mercoledì 3 giugno 2015

Repubblica 3.6.15
La resa dei conti nel Pd minoranza dem all’attacco “Ora le riforme cambino”
Renzi: “Io vado avanti”
L’ipotesi di rinviare la direzione convocata lunedì per evitare lo scontro in vista dei prossimi ballottaggi
di Francesco Bei, Goffredo De Marchis


ROMA Il terreno dello scontro sarà la riforma costituzionale. Ovvero l’aula parlamentare del Senato dove la legge tornerà prima della pausa estiva. Per la precisione: i voti necessari ad approvarla in terza lettura. Voti che sulla carta non ci sono più. Perché serve la maggioranza assoluta degli aventi diritto, 161 “sì”. Senza Forza Italia, senza il soccorso azzurro di qualche spezzone di Fi (dopo le regionali più improbabile), senza i 20-30 dissidenti del Pd, quei voti mancano all’appello. La sinistra del Pd vuole lo scalpo della riforma, convinta che il combinato Italicum-abolizione del Senato sia un pericolo per gli equilibri democratici. Ma quelle norme sono anche il caposaldo della politica di Matteo Renzi. Impallinarle significa azzoppare il premier. «Se vuole un accordo può far decantare la situazione rinviando tutto a dopo l’estate — dice un bersaniano di ferro —. Altrimenti deve fare un’apertura vera per modifiche radicali».
Il presidente del Pd Matteo Orfini però non vede margini di trattativa. Nemmeno uno. «La narrazione della sconfitta alle regionali si basa su dati falsi. Basta prendere l’analisi di Vassallo che comprende anche le liste civiche assimilabili ai partiti. Forza Italia crolla, il Movimento 5 stelle passa dal 22 per cento al 17 e il Pd dal 42 al 37. È complicata definirla una disfatta». Manca la base sulla quale costruire una rivincita. Perciò Orfini è favorevole alla linea dura, almeno in questa prima fase. «Non si torna indietro sulle riforme, questo è chiaro». Ma non solo. «È necessario un chiarimento, una volta per tutte. Basta con i ricatti dei dissidenti. Abbiamo perso perché siamo stati 6 mesi a parlare di noi anziché del Paese».
Linea dura significa provvedimenti disciplinari per i ribelli? Orfini non lo dice ma mette insieme tre episodi: «Speranza voleva fare una dichiarazione di voto contro il suo gruppo sulla scuola. Così ci si comporta in una federazione di partiti non in una comunità omogenea. L’ex segretario Bersani dice in un’intervista, il giorno del voto, che il Pd fa schifo. Rosy Bindi chiede le scuse dopo il delirio degli impresentabili. Pazzesco. Quasi quasi De Luca fa bene a querelarla». Questo è il clima, dunque, a pochi giorni dalla direzione dell’8 giugno, la data del “chiarimento”. Che probabilmente slitterà, dopo che qualcuno ha fatto notare il pasticcio di appuntamenti. «Fare una direzione nella settimana dei ballottaggi non mi sembra una grande idea — dice Nico Stumpo —. Con queste premesse poi...».
Renzi è furioso con la sinistra. Pensa che occorra accelerare altro che frenare. Sulla scuola, altro provvedimento che è al Senato, le aperture sono già state fatte. Sulla riforma costituzionale, a Palazzo Chigi si ragiona intorno a due possibili correzioni: una legge ordinaria che restituisca agli elettori il potere di scegliere i senatori o un cambiamento radicale del testo che lo farebbe ripartire daccapo. Ma non è ancora il momento di cedere. «Renzi è determinato a non fare concessioni », spiega il vicesegretario Lorenzo Guerini. Ma la minoranza è sicura che il premier tratterà. «Renza manda avanti i soliti noti che fanno un po’ di casino — osserva l’ex capogruppo Roberto Speranza — ma in realtà capisce che la situazione è molto seria e deve aggiustare la linea». Altrimenti i dissidenti hanno oggi armi più potenti per convincerlo (i voti a Palazzo Madama) e un possibile piano B sotto forma di ribaltone, con un nuovo governo pronto a sostituire l’attuale. «Una follia — ribatte Orfini —. Se un pezzo del Pd fa mancare i voti in Parlamento si va alle elezioni. Punto».
I problemi al Senato non finiscono con la minoranza Pd. In queste ore una faglia verticale sta attraversando Area popolare, che a palazzo Madama conta su 36 senatori. Decisivi per Renzi. L’innesco della bomba è stata l’uscita di Gaetano Quagliariello, pronto a chiedere una «riflessione » sulla permanenza nell’esecutivo se il premier non dovesse accettare una revisione dell’Italicum con l’abolizione del premio alla lista. La verità, raccontano, è che ormai nel partito convivono due posizioni sempre più distanti. Quagliariello, d’accordo in questo con Maurizio Lupi, ritiene che il tempo della collaborazione con il Pd sia ormai esaurito, che sia meglio sganciarsi il prima possibile per costruire un’alternativa di centro- destra. Andrea Augello lo va predicando da tempo: «Alle regionali il vecchio Pdl, nelle sue varie articolazioni, è arrivato a totalizzare 18-20 punti percentuali senza più un leader e nelle condizioni peggiori. Figuratevi insieme alla Lega e con un candidato premier decente. Secondo me dobbiamo individuare un percorso federativo e poi indire subito le primarie del centrodestra. Affidando proprio alle primarie, cioè agli elettori, la scelta se dobbiamo restare al governo o farlo cadere».
A questa linea si contrappone quella del ministro Beatrice Lorenzin, convinta che la traiettoria di Area popolare sia ormai legata indissolubilmente al programma di riforme insieme al Pd. Tanto da non escludere in futuro una qualche forma di convergenza, anche elettorale, con il partito della Nazione. In ogni caso molti, dentro Ncd, ritengono sbagliata la rottura con Renzi ipotizzata da Quagliariello (di cui apripista è stata Nunzia De Girolamo). Proprio le due vice capogruppo al Senato, Laura Bianconi e Federica Chiavaroli, spalleggiate dal senatore Guido Viceconte, hanno minacciato il coordinatore di aspettarsi «amare sorprese» nel caso si dovesse votare nei gruppi l’uscita dal governo.