martedì 23 giugno 2015

Repubblica 23.6.15
Jürgen Habermas
Il filosofo tedesco: i politici non possono nascondersi dietro le lacune dovute a chiare incapacità istituzionali
“Basta con le banche il destino dell’Unione lo scelgano i popoli”


La recente sentenza della Corte di Giustizia europea getta una luce impietosa su un errore di fondo della costruzione europea: quello di aver costituito un’unione monetaria senza un’unione politica. Tutti i cittadini dovrebbero essere grati a Mario Draghi, che nell’estate 2012 scongiurò con un’unica frase le conseguenze disastrose dell’incombente collasso della valuta europea. Aveva tolto la patata bollente dalle mani dell’Eurogruppo annunciando la disponibilità all’acquisto di titoli di stato senza limiti quantitativi in caso di necessità: un salto in avanti cui l’aveva costretto l’inerzia dei capi di governo, paralizzati dallo shock e incapaci di agire nell’interesse comune dell’Europa, aggrappati com’erano ai loro interessi nazionali. I mercati finanziari reagirono positivamente a quell’unica frase, benché il capo della Bce avesse simulato una sovranità fiscale che non possedeva, dato che oggi come ieri, sono le banche centrali degli Stati membri a dover garantire i crediti in ultima istanza.
GLI SPAZI DELLA BCE
Di fatto, la Corte di Giustizia europea non poteva confermare questa competenza, in contraddizione col testo dei Trattati europei; ma dalla sua decisione consegue la possibilità per la Banca centrale europea di disporre – tranne poche limitazioni - dei margini di manovra di un erogatore di crediti di ultima istanza. La Corte di Giustizia ha dunque ratificato quell’azione di salvataggio, benché non del tutto conforme alla Costituzione. Verrebbe voglia di dire che il diritto europeo dev’essere in qualche modo piegato, anche se non proprio forzato, dai suoi stessi custodi, per appianare di volta in volta le conseguenze negative del difetto strutturale dell’unione monetaria. L’unione monetaria resterà instabile finché non sarà integrata da un’unione bancaria, economica e fiscale. In altri termini, se non vogliamo che la democrazia sia palesemente ridotta a puro elemento decorativo, dobbiamo arrivare ad un’unione politica.
Fin dal maggio 2010 la cancelliera tedesca ha anteposto gli interessi degli investitori al risanamento dell’economia greca. Il risultato è che siamo di nuovo nel mezzo di una crisi che pone in luce, in tutta la sua nuda realtà, un altro deficit istituzionale. L’esito elettorale greco è quello di una nazione la cui netta maggioranza insorge contro l’opprimente e avvilente miseria sociale imposta al paese dall’austerità. In quel voto non c’è nulla da interpretare: la popolazione rifiuta la prosecuzione di una politica di cui subisce il fallimento sulla propria pelle. Sorretto da questa legittimazione democratica, il governo greco sta tentando di ottenere un cambio di politica nell’Eurozona; ma a Bruxelles si scontra coi rappresentanti di altri 18 paesi che giustificano il loro rifiuto adducendo con freddezza il proprio mandato democratico.
Il velo su questo deficit istituzionale non è ancora del tutto strappato. Le elezioni greche hanno gettato sabbia negli ingranaggi di Bruxelles, dato che in questo caso gli stessi cittadini hanno deciso su un’alternativa di politica europea subita dolorosamente sulla propria pelle. Altrove i rappresentanti dei governi prendono le decisioni in separata sede, a livelli tecnocratici, al riparo dell’opinione pubblica, tenuta a bada con inquietanti diversivi. Le trattative per la ricerca di un compromesso a Bruxelles sono in stallo, soprattutto perché da entrambi i lati si tende a incolpare gli interlocutori del mancato esito nei negoziati, piuttosto che imputarlo ai difetti strutturali delle istituzioni e delle procedure. Certo, nel caso di specie siamo di fronte all’attaccamento cieco ostinato a una politica di austerità giudicata negativamente dalla maggior parte degli studiosi a livello internazionale. Ma il conflitto di fondo è un altro: mentre una delle parti chiede un cambiamento di rotta, quella contrapposta rifiuta ostinatamente persino l’apertura di una trattativa a livello politico: ed è qui che si rivela una più profonda asimmetria.
