mercoledì 17 giugno 2015

Repubblica 17.6.15
Enrico Rossi
“Vince chi occupa il centro? Solo se non perde a sinistra”
Il partito della nazione per il Pd finisce prima di cominciare Il rapporto con le forze sociali è vitale
intervista di Simona Poli


FIRENZE. «Il partito della nazione? Per il Pd finisce prima di cominciare. È il caso invece di provare ad essere il partito della sinistra nuova ». Enrico Rossi, governatore della Toscana rieletto col 48 per cento, apre una discussione sulla natura e il destino dei Democratici.
Renzi dice che l’Italia è un paese moderato dove vince chi occupa il centro.
«E io aggiungo che vince chi occupa il centro ma non perde a sinistra. Sarebbe un grave errore ignorare la delusione che emerge dall’astensione record e dai tanti segnali di disagio della società».
Alle Europee il Pd aveva fatto centro. Che è successo poi?
«Allora era stata importante la forza innovativa del leader ma ancora più decisiva la scelta di stampo laburista degli 80 euro in busta paga. Dopo un anno di riforme è inevitabile scontentare parte dell’elettorato ma non bisogna accentuare la frattura».
Pensa a scuola e sindacati?
«Il rapporto con i sindacati è vitale per una forza di sinistra, non perché si debba sempre dare ragione a loro ma perché sono importanti. Il Pd deve costruirsi un’idea delle forze sociali con cui dialogare prioritariamente. Esiste un mondo del lavoro che è fatto di capitani di industria che investono sull’innovazione e di lavoro dipendente. Vorrei che nelle fabbriche si parlasse di introdurre modelli di cogestione e compartecipazione, i tempi ormai sono maturi in un paese vocato all’export. Queste elezioni denunciano la necessità di avere un profilo culturale più forte in campo sociale. Non è un caso che tutti aspettiamo l’enciclica del Papa. Anche la politica ha bisogno di avere una filosofia alle spalle. E il centrodestra vince ancora perché è capace di conservare la sua egemonia culturale di fronte ad emergenze come quella dell’immigrazione».
Il Pd paga le sue divisioni?
«Sono contrario alle divisioni, è giusto discutere ma poi ci si adegui al voto della maggioranza. Altrimenti non siamo un partito. Servono organi dirigenti più snelli, un maggiore radicamento nel territorio e un vero coinvolgimento degli iscritti. Per me non va bene il partito all’americana che lavora in vista delle primarie e delle elezioni. Io penso a un “partito comunità” di impronta olivettiana che sia un corpo intermedio tra individuo e Stato. Un partito di fede e di militanza fondato su valori condivisi, che mantenga un carattere di leggerezza ma non diventi mai volatile»