martedì 2 giugno 2015

Repubblica 2.6.15
L’altolà del premier: “Nessuno pensi a elezioni anticipate. Ora cambiamo il partito”
Il segretario: “Io non mollo vado avanti fino al 2018 con tutte le riforme”
Viaggio a sorpresa di Renzi dai soldati italiani a Herat, in Afghanistan.
Il premier ha parlato indossando una mimetica con il nome “Renzi” scritto sul petto
di Francesco Bei


ROMA «Nessuno si faccia illusioni: il governo non cade, io vado dritto fino al 2018 e non lascio palazzo Chigi». Matteo Renzi ha messo migliaia di chilometri di distanza tra sé e le polemiche romane sul risultato del Pd. Nemmeno una parola ufficiale sulle regionali. Ma anche dall’Afghanistan non ha smesso di compulsare il cellulare e scambiare Sms con lo stato maggiore del Pd, impegnato a rintuzzare gli assalti di quanti nella minoranza dem — sulla base soprattutto dei dati elaborati dall’Istituto Cattaneo — parlano di una perdita di un milione di voti rispetto alle politiche del 2013. Una febbre sulla tenuta del governo che è salita per tutto il giorno, alimentata anche dall’uscita di Gaetano Quagliariello sulla necessità di rivedere l’Italicum «altrimenti dovremo aprire una discussione » sulla permanenza di Area popolare.
Per il presidente del Consiglio, al contrario, nulla cambia nella rotta dell’esecutivo. E già da domani, per fare un esempio, la commissione cultura del Senato riprenderà a discutere della Buona Scuola per approvare in fretta la legge delega con poche modifiche.
Ma è soprattutto un altro il fronte che, in questo momento, è oggetto dell’attenzione del premier. L’epicentro della crisi riguarda infatti il Pd e il rapporto con le varie correnti della minoranza. Per questo, già a partire dalla direzione di lunedì prossimo dove si consumerà una sorta di ennesima resa dei conti, Renzi ha intenzione di lanciare la sua operazione di “reconquista” del partito. Un organismo che si è dimostrato quasi ingovernabile in provincia, dilaniato da faide interne, in mano a potentati locali pronti ad affrontarsi con ogni mezzo (lecito e poco lecito) in primarie interne all’ultimo sangue. Tutto questo per Renzi deve cambiare. Perché se a Roma il processo di rinnovamento iniziato con il congresso è ormai giunto a termine, sul territorio il Pd è ancora il vecchio Pd. Già prima delle elezioni regionali, in alcune conversazioni private, Renzi si era spinto a rimettere in discussione il dogma delle primarie sempre e comunque. Ora il tema viene messo ufficialmente sul tavolo. «L’ordalia delle primarie - osserva il presidente Matteo Orfini forse andrebbe evitata. Un gruppo dirigente è tale se riesce a superare le sue divisioni e trovare una sintesi unitaria che eviti lacerazioni. Come abbiamo fatto con Chiamparino e Zingaretti». Per raggiungere l’obiettivo di un Pd dal volto nuovo nelle regioni si potrebbe passare anche da un commissariamento, se non formale almeno politico. «Qualcosa di simile - aggiunge Orfini - a quello che stiamo facendo a Roma. Un’operazione di ricostruzione di un gruppo dirigente e uno smontaggio delle perversioni correntizie e delle filiere spurie che si sono stratificate».
Com’è evidente un progetto di questa portata non sarà indolore. Anche per questo il segretario dem pensa di rafforzarsi sul lato sinistro, stringendo ancora di più il legame con quella parte di Area riformista (ex bersaniani) che non ha fatto mancare il voto sulla Buona Scuola e sulla fiducia. A loro, al gruppo di Amendola, Orlando, Martina, saranno offerti posti nelle presidenze di commissione, al governo, nel partito. In modo da replicare quanto fatto un anno fa con i giovani turchi, passati organicamente in maggioranza insieme ai renziani della prima ora.
Sarà inoltre aperta la discussione sulla vita interna del partito e sulle regole da rispettare da parte dei parlamentari della minoranza. «È pensabile - ha scritto ieri su Facebook Roberto Giachetti, interpretando il pensiero di molti renziani - che ogni giorno qualcuno indossi la maglia del Pd per cercare di far goal nella nostra porta, imponendo al resto della squadra di sprecare energie per sventare il “fuoco amico” piuttosto che per guadagnar campo? Non credo». Il problema potrebbe diventare oggetto di un’Assemblea nazionale ad hoc che stabilisca un codice di comportamento valido per i gruppi parlamentari. A quel punto chi dovesse violare il principio del rispetto delle decisioni assunte a maggioranza si porrebbe da solo fuori dal partito, evitando a Renzi l’onere politico delle espulsioni. Se questo è il piano che riguarda la vita interna del Pd, anche sul fronte della maggioranza i problemi non mancano. L’elaborazione dei dati delle regionali, un foglio che gira nelle stanze del governo, evidenzia infatti la forte affermazione della Lega e l’arretramento del Pd: tolte le liste collegate ai presidenti, il Pd è al 24,9%, M5S al 15,5%, l’Ncd al 3,8% (a cui andrebbero aggiunti voti dell’Udc, presentatosi in tre regioni), la Lega al 9,5%, Forza Italia 11,2%, Fdi al 3,9%. L’indebolimento di Renzi c’entra qualcosa con l’agitarsi dell’Ncd e con la provocazione di Quagliariello sulla legge elettorale? In realtà sembra che la posizione di Nunzia De Girolamo, ormai di fatto fuori dalla maggioranza, sia abbastanza isolata nei gruppi centristi. Soprattutto il leader Angelino Alfano non pensa affatto a uno sganciamento dall’esecutivo prima di aver completato la riforma costituzionale e consolidato la crescita economica. «Noi ragioneremo sul da fare dopo il referendum costituzionale del 2016 - spiega il ministro dell’Interno - e a quel punto potremo concordare con Renzi una fine anticipata della legislatura oppure andare avanti. Dipenderà anche da come nel frattempo sarà evoluto il centrodestra». Andrea Augello ha studiato questa tabella di marcia: primarie del centrodestra a marzo 2016 e politiche a novembre dello stesso anno.