Repubblica 19.6.15
Perché Matteo è costretto a ribaltare il Campidoglio
Il premier che sembra aver perduto il tocco magico deve tornare alle origini
Spingere Marino alle dimissioni è una scelta che oggi appare irrinunciabile
Puntare tutto su se stesso è però una scommessa che sfiora la temerarietà
di Stefano Folli
Molti si domandano cosa significhi il ritorno alle origini del premier, la riscoperta del mitico “Renzi Uno”. C’è un aspetto psicologico da non sottovalutare: tutti i leader in difficoltà, soprattutto se si sono costruiti la fama di decisori, vorrebbero rinverdire i fasti dell’inizio, quando tutto appariva più facile e i primi successi erano inebrianti. Chi non ricorda il Berlusconi del declino, convinto di poter ritrovare lo “spirito del ‘94”? E ci sono esempi ben più drammatici nella storia del Novecento italiano. La differenza è che Renzi è giovane e governa da poco più di un anno. Non si giustificano quindi certe nostalgie venate di auto- commiserazione, ma si può comprendere il desiderio di ritrovare il “tocco magico” dei primi mesi. Il premier conta solo su se stesso per riallacciare il rapporto con l’opinione pubblica. Un rapporto che vive di momenti simbolici destinati a radicarsi nel sentimento collettivo. È una formula che concede molto al populismo, sia pure in versione morbida. Gli 80 euro furono uno di tali passaggi. E ora c’è il caso Marino.
Non si capisce il Renzi post-elettorale, inquieto di fronte all’apparente ondata leghista e grillina, se si sottovaluta la paura del ciclo infernale innescato dalle inchieste romane. È l’angoscia per il veleno che dal Campidoglio, giorno dopo giorno, si spande lontano da Roma, fra i ceti che dovrebbero sostenere il governo rinnovatore. Costringere Marino alle dimissioni, per ragioni politiche e non legate all’inchiesta, rappresenta allora per Renzi uno di quei momenti simbolici irrinunciabili. Una catapulta in grado di rispedire in cielo la stella appannata del “renzismo”. Per imporre la sua volontà - con pochi dubbi sull’esito finale - egli non esita a entrare in urto con esponenti del Pd che pure lo hanno sempre assecondato, come Orfini. E non ha incertezze nel rinnegare lo strumento delle primarie, pur alla base delle sue fortune. È la prova che il Partito Democratico, nella forma attuale, interessa sempre meno al suo segretario. Ai suoi occhi, ribaltare Roma significa trasmettere il messaggio che il Pd, con i suoi ritardi e i candidati inadeguati, non è più motivo di intralcio: il futuro si identifica nel partito personale, a immagine del leader.
È realistico questo disegno o è il tentativo un po’ goffo di uscire dalla crisi con qualche effetto speciale? C’è chi ritiene che Renzi stia cedendo al cosiddetto “circo mediatico-giudiziario”. Ma per la verità il premier non si è mai dichiarato estraneo allo spirito dei tempi. Il suo problema è il consenso che sente scivolargli via fra le dita. E per recuperarlo è pronto a sacrificare non uno, ma dieci Ignazio Marino. Tanto più che l’affare della Campania, ossia il governatore De Luca che non può governare, è un’altra fonte di imbarazzo. Escludere Marino a Roma, benché innocente, significa, nella mente di Renzi, bilanciare gli effetti della vicenda De Luca.
Certo, puntare di nuovo tutto su se stesso è una scommessa persino temeraria. Presuppone che la personalità del leader riesca ad appianare tutti gli ostacoli in Parlamento, annichilendo gli oppositori interni e ignorando i fermenti fra i centristi. Non a caso in tale prospettiva è essenziale vincere nelle grandi città dove si voterà in primavera. A cominciare da Roma, ovviamente, perché una vittoria “grillina” o della destra nella capitale sarebbe funesta per l’avvenire del “renzismo”. E c’è di più. Il referendum confermativo sulla riforma costituzionale del Senato è da tempo una pietra angolare nella strategia renziana. Una sorta di plebiscito e di consacrazione come leader carismatico. Ma chi può garantire che la riforma si chiuderà in tempi utili per inaugurare la stagione referendaria? Chi vuole rimetter mano all’Italicum ha tutto l’interesse a frenare o insabbiare la legge costituzionale. La partita è appena cominciata e non si svolge solo all’ombra del Campidoglio.