Repubblica 1.6.15
L’antibiotico di Stato
Batteri sempre più resistenti. Malattie che credevamo debellate, come la tubercolosi, che tornano letali
Le medicine attuali sono più efficaci. Ma produrne delle nuove non rende
Si prevedono 10 milioni di vittime nel 2050, così si fa largo un’idea: creare un ente mondiale che garantisca le cure
di Maurizio Ricci
È UNA falla che si allarga sempre più in fretta. Se non la tamponiamo, da qui al 2050 arriverà a costarci 10 milioni di morti l’anno: l’intera popolazione di un paese come la Grecia, spazzata via ogni dodici mesi. Anche più inquietante, forse, è l’idea, fino a ieri inimmaginabile, di essere ridiventati — tutti noi, ognuno di noi — vulnerabili, indifesi.
Malattie per cui i nostri nonni e bisnonni pagavano con la vita e che noi eravamo abituati a risolvere in un paio di settimane, tornano ad essere un incubo. Polmonite, tubercolosi: roba seria, ma, fino a ieri, comunque rimediabile. “Prenda l’antibiotico”, diceva il dottore. Non basta più. I batteri capaci di resistere ai nostri antibiotici sono sempre di più. Già oggi, in Europa, 25mila persone, ogni anno, prendono le loro pillole, ma muoiono lo stesso: un’infezione torna ad essere letale. Ci vorrebbero nuovi medicinali, capaci di distruggere i microbi che i vecchi non combattono più. Ma Big Pharma, da questo orecchio, non ci sente. Niente di quello che è stato scoperto il 1987 è mai arrivato, concretamente, nelle mani dei dottori. E che si fa quando il mercato non funziona? Anche i liberisti di lingua inglese trangugiano il malloppo e lanciano l’Sos: è arrivato il momento dell’antibiotico di Stato.
Nella trappola, ci siamo cacciati da soli, giorno dopo giorno, pillola dopo pillola. Più antibiotici prendiamo, più la selezione naturale individua i microbi che li aggirano. E noi ne prendiamo montagne, comprandoli magari nei supermercati o online, senza ricetta, spesso a sproposito, per uno starnuto, o per eccesso di zelo, per una banale feritina.
Solo fra il 2010 e il 2013, in Inghilterra, il consumo di antibiotici è aumentato del 6 per cento: siamo a 27 dosi quotidiane ogni mille abitanti. Praticamente, una corsia d’ospedale in movimento. E questi sono gli antibiotici che vediamo. Poi, ci sono quelli che non vediamo. Ovvero, quelli distribuiti con generosità negli allevamenti di vacche o maiali, dove ugualmente la selezione naturale promuove i batteri che sopravvivono.
Ma mangiare carne che contiene batteri resistenti agli antibiotici, avverte un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità, porta anche noi a infezioni resistenti agli antibiotici. Ormai, i medici sono sempre più spesso costretti, per sconfiggere la malattia, a ricorrere ai cosiddetti “antibiotici di ultima istanza”, più forti e più costosi. Negli Usa, la diffusione della resistenza agli antibiotici costa 20 miliardi di dollari l’anno di spesa sanitaria in più.
Ma anche questi medicinali possono rivelarsi inutili: ormai, avverte lo stesso rapporto dell’Oms, ci sono ceppi di batteri della tubercolosi e della gonorrea resistenti anche a questi. È diventata, letteralmente, una questione di vita e di morte. Senza antibiotici efficaci, infatti, la medicina moderna non esiste. I trapianti d’organi, come le stesse terapie anticancro, che abbattono le difese immunitarie, non sono pensabili senza una copertura antibiotidopo ca.
Nell’assemblea generale che si è chiusa martedì scorso, l’Oms rilancia l’allarme, chiedendo ai governi piani di emergenza, che riducano drasticamente il ricorso agli antibiotici. Un giro di vite contro le vendite senza ricetta, la promozione di cure alternative, una campagna di sensibilizzazione dei medici e dell’opinione pubblica, possibilmente più ricca e capillare della pubblicità con cui Big Pharma promuove, invece, il consumo degli antibiotici: per le aziende farmaceutiche, un lucroso giro d’affari che vale 40 miliardi di dollari l’anno.
