domenica 21 giugno 2015

Repubblica 21.6.15
Lupi solitari cresciuti nel mito della supremazia bianca
Sono quasi 800 i gruppi che si ispirano al Ku Klux Klan:un incubo per l’America di Obama
Gli Stati Uniti si ritrovano dove pensavano di non essere più da tempo: nella palude della discriminazione violenta
Le foto tratte dal manifesto di Roof lo mostrano armato e con la bandiera dei confederati cara ai suprematisti del Sud degli Usa
di Vittorio Zucconi


La preghiera del suprematista bianco è semplice e indiscutibile: «Questa nostra Patria è stata fondata dalla razza bianca e per la razza bianca e ogni tentativo di trasferire il controllo della nazione a favore di razze inferiori come la negra va palesemente contro il volere divino e la Costituzione», recitava il “Credo” che le nuove reclute nel KuKlux-Klan declamavano indossando il cappuccio a cono. Dunque, passami la corda, la torcia, la croce, il fucile, la pistola e sia fatta la volontà di Dio e della Costituzione. Andiamo ad ammazzarci qualche “negro”. Deus le vult.
Ma con i suoi riti mistici, i suoi simboli e costumi da Templari di un grottesco Sacro Impero Bianco nato 150 anni or sono dalla rabbiosa disperazione di reduci Sudisti sconfitti nella Guerra Civile, il Klan è ormai quasi letteratura e poco più che odioso folklore nell’America del 2105, che si ritrova dove si era illusa di non essere più: nella palude tossica del razzismo violento e del suprematismo bianco. Dall’elementare segregazionismo predicato nelle “Klaverne” degli incappucciati, come loro stessi battezzano le loro sezioni, sono sgorgati centinaia di rivoli, 784 gruppi e gruppuscoli secondo il Centro per lo Studio della Povertà nel Sud che tenta impossibili censimenti. E non può dunque identificare predatori solitari e micidiali come il ragazzo di Charleston che da solo voleva lanciare la guerra fra le razze.
Eppure il “profilo” di Dylann Roof, l’Angelo Vendicatore dei bianchi minacciati, corre riconoscibile attraverso tutte le cellule inestirpabili della metastasi generata dal KKK. Che siano 784, che il loro numero sia in diminuzione rispetto al picco di 1018 gruppi del 2011, è soltanto un’approssimazione statistica. L’aggressività, la virulenza sono in aumento e almeno cento negli ultimi cinque anni sono state le vittime di “hate killings”, di omicidi condotti per puro odio razziale. Inclusi ebrei, sempre ben presenti nella mitologia del “Bianco Anglosassone Protestante” insidiato da afroamericani, “razze inferiori” assortite, “meticci”, “latinos”, omosessuali. Da chiunque non corrisponda all’ideale del perfetto “ariano” americanizzato.
Non importa che indossino uniformi paramilitari con camice brune o nere come la “Aryan Nation”, il gruppo suprematista più conosciuto e di dichiarata ispirazione nazista e fascista, insieme con gli Skinheads. Che si nascondano dietro la quasi universale e blasfema etichetta “Cristiana”. Che ricorrano al nuovo strumento di comunicazione e di relazione offerto da Internet, che ha prodotto “Stormfront”, con l’ovvia allusione allo “Sturm” delle truppe scelte naziste, una sorta di Facebook dell’odio razziale, con 300mila “amici” fra i quali fece la propria apparizione anche Anders Breivik, lo stragista norvegese. Il percorso umano e psicologico degli aderenti è spesso identico.
Si avvicinano a loro giovani, a volte giovanissimi bianchi, molto raramente donne e spesso soltanto per compiacere i loro uomini, travolti nel fallimento della propria vita e nell’“Accumulo di Ferite” come le ha definite un “profiler” dell’FBI, oggi accusata di avere trascurato la violenza dei gruppi di fuoco dell’odio, per fissarsi sulla minaccia del terrorismo che si vuole “islamico”. Vivono quasi sempre soli, o ancora in casa con la madre, rimbalzando fra scuole nelle quali falliscono e che abbandonano quando cozzano contro il muro della crudele socialità dell’adolescenza.
Non sono presi sul serio dai conoscenti, o dalle girlfriends , quando vantano progetti di “guerra” o di assalti armati, proprio come Roof, al quale la famiglia che lo aveva ospitato in una roulotte diceva soltanto che “lui era fuori di testa”, e questa è spesso la miccia che provoca l’esplosione. Usano analgesici oppiacei, spesso ordinati da centri di disintossicazione che poi non frequentano, per attutire il dolore del fallimento che li opprime. E che attribuiscono, invariabilmente, al complotto di neri, banchieri ebrei, politicanti corrotti come Obama l’Africano, decisi a soggiogare la razza superiore. Loro.
L’anno fatale fu il 2008, quando la convergenza della catastrofe economica e l’assunzione di un “negro” al massimo soglio della “loro” America sembrò confermare in un’apoteosi diabolica la dottrina dei suprematisti angosciati. La curva della proliferazione dei tanti piccoli Klan scattò verso l’altro proprio in quei mesi, perché sotto i deliri ideologici c’è sempre la realtà della disoccupazione, delle porte chiuse, del rotolamento fra piccoli e saltuari lavori, friggendo polpette o potando alberi, insidiati anche dai nuovi invasori “bruni” arrivati dal Sud della Frontiera. Si accumulano ferite che non si rimarginano e trovano qualche balsamo soltanto nell’identità del perseguitato che i gruppi offrono e dunque nell’odio per gli invasori, gli usurpatori, i clandestini dalla pelle scura che «stuprano, uccidono, e vivono di elemosina pubblica con i nostri soldi» come recitano i pamphlet della Nazione Aryana.
T.J. Leyden, uno “Skinhead” pentito, già reclutatore di nuovi militanti per il suo gruppo, raccontò i dettagli della vita nel costante stato di paranoia razzista che ossessiona questi gruppi e le loro tecniche. «Andavamo in licei di notte, a scrivere sui muri frasi razziste che il mattino dopo gli studenti avrebbero scoperto. La reazione dei ragazzi afroamericani o latini era garantita. Cercavano di individuare il responsabile ed era naturalmente un ragazzo bianco che veniva isolato, minacciato, ostracizzato. Allora noi lo avvicinavamo e gli spiegavamo che la sua unica via di uscita era di unirsi a noi, perché non era lui a odiare quei negri, quegli asiatici, quei messicani, ma erano loro a odiare lui e a volerlo eliminare. E quando quel ragazzo, o quei ragazzi, cadevano nella trappola della paranoia erano nostri per sempre. Tutta la loro vita diventava semplice e spiegabile: mi odiano perché sono bianco e vogliono impadronirsi della nazione costruita dai miei nonni e padri».
E nell’inferno della confusione e dell’incertezza, fra razze che si mescolano senza fondersi in un crogiolo che ribolle senza fondere, fra sessi che si discutono, fra prediche di politicanti astuti che affondano le grinfie nella madre di tutti gli odi, nella paura, l’identità razziale rimane l’unica certezza. E la pistola, comperata facilmente come un paio di scarpe o un hamburger, l’ultima speranza. Nel nome di Dio e della Patria.