mercoledì 17 giugno 2015

Corriere 17.6.15
Giolitti. Una riforma elettorale per il voto agli analfabeti
risponde Sergio Romano


Sosteneva Montanelli che «... come forza politica militante per la conquista del potere, il liberalismo è finito con l’epoca del suffragio diretto» (Stanza del 27/6/2001). Si può essere d’accordo o in disaccordo con quest’idea. Rimane tuttavia un dubbio. Come mai Giolitti, che — secondo alcuni — è stato fra i più illuminati governanti liberali che l’Italia abbia avuto, sapendo che il suffragio generalizzato avrebbe affossato il suo stesso partito, si batté per il proprio... suicidio politico?
Lorenzo Milanesi

Caro Milanesi,
È vero che Giolitti fu dapprima contrario all’estensione del suffragio. Quando due deputati meridionali, nel 1908, sostennero che il suffragio universale avrebbe dato un forte contributo allo sviluppo del Mezzogiorno, Giolitti replicò che il voto agli analfabeti e alle «masse ignoranti» avrebbe favorito non tanto la sinistra socialista quanto la destra cattolica. Ma nel 1911, mentre una commissione del Parlamento stava studiano un progetto di legge elettorale presentato dal governo Luzzatti, Giolitti cambiò opinione e dichiarò che al grande processo sociale realizzato dal Pese negli anni precedenti corrispondeva il diritto delle masse «a una più ampia partecipazione nella vita politica del Paese». Le due posizioni, espresse a tre anni di distanza, erano altrettanto fondate. Era vero che l’Italia, nel primo decennio del Novecento, era straordinariamente cambiata. Ma era altrettanto vero che gli analfabeti erano ancora, grosso modo, la metà della popolazione e che agli inizi del secolo il 39,42% degli sposi dichiarava, al momento del matrimonio, di non sapere né leggere né scrivere. Era lecito chiedersi quale uso i nuovi elettori avrebbero fatto del loro diritto di voto. Avrebbero votato per il candidato socialista, per il candidato cattolico o, più semplicemente, soprattutto al sud, per quello che avrebbe saputo meglio comprare il loro voto?
Ma Giolitti era giunto alla conclusione che l’ora del suffragio universale era arrivata e che la riforma non poteva essere fatta gradualmente, «per acconti». Aveva un grande obiettivo: convincere i socialisti a uscire dalla loro condizione di oppositori «a priori» e coinvolgerli nel governo della nazione. Non appena ebbe l’incarico di formare un nuovo governo, spiegò agli amici politici che la nuova legge proposta alla Camere avrebbe dato il voto a tutti gli uomini, ancorché analfabeti, purché avessero fatto il servizio militare o compiuto trent’anni. Aggiunse che il suo governo avrebbe preso un altro provvedimento destinato a migliorare le condizioni dei ceti sociali meno favoriti: l’istituzione di un monopolio di Stato per le assicurazioni sulla vita che avrebbe devoluto i propri utili alle casse di previdenza per le pensioni operaie. La nuova legge elettorale avrebbe quasi triplicato il numero degli elettori (da tre milioni e mezzo a quasi nove), mentre quella per le assicurazioni sulla vita avrebbe gettato le basi di un sistema pensionistico nazionale. Interpellati e invitati a governare con lui, i socialisti presero paura. Temevano che l’alleanza con Giolitti li avrebbe compromessi di fronte alla classe operaia.
La nuova legge elettorale fu approvata dal Parlamento il 25 maggio 1912 e le elezioni ebbero luogo il 26 ottobre. Per contenere la prevista avanzata dei socialisti, Giolitti aveva concluso una sorta di alleanza con il conte Gentiloni, esponente del mondo cattolico: gli elettori cattolici avrebbe dato il loro voto ai candidati liberali purché s’impegnassero a difendere la scuola privata e a votare contro eventuali progetti per l’introduzione del divorzio.
Quando le urne furono aperte, gli italiani appresero che le diverse famiglie socialiste avevano quasi raddoppiato, con 79 deputati, la loro presenza, alla Camera, che i cattolici avevano conquistato una piccola ma significativa presenza parlamentare e che i liberali di Giolitti avevano perduto qualche seggio, ma erano pur sempre maggioranza.