SCELTE SCANDALOSE
Occorre avere ben chiaro il carattere scandaloso di un tale rifiuto: se il compromesso fallisce, non è per qualche miliardo in più o in meno, e neppure per la mancata accettazione di una qualche condizione, ma unicamente per via della richiesta greca di dare la possibilità di un nuovo inizio all’economia della Grecia, e alla sua popolazione sfruttata dalle élite corrotte, attraverso un taglio del debito o una misura analoga, quale ad esempio una moratoria collegata alla crescita. I creditori insistono invece sul riconoscimento di una montagna di debiti che l’economia greca non riuscirà mai a smaltire. Si noti che presto o tardi un taglio del debito sarà inevitabile. Eppure, contro ogni buon senso, i creditori non cessano di esigere il riconoscimento formale di un onere debitorio realmente insostenibile. Fino a poco tempo fa ribadivano anzi una pretesa surreale: quella di un avanzo primario superiore al 4%, ridotto poi a un 1% comunque non realistico. Così è fallito finora ogni tentativo di arrivare un accordo da cui dipende il futuro dell’Ue, soltanto in nome della pretesa dei creditori di mantenere in piedi una finzione.
Per parte mia, non sono in grado di giudicare se i procedimenti tattici del governo greco siano fondati su una strategia ragionata, o in qualche misura determinati da condizionamenti politici, incompetenza o inesperienza dei suoi esponenti. Ma le carenze del governo greco non tolgono nulla allo scandalo dell’atteggiamento dei politici di Bruxelles e Berlino, che rifiutano di incontrare i loro colleghi di Atene in quanto politici. Anche se si presentano come tali, sono presi in considerazione esclusivamente sul piano economico, nel loro ruolo di creditori. Questa trasformazione in zombie ha il significato di conferire alle annose insolvenze di uno Stato la parvenza di una questione di diritto privato, da deferire a un tribunale. In tal modo risulta anche più facile negare qualsiasi responsabilità politica.
L’ADDIO DELLA TROIKA
La nostra stampa ironizza sul cambio di nome della troika, che effettivamente assomiglia a un’operazione di magia. Ma è anche espressione del desiderio legittimo di far uscire allo scoperto, dietro la maschera dei finanziatori, il volto dei politici. Perché è solo in quanto tali che i responsabili possono essere chiamati a rispondere di un fallimento che porta alla distruzione di massa delle opportunità di vita, alla disoccupazione, alle malattie, alla miseria sociale, alla disperazione.
Per le sue opinabili misure di salvataggio Angela Merkel ha coinvolto fin dall’inizio l’Fmi. Questa dissoluzione della politica nel conformismo di mercato spiega tra l’altro l’arroganza con cui i rappresentanti del governo federale tedesco – persone moralmente ineccepibili, senza eccezione alcuna - rifiutano di ammettere la propria corresponsabilità politica per le devastanti conseguenze sociali che pure hanno messo in conto nell’attuazione del programma neoliberista. Lo scandalo nello scandalo è l’ingenerosità con cui il governo tedesco interpreta il proprio ruolo di guida.
IL RUOLO TEDESCO
La Germania deve lo slancio della sua ascesa economica, di cui si alimenta tuttora, alla saggezza delle nazioni creditrici, che nell’accordo di Londra del 1954 le condonarono la metà circa dei suoi debiti.Ma non si tratta qui di scrupoli moralistici, bensì di un punto politico essenziale: le élite della politica europea non possono più nascondersi ai loro elettori, eludendo le decisioni da prendere a fronte dei problemi creati dalle lacune politiche dell’unità monetaria. Devono essere i cittadini, e non i banchieri, a dire l’ultima parola sulle questioni essenziali per il destino dell’Europa. E davanti all’intorpidimento post-democratico di un’opinione pubblica tenuta ove possibile lontano dai conflitti, ovviamente anche la stampa dovrà fare la sua parte. I giornalisti non possono continuare a inseguire come un gregge quegli arieti della classe politici che li già li avevano ridotti a fare da giardinieri.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)