Repubblica 3.6.15
Se la parata del 2 giugno diventa pacifista
di Guido Crainz
IL “gioco tricolore” dei bambini di una scuola di Roma con quegli ombrelli bianchi, rossi e verdi che spiccavano in tribuna è stata quasi il simbolo della parata del 2 giugno. Una sfilata militare, sì, ma sempre meno guerresca: con molte bande nel corteo, con gli atleti delle paralimpiadi che sfilavano, mentre erano quasi nascosti i corpi speciali. Come a sottolineare una sempre più marcata trasformazione delle nostre Forze armate. La prima festa della Repubblica del presidente Mattarella ha proseguito e rafforzato un impegno: quello della costruzione di una religione civile e al tempo stesso quella valorizzazione del ruolo dell’esercito in missioni di pace che erano state avviate da Carlo Azeglio Ciampi e proseguite poi da Giorgio Napolitano. Una fase nuova e diversa, rispetto a periodi precedenti.
In ogni momento della storia della Repubblica il 2 giugno inevitabilmente ci riconsegna il ritratto di un’epoca. Fin dall’inizio è stato così.
NON era secondario legare la Repubblica all’esercito, dopo gli anni del fascismo e le tensioni stesse che avevano accompagnato il referendum del 1946. Era assolutamente essenziale dare legittimità alle forze armate vincolandole alla rinata democrazia e al tempo stesso ridisegnarne il profilo agli occhi dei cittadini.
Un reciproco omaggio dell’esercito alla Repubblica e della Repubblica all’esercito (e sullo sfondo vi era anche il delinearsi della guerra fredda). Sarebbe difficile altrimenti comprendere il ruolo di una parata militare nella festa di una Repubblica che «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli», come recita l’articolo 11 della nostra Costituzione.
Negli anni cinquanta si consolidò il carattere istituzionale della festa, mentre il ventennale vide invece un breve rilancio del suo momento più propriamente popolare. Era il 1966, nel pieno del centrosiniuna stra e della presidenza Saragat (e sono ormai lontani i “rumori di sciabola” del generale De Lorenzo del luglio del 1964), ma gli anni successivi videro il deperimento delle celebrazioni, trasformate sostanzialmente in un omaggio alle forze armate. E contestate talora da radicali e pacifisti.
Nel 1976 la parata fu poi sospesa nell’emergenza del terremoto del Friuli (in cui l’esercito è fortemente impegnato) e la festa nazionale abolita l’anno dopo, in nome dell’austerity. E più tardi la stessa sfilata sarà poi annullata. Per più versi agli occhi del Paese sembrava ormai ovvio il valore del 2 giugno, assieme alla fiducia nella Repubblica: celebrarla ogni anno poteva apparire inutile.
La crisi del 1992-1994 e il suo esito mostrarono che non era affatto così. Mostrarono che i nostri valori fondativi erano messi in discussione da umori secessionisti e da “picconatori” di differente natura. Mostrarono, più ancora, che era necessaria ricostruzione profonda del nostro “essere Paese”, mentre cresceva il nostro impegno militare nello scenario internazionale: e nel 2001 l’11 settembre lacerava drammaticamente il quadro. Di qui il senso e il valore dell’impegno del presidente Ciampi per reintrodurre la festa della Repubblica e per rimodellare più generalmente assieme ad essa il patriottismo repubblicano, i rituali e gli immaginari della nazione. Per dare ad essi respiro europeo, e per valorizzare l’esercito come forza di pace.
Nel corso degli anni la “coreografia” della parata ha rafforzato sempre più questo intento: ora siamo giunti a un punto alto di questo percorso, e nella stessa direzione è andato l’incontro della presidente della Camera Boldrini con le ragazze e i ragazzi del Servizio civile, tenutosi anch’esso nella giornata di ieri.
Anche quest’anno, in altre parole, il 2 giugno “rappresenta” un nostro percorso e al tempo stesso ci interroga. Ci riconsegna l’effettiva importanza dell’esercito in drammatiche emergenze civili e rafforza poi la richiesta di assoluta trasparenza della nostra presenza militare nei luoghi dei conflitti. Di assoluta chiarezza sulla sua esatta natura, sugli obblighi che ci impone: non hanno aiutato in passato le evocazioni di “missioni umanitarie” anche in casi che poco corrispondevano a questa definizione.
Ma questo 2 giugno ci interroga anche sul ruolo dell’impegno militare nello scenario internazionale: l’avanzata dell’Is dà drammaticità simbolica, e non solo simbolica, a questo interrogarsi, iniziato già ai tempi delle guerre nella ex Jugoslavia (ne aveva testimoniato anche Alex Langer, cresciuto nel più alto impegno pacifista). Un Paese maturo e civile sa far convivere domande come queste, ed oggi è più che mai necessario.