Repubblica 16.6.15
La ricchezza giusta per la sinistra
di Mariana Mazzuccato
UNA TEORIA sulle ragioni della sconfitta del Partito laburista alle elezioni britanniche comincia a prendere piede. Ma è una teoria sbagliata. Per quelli che basano le loro previsioni sui sondaggi, il risultato è stato una sorpresa. Meno per quelli che hanno seguito il Labour negli ultimi anni. Per molti aspetti il partito laburista proponeva una versione light del Partito conservatore: «Anche noi vogliamo ridurre il disavanzo, ma meno».
ANCHE noi pensiamo che l’immigrazione sia un problema e vogliamo far entrare meno immigrati, ma più dei Tories». In altre parole, i laburisti non hanno fatto nessuno sforzo serio per elaborare una visione che spiegasse perché lasciar crescere il disavanzo ora può essere la chiave per la crescita futura: si guardi agli Stati Uniti, che nel 2009 hanno avuto un disavanzo del 10 per cento e oggi crescono più di qualsiasi Paese europeo che ha tenuto i conti pubblici in attivo. E nessun tentativo serio di spiegare perché l’immigrazione è uno dei maggiori punti di forza dell’economia britannica: attira capitale umano e rende meno insulare e provinciale la nostra mentalità.
Ma forse la parte più tragica della storia è quello che è successo dopo le elezioni. Il Labour si sta giustamente interrogando ma le risposte che sta trovando sono a loro volta versioni light della visione conservatrice. Sentiamo dire da Tony Blair, da Chuka Umunna (ministro ombra dell’Industria, spesso chiamato l’Obama inglese, che si è ritirato dalla corsa per prendere il posto di Miliband) e da Liz Kendall (che a quella corsa partecipa ed è una delle favorite) che il Labour ha perso perché non ha abbracciato il mondo delle imprese: cioè non è stato, come si usa dire, abbastanza business friendly . E questo mondo come lo hanno chiamato? Il mondo dei «creatori di ricchezza».
Le imprese “creatrici di ricchezza”? Quali imprese? Va detto che nel 2011 Miliband cercò di distinguere fra le imprese che creano effettivamente valore per l’economia e quelle che si limitano solo a estrarre valore: il capitalismo produttivo contro il capitalismo predatorio, secondo la sua definizione. Ma Miliband fu immediatamente messo a tacere dal suo stesso partito: le sue affermazioni suonavano «anti-impresa». È un peccato, perché se avesse continuato su quella strada forse oggi il Labour non si troverebbe in questa situazione. Il
Guardian/Observer nel 2014 mi ha etichettata come una dei guru del Partito laburista — ma posso immodestamente dire che se davvero fossi stata un punto di riferimento il Labour non avrebbe fatto questo errore. Nei miei libri faccio molta attenzione a non parlare di “imprese” — settore privato o settore pubblico — ma di un particolare tipo di settore privato di cui abbiamo bisogno, di un particolare tipo di settore pubblico, e di un particolare tipo di rapporto, in termini di “ecosistema”, fra di essi. Limitarsi a parlare delle imprese come creatrici di ricchezza non c’entra nulla con il punto in questione: anzi, lo contraddice.
Perché è importante questa distinzione? Perché il capitalismo produttivo è un capitalismo in cui le imprese, lo Stato e i lavoratori operano insieme per creare ricchezza. Sono cioè tutti potenziali creatori di ricchezza. Gli emblemi di ricchezza nella moderna economia della conoscenza, dall’iPhone alla Tesla S, hanno tutti fatto leva su un settore pubblico strategico, disposto a farsi carico dei rischi e delle incertezze maggiori lavorando fianco a fianco con un settore privato disposto a reinvestire i suoi profitti nelle aree «a valle», come ricerca e sviluppo o la formazione del capitale umano. Oggi sono a rischio entrambi. Da una parte un settore pubblico timoroso, che cede agli appelli a introdurre ancora più austerity, che discute delle dimensioni del disavanzo invece che della composizione del disavanzo, che parla solo di limiti allo spending e non di investimento strategico. E dall’altra un settore privato ultra-finanziarizzato, che spende più per riacquistare le proprie azioni che in ricerca e sviluppo e formazione del capitale umano.
I lavoratori, naturalmente, sono anche loro creatori di ricchezza, non solo per il contributo che offrono, con il loro capitale umano, alla produzione di nuovi prodotti e servizi, ma anche perché, nel capitalismo moderno, si assumono a loro volta dei rischi, avendo scarse garanzie di un lavoro permanente e potendo trovarsi a fare molti sacrifici.
La ricchezza è insomma frutto di un lavoro collettivo, decentralizzato, con diversi attori pubblici, privati, individui e organizzazioni. È l’assenza di questo punto di vista ad aver creato una relazione disfunzionale tra imprese e Stato. Le imprese, presentandosi come le (sole) creatrici di ricchezza, hanno convinto sia i tories che i laburisti a introdurre misure come la patent box (le agevolazioni fiscali sui guadagni legati ai brevetti, che si stanno diffondendo in quasi tutti i Paesi europei incluso l’Italia) che non accrescono in alcun modo l’innovazione (i brevetti sono già un monopolio garantito per 20 anni) ma servono solo a far diminuire il tax revenue pubblico ed aumentare la disuguaglianza. Ed è stato proprio il Labour a ridurre da dieci a due anni la durata degli investimenti di private equity necessaria per ottenere una cospicua riduzione delle tasse. È possibile immaginare politiche più filo-impresa di queste?
Simili politiche disfunzionali sono spesso state motivate dal desiderio di rendere l’economia più innovativa e competitiva. Ma in pratica sia il Labour che i Tories si sono limitati ai soliti discorsi sul dare più risorse alle piccole imprese cosa che ha poco senso quando la maggior parte delle piccole imprese sono poco innovative, poco produttive e creano anche poco lavoro. Le poche piccole imprese di valore hanno bisogno di un enorme appoggio pubblico, come quello che ricevono negli Usa, ed anche di una relazione più simbiotica con le grandi imprese. La cosa migliore che qualsiasi governo potrebbe fare per le piccole imprese è insistere perché le grandi imprese comincino a investire di più, rendendo maggiormente dinamico e mutualistico il rapporto con le imprese più piccole loro fornitrici. Ma questo vuole dire appunto mettere pressione sane sulle imprese: non essere solo timidamente friendly.
Fino a quando il Partito laburista — e qualsiasi partito progressista — non imparerà a discutere in modo serio di questi argomenti continuerà a perdere. Oggi un nuovo leader laburista ha l’opportunità concreta per elaborare una visione più ambiziosa di come si fa a creare ricchezza — invece di proporre una versione più contrita della visione conservatrice. E questa visione più coraggiosa — della ricchezza di una nazione creata da tutti, e non solo dalle imprese — può servire anche a costruire fondamenta più solide per lo Stato sociale (che storicamente ha aumentato le opportunità per tutti), finanziato non più solo dal contribuente volenteroso, ma anche attraverso i profitti condivisi delle fatiche di tutti i creatori di ricchezza.
Traduzione di Fabio Galimberti