E questa è una prima sorpresa: se il mercato degli antibiotici è così appetitoso, perché le aziende non spingono sul pedale della ricerca e noi stiamo perdendo la corsa con la selezione naturale dei batteri? Non solo antibiotici nuovi non arrivano da tempo, ma neanche arriveranno. All’ultimo conto, i laboratori nel mondo stanno sviluppando 41 nuovi tipi di antibiotici. Solo un terzo, però, sono utili contro le specie di batteri resistenti. E, forse, solo tre sono potenzialmente attivi contro almeno il 90 per cento dei batteri più resistenti che i dottori si trovano ad affrontare attualmente. In sostanza, questi antibiotici sono ancora 10-15 anni lontani dalla vendita al pubblico, ma già sappiamo che non serviranno a chiudere le falle dei bisogni medici di oggi. Non è che a Big Pharma siano scemi. Il problema, anzi, è che conoscono fin troppo bene il loro mestiere. Si scopre, infatti, che esiste una sorta di Comma 22 dell’antibiotico, per cui produrli bisogna, ma non conviene. Inventarli è un processo lungo e costoso: solo il 2-4 per cento arriva dalle prime prove di laboratorio fino agli scaffali delle farmacie. Ma, qui, l’antibiotico non si comporta come le altre medicine. Normalmente, quando arriva un nuovo farmaco, ad esempio contro il colesterolo, spopola perché più efficace dei vecchi concorrenti.
Nel caso degli antibiotici, questo non avviene. Il nuovo medicinale colpisce ceppi di batteri altrimenti resistenti, che possono, però, avere ancora una diffusione circoscritta e limitata. In tutti gli altri casi, i vecchi antibiotici, spesso generici, comunque a prezzi stracciati, funzionano benissimo. Solo man mano che i batteri resistenti ai vecchi medicinali si diffondono — un processo difficile da valutare con 10-15 anni di anticipo, al momento di iniziare una ricerca — il nuovo antibiotico diventa utile e indispensabile. Ma, nel frattempo, possono essere passati anni, il brevetto del nuovo farmaco sta per scadere e, in ultima analisi, l’azienda non fa in tempo a fare abbastanza profitti da coprire i costi della ricerca. Dunque, non la inizia neanche.
Come si esce da questo vicolo cieco? Il documento approvato martedì dall’Oms lancia una proposta rivoluzionaria: bisogna trovare il modo di sganciare i profitti dalle vendite. Ma come, senza espropriare e nazionalizzare le aziende farmaceutiche? La risposta, lontana da ogni tentazione collettivista, ma anche dall’ortodossia liberista, arriva da un rapporto stilato per conto del governo inglese (conservatore) di David Cameron da un gruppo di lavoro presieduto da un ex di Goldman Sachs, Jim O’Neill. E l’idea è una sorta di Onu del farmaco, un organismo pubblico sovranazionale che si sostituisca al mercato e controlli le vendite. Questo organismo comprerebbe dalle aziende i diritti commerciali di un nuovo antibiotico, riservandosi di venderli in prima persona.
Big Pharma, in altre parole, lavorerebbe, in questo settore, per un unico acquirente pubblico. I rischi della ricerca resterebbero sull’azienda. Il grosso del pagamento, infatti, avverrebbe solo due-tre anni dopo che il prodotto è arrivato sul mercato e ha potuto dimostrare la sua utilità. Big Pharma avrebbe, però, la garanzia (se il prodotto funziona) di un profitto certo e prestabilito. Il rapporto valuta che per un nuovo antibiotico efficace, l’organismo sovranazionale potrebbe pagare fra i 2 e i 3 miliardi di dollari. All’azienda conviene: 2 miliardi di dollari incassati all’inizio della vita commerciale di un prodotto equivalgono a quasi 7 miliardi di fatturato sull’intero arco ventennale di durata del brevetto. Ma conviene anche ai governi: normalmente, per le forniture di un antibiotico, i sistemi sanitari pagano, finché è in vigore il brevetto, anche più di 2-3 miliardi di dollari.
Alternativamente, il rapporto di O’Neill prevede una soluzione meno drastica: l’organismo nazionale anticiperebbe una somma più bassa (fra 1 e 1,3 miliardi di dollari) per un nuovo antibiotico, ma sarebbe l’azienda a venderlo e a incassare, girando una parte dei profitti ai governi finanziatori.