venerdì 26 giugno 2015

Repubblica 22.6.15
La guerra fredda di Roma
di Concita De Gregorio


NON ME NE VADO nemmeno con le cannonate, ha detto ieri: «Non possono mandarmi via, l’unico rischio è che non sia approvato il bilancio del 2016». Non l’unico in verità.

IL PREFETTO Gabrielli, sulla scorta delle indagini della Procura, prenderà una decisione a giorni. Non è libero il campo dall’ipotesi di scioglimento per mafia, meno ancora da quella di scioglimento per illegalità. In quest’ultimo caso non basterebbe a Marino neppure la “supergiunta” della quale parla negli ultimi giorni. Un nuovo vicesindaco, personalità di alto profilo, eccellenze. Di fronte al Comune di Roma sciolto per illegalità il governo dovrebbe intervenire, gestire l’emergenza. Ma il caso Roma non è solo un’emergenza criminale e la politica non la fanno le Procure. Il caso Roma, il caso Marino, è una questione politica che precede l’esplodere sui giornali di Mafia Capitale. Il pressing per le dimissioni del sindaco viene da lontano, l’indagine lo ha semmai per un poco ammorbidito. Cosa dirà Gabrielli lo sapremo presto. Intanto sarebbe utile sapere quali siano le intenzioni di Matteo Renzi: il progetto politico, il disegno.
Perché e per ottenere cosa. È a queste due domande che chi sta dando assedio al sindaco di Roma deve dare risposta. Che siano gli affaristi e le destre a volere la testa di Ignazio Marino è comprensibile. I primi vogliono fare soldi, i secondi sperano di vincere Roma. Meno chiaro è perché e per ottenere cosa il Partito democratico — dal suo segretario e presidente del Consiglio fino ai presidenti di municipio — vogliono che Marino se ne vada se è vero, come tutti gli riconoscono, che non è lambito da alcun sospetto di complicità col malaffare, se è come dicono persona onesta.
Cominciamo dal perché: i capi d’imputazione.
Marino non è uno di noi, dicono. Non è vero. Ignazio Marino è stato candidato dal Pd, era un senatore eletto, ha partecipato alle primarie per la segreteria del partito. Può non essere “omogeneo” al gruppo dirigente attuale, certamente non lo è. Non è omogeneo a quasi nessuno, in effetti. Non “apparteneva” ai bersaniani, non appartiene ai renziani. In questo, anche in questo, marziano. Ma era di un volto credibile ed estraneo alle correnti che il Pd guidato da Bersani aveva bisogno quando gli chiese di candidarsi per evitare la disfatta certa nel 2013. Era, quella, la sua virtù. Dunque il Pd — 100 mila elettori alle primarie — ha scelto il suo candidato sindaco, e quel candidato ha vinto. Matteo Renzi, che ha subito dopo rilevato “la Ditta”, non può oggi permettersi di tenere Marino a bagnomaria in una posizione di tiepida distanza mandando agli italiani il messaggio: Marino non è uomo nostro. Non può farlo — per il bene di Roma, di chi ci vive, degli italiani e persino del governo — a meno che non spieghi con assoluta esattezza che cosa sia cambiato in questi due anni, in cosa il sindaco abbia mancato, perché debba essere sfiduciato e che idea abbia il premier, eventualmente, per il futuro della Capitale. Una questione di metodo e una di merito, rispondono qui gli uomini di Renzi.
Il metodo: non ha condiviso, non ha ascoltato. «Fa tutto da solo, come un chirurgo che entra in sala operatoria e dice liberatemi il tavolo». Insomma è diffidente, accentratore, lavora solo con la sua cerchia stretta. Fin qui anche Renzi, però. Diversa fra i due è la capacità di relazione, che in effetti non è poco. Renzi nelle pr è un campione assoluto. Marino un principiante goffo: uno, in pubblico, dice sempre la cosa giusta. L’altro quasi sempre la cosa sbagliata. Uno conta su una rete di contatti e di sponsor molto forti anche fuori dalla politica. L’altro non sa di banche, di cenacoli, di finanza né di sport. Al principio è un me-rito, alla resa dei conti un problema. Dice Goffredo Bettini, che conosce Roma meglio di molti altri: «Un sindaco deve avere nella città almeno 200 persone di tutti gli ambienti, terminali di mondi diversi, con cui tessere un rapporto speciale. Deve ascoltare i loro consigli o almeno fingere di farlo. Fare con loro un discorso per Roma». Rutelli e Veltroni sono stati fuoriclasse, in questo. Non duecento ma duemila persone almeno avevano la loro confidenza costante. Marino parla con pochissimi. Tiene i suoi diari, annota i nomi in verde. Tranne che con Del Rio e con Padoan (un poco con Franceschini, suo antico rivale di primarie) non ha relazione stretta coi vertici di governo. Coi capibastone cittadini è ai materassi. Su banchi opposti in tribunale.
