione) ed, eliminando i portatori di caratteristiche non ottimali, porta gli organismi ad adattarsi all’ambiente.
La variabilità genetica delle specie, uomo compreso, è considerata la materia prima su cui la selezione naturale compie la sua magia, modellando gli organismi perché siano adatti al contesto in cui vivono, vale a dire «fit», per usare il termine di Darwin. I teorici dell’evoluzione si sarebbero quindi aspettati che la diversità genetica fosse in relazione alla quantità di una specie: più individui ci sono, più probabilità ci sono che qualcuno di loro subisca una mutazione. Tuttavia, già un quarantennio fa, Richard Lewontin - biologo a cui si devono alcuni degli studi più importanti sulla genetica delle popolazioni - osservò che, mentre le dimensioni di specie diverse possono variare in molti ordini di grandezza, la diversità genetica non lo fa e in effetti non ha rapporti con le dimensioni di una popolazione. 
La selezione naturale
Questa osservazione, nota come il «Paradosso di Lewontin», ha incuriosito per anni i biologi teorici ed empirici e diverse sono state le spiegazioni che gli studiosi hanno offerto al fenomeno. Ora in uno studio appena pubblicato su «PLoS Biology» Russell Corbett-Detig, Daniel Hartl, e Timothy Sackton forniscono una serie di evidenze empiriche di un meccanismo che spiega quel paradosso e che, se ha avuto sinora un sostegno solo teorico, è stato sempre difficile da provare: là dove la selezione naturale è maggiore il rapporto atteso tra diversità genetica e dimensioni di una popolazione viene vanificato. «La cosa straordinaria di questo studio è che, anziché prendere in esame un’unica specie, i ricercatori hanno analizzato una grande varietà di organismi, una quarantina, sia del mondo animale sia del mondo vegetale: dalla pianta di cotone all’arancio, dall’ape al baco da seta, dal cavallo all’uomo», osserva Guido Barbujani, professore al Dipartimento di scienze della vita e biotecnologie all’Università di Ferrara. «Se guardiamo le differenze fra uomo e uomo e fra cavallo e cavallo, fra lupo e lupo, fra pianta e pianta ci aspetteremmo che, dove le specie sono formate da tanti individui, ci siano anche molte differenze e dove, invece, le specie sono formate da pochi individui ce ne siano poche. Invece non è così. Ci sono, per esempio, sette miliardi di esseri umani e poche decine di migliaia di scimpanzé e gorilla, eppure le differenze genetiche fra due scimpanzé o due gorilla della stessa foresta africana sono molto maggiori di quelle fra due qualsiasi di noi, anche se scelti in continenti lontani».
Come può essere? Risponde Barbujani: «L’aveva sottolineato già negli Anni 70 proprio Lewontin, andando al nocciolo del problema: la semplice correlazione fra quanti individui compongono una specie e la presenza di differenze genetiche tra loro non regge. I processi di mutazione sono assolutamente casuali e, anche se ci si aspetterebbe che più individui compongono una specie e maggiori sono le probabilità che qualcuno subisca una mutazione e nel complesso la specie sia più variabile dal punto di vista genetico, le cose vanno diversamente». Questo era il paradosso e che ora, grazie a questo studio, reso possibile dalle tecniche per decifrare il genoma, è stato verificato: «Più individui compongono una specie maggiore è la probabilità che qualcuno di loro subisca una mutazione, ma questo studio dimostra che, in popolazioni grandi (come quella umana e non quella del gorilla), anche la selezione naturale è più efficiente e, quindi, rimuove più rapidamente le varianti genetiche meno adatte all’ambiente».
Applicazioni terapeutiche
Oltre a fornire una soluzione empirica a un paradosso di lunga data, la ricerca contribuisce a decifrare l’architettura del genoma umano. A influire sul nostro Dna sono varie forze evolutive, come la selezione naturale nel caso dei geni, ma non solo. «Esiste anche una deriva genetica casuale, neutrale rispetto alla selezione e che si rivela con elementi ripetitivi, cioè frammenti costituiti da basi del Dna che si ripetono centinaia di volte e che formano più del 40% del nostro genoma», scrive Roland Roberts, nell’editoriale su «PLoS Biology». Diverse, perciò, sono le forze che influiscono su quella che è stata definita la «materia oscura» della diversità genomica.
Ora i ricercatori contano di arrivare a una serie di applicazioni. Come? «Visto che popolazioni piccole tendono a conservare varianti genetiche che altrove verrebbero eliminate più rapidamente dalla selezione - conclude Barbujani - ha senso cercare i geni responsabili delle malattie complesse studiando piccole comunità isolate piuttosto che grandi popolazioni urbane».