sabato 13 giugno 2015

Repubblica 13.6.15
Selahttin Demirtas
Parla il leader del partito Hdp, il volto nuovo del Paese dopo le elezioni: “Il mio è il successo di tutte le identità e degli oppressi. Molti sono stati uccisi, ma la gente non si è piegata. Ora voglio una nazione democratica e pluralista”
“Dai curdi ai ragazzi di Gezi Park così abbiamo fermato Erdogan”
di Marco Ansaldo


DIYARBAKIR «LA nostra vittoria non è solo dei curdi. E’ un successo per tutte le identità e gli oppressi. Se non fossimo riusciti a fermare il partito al potere in Turchia, i rischi provenienti dalla guerra civile in Siria adesso sarebbero più forti. Ora invece c’è un equilibrio di forze, e siamo fiduciosi per il futuro della Turchia e di tutta la regione. La strada per creare un Paese più pacifico in Medio Oriente, capace di affrontare una soluzione per la questione curda, è aperta» .
E’ il volto nuovo della Turchia. L’immagine fresca di un potere moderato, capace però di oltrepassare l’altissimo sbarramento elettorale necessario per entrare in Parlamento (il 10 per cento), e di costituire ora l’opposizione più credibile al partito conservatore di origine islamica che guida il Paese da 13 anni. Ma per Selahattin Demirtas, il giovane leader del Partito democratico del popolo (Hdp), non hanno votato solo i curdi, ma molti turchi liberali, oltre che i ragazzi usciti dalla rivolta di Gezi Park, e le donne affascinate da un politico diverso per queste latitudini, dotato di ottima oratoria sì, ma di fronte all’aggressività imperante anche di una buona dose di humour.
L’ufficio dove Demirtas, 42 anni, avvocato impegnato nella difesa dei diritti umani, riceve La Repubblica è poco fuori il centro di Diyarbakir, il capoluogo del Kurdistan turco. Qui i curdi hanno festeggiato il loro risultato storico, uscito domenica scorsa dalle urne. Tra i suoi fedelissimi però c’è cautela, e un certo grado di tensione. Demirtas gira con le guardie del corpo. Perché la partita politica che si gioca nella regione curda adesso è determinante per tutto il Paese. E gli scontri quotidiani e i morti in un’area attraversata dai jihadisti del Califfato islamico e dai temibili Hezbollah, scandiscono le ore di una trattativa serrata per la costituzione del nuovo governo. Con la prospettiva di nuove elezioni anticipate. Seduto dietro la sua scrivania di legno scuro, il leader curdo si alza, sposta la bandiera con il simbolo del partito, un albero verde che apre le sue foglie come mani — un’immagine che richiama i platani difesi dalla gente durante la protesta del parco Gezi a Istanbul — e posa sorridente per una foto ricordo.
Selahattin Demirtas, la sua affermazione nelle urne ha sorpreso molti, soprattutto per la consistenza dei voti raggiunti, il 13,1 per cento, mai ricevuto da un partito curdo. A che cosa attribuisce questo consenso?
«Siamo riusciti a ottenere un risultato in grado di creare effetti non solo in Turchia, ma in tutta l’area circostante e nel mondo. Prima di tutto, abbiamo fermato le ambizioni di regime di Recep Tayyip Erdogan. Com’è ovvio sosteniamo poi un sistema democratico, pluralistico e multi—etnico» .
Vi siete in parte impadroniti anche delle richieste ambientaliste e di rispetto per i diritti umani emerse durante la rivolta Gezi Park?
«Sì, è vero. Quello spirito di resistenza guardava a una vita nuova, alla libertà. Soprattutto quei ragazzi, i portatori dello “spirito di Gezi Park”, non hanno accettato la repressione, non si sono piegati alle minacce. Molta gente è stata uccisa, ma la resistenza non si è ritirata. Tutto questo alle elezioni si è riflesso sul nostro partito e ha contribuito al nostro successo» .
Nel 2002 molti turchi credettero in Erdogan, l’uomo nuovo, e lo votarono. Ora sembra che tocchi a lei. Non sente una grande responsabilità, visto che in questo momento ha addosso l’attenzione dell’Europa e del mondo?
«Quando Erdogan vinse quelle elezioni, allora, rappresentava un segmento di popolazione rimasta oppressa in Turchia per lungo tempo. Era quella islamica, ma dotata di un’espressione libertaria, capace di parlare di diritti umani e democrazia, e critica con lo status quo. Furono in grado di guadagnarsi anche il sostegno di pensatori liberali, dei democratici e persino di quelli di sinistra. Ma quando nel 2007 il suo partito è diventato più forte, ha cominciato a non sostenere più quel segmento sociale, il suo vero volto è venuto fuori. Erdogan si è trasformato in un lupo mannaro. Ha sorpreso tutti. Il regime si è trasformato in quello che ci ricordava il vecchio status quo, autoritario, repressivo, dittatoriale. E il movimento curdo, che è più radicato, ha cominciato a essere riconosciuto anche oltre i suoi spazi. Il nostro approccio non si basa sugli individui, ma sul partito, sulle istituzioni e sui programmi» .
E pensa che questa vostra affermazione possa diventare in futuro un passo verso la costituzione di istanze più ampie fra i curdi, unendovi alle battaglie che la vostra etnia sta facendo in Iraq, in Siria, in Iran?
«Noi crediamo che in qualsiasi posto i curdi vivano, debbano cercare una soluzione comune con la gente del Paese dove si trovano. Il problema curdo in Turchia deve essere risolto all’interno dei confini esistenti. Naturalmente le popolazioni che vivono nell’area curda in Siria e in Iraq prenderanno le loro decisioni per il futuro. Nel partito non c’è il programma di unire le diverse parti del Kurdistan e di creare un grande Kurdistan. E piuttosto di disegnare nuovi confini, proponiamo un modello che renda i confini più flessibili. Dove Siria, Iraq, Iran e i Paesi arabi possano essere qualcosa sul modello dell’Unione Europea, con libertà di movimento, lavoro, diritti sociali comuni, unione doganale, scambi culturali e sistemi più democratici».