Poi c’è la questione di merito. Non ho niente contro di lui, ma amministri — dice in sostanza Renzi: dia prova di saper governare. Governare Roma. Se la risposta è “a livello di strada” — le buche, le luci in periferia, le case popolari, la pulizia e il decoro, i trasporti, i servizi — allora non dovrebbe essere un compito inaffrontabile. Roma è sporca, è vero. Il traffico impossibile, la manutenzione ordinaria di spazi pubblici ai minimi storici. Le municipalizzate non collaborano, dice il sindaco. Del resto le ha colonizzate Alemanno. I soldi pochi: di sei miliardi in bilancio ne ha tagliato uno. Serve un progetto, dunque. Un programma in quattro o cinque punti essenziali, un patto coi cittadini: un loro coinvolgimento diretto e chiaro, magari con modalità di partecipazione nuove e forti. Un segnale forte va dato, e subito. Il Pd locale, messo dietro alla lavagna da Fabrizio Barca e sotto indagine dalla magistratura, tenderà — per usare un eufemismo — a non collaborare. Non saranno d’altra parte i commissari né i magistrati a risolvere il problema: quello dei circoli, del partito sul territorio è un gigantesco problema politico non solo a Roma, in tutta Italia. Marino lavori allora con le associazioni, con i comitati, coi mille movimenti della città. Bonifichi quel che deve, faccia una proposta chiara, tratti col governo, passi all’azione.
Se la risposta che deve dare è invece a livello di interessi, di soldi e di affari allora è tutto più complesso. Smantellare un sistema consociativo e affaristico rodato e condiviso per decenni non può essere compito di un sindaco lasciato solo a farlo, non in un paio d’anni.
Per ottenere cosa, è la seconda domanda. Renzi sa che non può perdere Roma. È alta in caso di elezioni anticipate la possibilità che prevalga un candidato del Movimento Cinquestelle o una persona estranea al movimento ma gradita al suo elettorato e a quello della sinistra tradizionale (il “modello Rodotà”, insomma, eliminato dalla corsa al Quirinale per ragioni rimaste dal Pd inspiegate). È alta la possibilità che il centrodestra punti su un candidato che piaccia anche a sinistra, o almeno al centro. Marchini si fa avanti da solo, un profilo alla Malagò è possibile. Certamente non può pensare che un candidato “di partito” — per quanto giovane, popolare, magari una donna — riesca a sconfiggere da solo il risentimento di ere geologiche di dirigenti locali ora per giunta sotto schiaffo e, soprattutto, la disillusione di un elettorato sfinito, sconcertato, incredulo di fronte ad uno spettacolo incomprensibile.
Se ha un piano lo illustri e ne spieghi le ragioni. Dire che Marino è onesto, stimabile, incorrotto ma un po’ testardo non basta. Dire che non sa amministrare è generico: il governo ha sede a Roma, il Campidoglio è a 500 metri da Palazzo Chigi. Ci si va a piedi. Si parlino, concordino gli obiettivi, stabiliscano insieme quattro o cinque cose utili da fare e le facciano. Se non in nome della politica lo facciano per il bene della città, la Capitale. Se non per il Pd, di cui nessuno dei due si fida ciecamente, lo facciano per Roma. Per il decoro urbano e per quello politico e morale. Per dare un migliore spettacolo agli occhi di chi prima o poi tornerà a votarli. Per darlo — anche questo conta, in fondo — agli occhi del mondo. Lasciare che siano le Procure a determinare le sorti di Roma è una sconfitta per chi governa e per tutti.