mercoledì 17 giugno 2015

Repubblica 17.6.15
Il Grande gioco che ci condanna alla sconfitta
Tra passato e presente, l’infinita partita a scacchi dell’Occidente in Afghanistan vista dallo storico William Dalrymple:
“Oggi ripetiamo gli errori di oltre un secolo e mezzo fa”
di Enrico Franceschini


LONDRA La storia si ripete. Nel 1839 una grande armata della nazione più potente della terra, l’Impero britannico, invade l’Afghanistan per insediare a Kabul un sovrano fantoccio e contrastare l’espansione russa in Asia Centrale: è l’inizio del “Grande gioco”, cinica e brutale partita a scacchi fra le grandi potenze occidentali per il controllo della regione, immortalata da Kipling in “Kim”. Ma è anche la prima di una serie di disastrose spedizioni militari straniere fra le montagne di quel meraviglioso e complicato paese, proseguite con quella sovietica nel 1979 e quella americana nel 2001. William Dalrymple, storico e scrittore scozzese, uno dei più sofisticati conoscitori dell’Oriente, dove vive da decenni, racconta in “Il ritorno di un re” (Adelphi) una fallimentare
guerra di un secolo e mezzo fa che suona come una lezione per i conflitti odierni. Il re fantoccio insediato dagli inglesi fu deposto dai predecessori del re afgano che visse a lungo in esilio a Roma e che gli Usa riportarono a Kabul dopo la loro invasione: come se l’Occidente fosse eternamente prigioniero del proprio complesso di superiorità.
Signor Dalrymple, la spedizione militare britannica che invase l’Afghanistan era potente quanto quella americana e Nato del 2001?
«In proporzione era ancora più potente. L’Impero britannico dell’epoca stava raggiungendo il suo apogeo. L’India era pressoché conquistata. E gli afgani non avevano la reputazione di popolo fiero, indomito e guerriero che hanno oggi».
Eppure gli inglesi persero. Come mai?
«Per le stesse ragioni che hanno portato alla odierna sconfitta in Afghanistan. Eccesso di fiducia. Difetto di attenzione. E una nuova guerra come fonte di distrazione».
Cosa accadde in sostanza?
«I paralleli con il presente sono impressionanti. La spedizione britannica ottenne una rapida vittoria sul campo, lo stesso risultato del 2001. A quel punto i britannici, come poi gli americani, hanno pensato che la partita fosse finita. Non hanno pensato alle complessità del paese diviso da rivalità tribali. E hanno subito intrapreso una nuova impresa militare: la guerra dell’oppio in Cina, allora, o l’invasione dell’Iraq nel 2003, lasciando poche guarnigioni a Kabul mentre sulle montagne i ribelli si riorganizzavano».
Né Bush, né Blair studiarono la disastrosa esperienza britannica del 1842?
«Almeno Blair, da britannico, avrebbe dovuto conoscerla. E c’era una lezione più recente: la sconfitta dell’Unione Sovietica, che aveva invaso l’Afghanistan, conquistato il paese, per poi perderne gradualmente il controllo. So che un ambasciatore britannico a Kabul tornò apposta a Londra per avvertire: nessun impero o esercito straniero ha mai vinto in Afghanistan. Ma non gli diedero retta».
Se Londra o Washington la
chiamassero a dare consigli, cosa direbbe?
«Mi hanno chiamato. Ho fatto rapporto allo staff di Obama alla Casa Bianca. Ho dato consigli elementari: studiate la storia del paese, non spostate le risorse militari ed economiche verso altri conflitti, usate la diplomazia più delle bombe».
In Occidente c’è chi pensa all’Afghanistan come un luogo barbaro e incivile.
«Niente di più falso. È un paese che ha avuto un Rinascimento simile a quello dei Medici in Italia e che era tra i più avanzati dell’Asia. Guerre intestine, invasioni straniere, estremismo religioso, ne hanno limitato lo sviluppo, ma ha ancora oggi un’identità di cui andare orgoglioso. E in cui la resistenza contro l’Impero britannico nel 1842 viene ricordata come gli italiani celebrano Garibaldi e gli scozzesi Braveheart».
Il 9 settembre 2001, due giorni prima dell’attacco all’America dell’11 settembre, a Kabul fu assassinato Ahmed Massud, il leggendario “leone del Pashmir”, forse il maggior responsabile della sconfitta sovietica: la storia sarebbe stata diversa, con Massud vivo?
«Il suo assassinio e l’attacco all’America erano certamente collegati. Però Massud, era un tagiko, non apparteneva ai Pashtun, che in Afghanistan sono la maggioranza. Non poteva diventare un leader politico».
Era giusto invadere l’Afghanistan nel 2001?
«Era inevitabile, dopo l’attacco all’America ordito da al Qaeda che stava a Kabul protetta dal governo locale. Ma una volta cacciata al Qaeda non aveva senso rimanere in Afghanistan così a lungo, per di più senza fare le cose necessarie».
Se nel suo libro c’è una morale, è che i movimenti in lotta per liberare il proprio paese da un invasore straniero prevalgono sempre .
«Una volta un combattente afgano mi disse: gli stranieri vengono, stuprano le donne, uccidono i bambini, bruciano i villaggi, ma noi non abbiamo bisogno di sconfiggerli, basta che gli rompiamo i denti e gli rendiamo la vita impossibile».
Prevede che i Taliban, rotti i denti agli americani, torneranno al potere a Kabul?
«A Kabul forse no, perché sono una forza con base rurale, nelle città non riescono a imporsi, ma a un certo punto sarà necessario un accordo di compromesso con loro».
Nel lungo termine, insomma, il vecchio “Grande gioco” potrebbe trovare una soluzione anche in Afghanistan?
«Potrebbe. Ma il Grande gioco lo conducono i diplomatici, non i soldati: sarà una partita da giocare politicamente».