Repubblica 26.6.15
Noi come Ulisse viaggiatori senza ritorno
Dagli antichi popoli nomadi al turismo di massa:Augé svela i paradossi della nostalgia di casa
Noi come Ulisse viaggiatori senza ritorno
di Marc Augé
LE compagnie aeree emettono preferibilmente biglietti di “andata e ritorno” piuttosto che di “sola andata”. Come se ci fosse qualcosa di sospetto nella nozione di andata senza ritorno, qualcosa che evoca il desiderio di rottura, di fuga dal luogo che abitualmente ci definisce. L’espressione “andata e ritorno” sembra sottintendere già di per sé una certa idea di rapidità: l’assenza sarà breve e si ritornerà presto. Utilizzato da solo, il termine “ritorno” dà libero sfogo alla nostra immaginazione, e non allude a un itinerario preciso. La sua carica poetica (del termine “ritorno”) dipende dal doppio registro che
esso mette in gioco: il tempo e lo spazio. E proprio questo doppio registro è all’origine della sua ambivalenza che può esprimere una semplice ripetizione ma anche una novità radicale, una routine o un’esperienza.
Le società nomadi in linea di massima seguono sempre lo stesso itinerario con delle tappe che generalmente coincidono con le condizioni climatiche più favorevoli, ad esempio, per l’alimentazione delle loro greggi. Le società nomadi sono società dell’eterno ritorno.
La ripetizione è una caratteristica di numerosi gruppi sociali, siano essi sedentari o nomadi. Ogni attacco all’ordine del mondo può costituire dunque una minaccia all’ordine sociale. L’attaccamento al luogo di nascita o al luogo d’origine della famiglia corrisponde a una forma di nomadismo familiare che rientra in parte nello stesso ordine di cose. Le vacanze per molte persone che abitano in città sono state e sono ancora un’occasione per ritrovare il loro ambiente d’origine, le loro “radici”, e questo “ritorno alle origini”, se è regolare, assomiglia molto a una forma di nomadismo. Il nomadismo abituale può suscitare forme di nostalgia, un desiderio di ritorno che è espressione di una mancanza e di un’attesa, che si complica per il fatto che i ricordi legati al luogo d’origine sono dei ricordi d’infanzia: il ritorno a cui aspiriamo allora è un ritorno spaziale e insieme un ritorno temporale; il primo può essere soddisfatto, il secondo no. Da qui la natura ambivalente della nostalgia, di questa sofferenza che è un piacere e viceversa.
In genere, la vita è occasione di andate e ritorni che non sempre comportano delle reazioni affettive, quanto meno in un primo tempo. Tuttavia alcuni momenti a volte sono particolarmente intensi, i momenti dell’incontro amoroso o con un amico (pensiamo al lago del Bourget per Lamartine o al lago di Bienne per Rousseau). Questi momenti possono essere la materia prima di un’espressione letteraria perché esaltano la tensione tra lo spazio e il tempo. Questa tensione può assumere poi diverse apparenze: nel paesaggio di cui parla Lamartine non è cambiato nulla; è passato solo del tempo. Ma succede che il tempo agisca sulla percezione dello spazio. Proust, di ritorno a Iliers, troverà un paesaggio rimpicciolito, che non ha più la dimensione del paesaggio che esplorava con i suoi occhi di bambino. È solo la scrittura che gli permetterà di restituirne le dimensioni ormai scomparse.
Infine succede che dei luoghi cambino obiettivamente; le trasformazioni accelerate del mondo urbanizzato e rurale ci conducono oggi a vivere esperienze del tempo e dello spazio molto diverse, che coinvolgono tutte le dimensioni simultaneamente. Forse è una caratteristica propria della società dei consumi quella di produrre, e vendere, potenti strumenti di registrazione che forniscono a chi li utilizza la prova che sono stati effettivamente dove sono stati. Le folle di turisti che si mettono in posa davanti alla torre di Pisa o a Notre-Dame de Paris “immortalano”, come si suol dire, questo momento della loro esistenza; potranno rivederlo, se non riviverlo, a volontà, e facilmente grazie alla registrazione che ne ha fissato il momento culminante, l’unico probabilmente che lascerà un ricordo. Allora è il ritorno dall’esperienza che conta, indipendentemente dal luogo in cui la si vive. Nel mondo globalizzato con cui i turisti entrano in contatto, è utile ritornare? La nozione di ritorno ha ancora senso? Pensiamo alle forme estreme del turismo futuro: molte persone facoltose hanno già prenotato un viaggio sulle navicelle spaziali che le porteranno in orbita a un centinaio di chilometri di quota: scopriranno così l’immagine intera del pianeta Terra. Sarà sicuramente difficile per loro, come lo è stato per gli astronauti di professione, rimettere piede sulla terra.
Istantaneità e ubiquità faranno parte ben presto del quotidiano più ordinario di una parte dell’umanità. Resta il fatto che il tempo e lo spazio sono i costituenti simbolici essenziali delle relazioni che intercorrono tra gli esseri umani. Qualunque siano le modalità che caratterizzano il turismo attuale, ogni individuo ha bisogno dell’incontro con l’altro per realizzarsi. Allora c’è da scommettere che in ogni turista- consumatore c’è un viaggiatore che sonnecchia, ma con un occhio aperto. Un viaggiatore, cioè un essere curioso degli altri perché lo è di se stesso e dove il desiderio di partire predomina sulla soddisfazione e sull’illusione di essere arrivato.
Ogni itinerario umano è un’Odissea. Ma il ritorno non ha fine perché non si ritrova mai il passato perduto: il gioco dello spazio e del tempo è crudele. Ulisse, alla fine del suo viaggio che lo aveva portato all’altro capo del mondo conosciuto a quell’epoca, è ripartito, secondo alcuni racconti. Alla ricerca di se stesso probabilmente. E quindi incontro ad altri. Baudelaire, fa da eco a Omero: «In fondo all’Ignoto per trovare il Nuovo!».