Repubblica 17.6.15
Il fantasma delle elezioni
Il premier ritiene che la sconfitta sia stata determinata da un deficit di “renzismo”
di Claudio Tito
NESSUNO le vuole. Tutti le considerano un’ipotesi da respingere. Dal centrosinistra al centrodestra. Eppure sembra tornare a soffiare quello strano vento che in passato ha portato a elezioni anticipate anche contro la volontà dei protagonisti interessati. In politica spesso gli eventi si verificano per una sorta di preterintenzionalità. E in questa fase la possibile interruzione della legislatura rientrebbe in questa casistica.
DI CERTO l’appuntamento del 2018 appare in questo momento molto meno scontato. Il nucleo di questa eventualià risiede per intero in ciò che ha detto il presidente del Consiglio Renzi commentando i risultati degli ultimi ballottaggi. Il segretario-premier vuole un ritorno alle origini. Ritiene che la sconfitta subita in questa tornata sia stata determinata da un deficit di “renzismo”. Ma, allora, se questa premessa ha delle logiche conseguenze, bisognerà aspettarsi che su ogni singolo problema che sta investendo l’esecutivo, il capo del governo risponda con uno scatto o uno strappo. Nei primi nove mesi del suo mandato, sull’onda della novità e della richiesta di cambiamento, ha agito così. Lo ha fatto, ad esempio, sul Jobs act e in parte sulla legge elettorale. Ha sfidato il Parlamento e anche il suo stesso partito. Per imporre la sua linea anche a costo di rimetterci la poltrona. Anzi mettendo all’incanto proprio la sua poltrona e alzando sistematicamente il prezzo in termini di decisioni, di riforme, di provvedimenti. Mantenendo costantemente sul tavolo la sua unica vera arma: le elezioni anticipate. I gruppi parlamentari, le forze di opposizione sapevano o percepivano che se una legge o un direttiva veniva bloccata, l’effetto immediato non poteva che era essere il voto. Si trattava di una permanente resa dei conti con i senatori e i deputati del suo partito che non aderivano alla sua linea. Se Renzi pensa davvero di rispolverare il “rottamatore originario”, allora dovrà ricaricare quell’arma. Senza la minaccia di ripresentarsi — nel suo caso di presentarsi — davanti agli elettori, la sua aspirazione diventa una pistola scarica.
Del resto, i sondaggi sono abbastanza chiari. La popolarità di Renzi è ai minimi storici. E anche la ripresa economica non viene attribuita dall’opinione pubblica alle misure di Palazzo Chigi. L’immagine si è appannata per una serie di motivi. Il leader dem è convinto che il fattore principale sia stato lo scemare della spinta iniziale a risolvere i problemi anche con tempi e modalità stringenti. Ora ha davanti a sé tre questioni: la riforma della scuola, quella costituzionale e l’emergenza immigrazione. Se sull’ultimo punto la partita si disputa in Europa, sugli altri due il campo di gioco è il Senato. Dove la sua maggioranza è a dir poco risicata e dipendente della sinistra democratica. Tornare al Renzi della prima ora, significa forzare e probabilmente non mediare con la minoranza del Pd e con i sindacati. Al di là della valutazione nel merito, questo comporta una scelta: essere pronto anche al precipitare degli eventi.
Nella strategia del rottamatore, infatti, questo è l’unico modo per rompere gli schemi e conquistare quote di elettorato in passato poco attratto dal Pd. Ma può essere anche un modo per prendere in contropiede i suoi futuri competitor elettorali. Votare nei prossimi mesi significa lasciare il centrodestra in mezzo a un guado: non più berlusconiano e non ancora salviniano. E nello stesso tempo fare i conti con un M5S non ancora pienamente competitivo. «Contro Berlusconi — ha detto in questi giorni il premier — vinco io. Contro Salvini vinco io. Contro Grillo vinco io. Contro un futuro signor Rossi... non lo so». Certo, si tratterebbe comunque di un azzardo. L’Italicum ad esempio entra in vigore nella seconda metà del 2016 e se si andasse alle urne prima della riforma costituzionale, anche al Senato si voterebbe con il cosiddetto Consultellum, un sistema interamente proporzionale corretto da uno sbarramento molto alto. La sfida per Renzi sarebbe dunque pericolosissima. Ma l’azzardo è stato la carta principale giocata dal Renzi della prima ora. È stato imprudente candidarsi alla provincia di Firenze, poi alle primarie per Palazzo Vecchio e quindi a quelle per guidare il Partito Democratico.
La strada alternativa probabilmente è una sola. Rinviare, come ha fatto con la Buona scuola, i nodi più intricati. Lasciare momentaneamente in sospeso la riforma costituzionale e aspettare che la ripresa economica offra ai cittadini segni più tangibili. Ma questa opzione contempla una necessità: ricucire con la sinistra del suo partito o ricomporre i cocci del vecchio Patto del Nazareno. Solo così il Renzi della “terza ora” e non della prima potrebbe tentare di riaprire per le riforme un sentiero praticabile e senza rischi. Berlusconi fino a pochi giorni fa aveva un solo obiettivo: evitare il voto anticipate. Chiedeva tempo per ricostruire la sua immagine e per ridefinire i confini del centrodestra. Ma forse, dopo questo turno amministrativo, quei tempi si stanno riducendo.
È vero che i precedenti non rappresentano un buon viatico per il premier. In genere chi chiede le elezioni, poi non ottiene risultati positivi. Ma nello stesso tempo il segretario democratico sembra avvertire un rischio più grave: quello di impantanarsi nella palude della paralisi.