lunedì 29 giugno 2015

MISCELLANEA DI LUNEDI 29 GIUGNO

La Stampa 29.6.15
Renzi ha scelto di rimanere defilato sulla Grecia, ma tifa per la sconfitta di Tsipras
Il premier teme di ritrovarsi in casa un asse anti euro Salvini-Grillo
di Fabio Martini


Il risultato, quale che sia, del referendum greco è destinato a rimescolare nel profondo gli umori della politica italiana e infatti i principali leader, sia pure a distanza, hanno iniziato un personalissimo countdown. E ognuno di loro - Renzi, Salvini, Grillo, Berlusconi, Vendola - prende parte alla contesa con un sentimento assai più intenso di quel che pare. Tifo vero. E’ entrato in apnea Matteo Renzi, che si rende conto come una eventuale vittoria in Grecia dell’anomalo fronte anti-europeista (Tsipras-Alba dorata, dunque post-comunisti e post-nazisti) darebbe da noi la stura a umori imprevedibili e comunque farebbe da moltiplicatore per un altro duo anomalo, quello di casa nostra: Salvini-Grillo. E d’altra parte una vittoria del Sì alla proposta Ue, rassicurante a breve, ridimensionerebbe un fronte del No che, in Grecia come in Italia, mette assieme forze antitetiche ma determinatissime?
In definitiva è tutta la vicenda “Grexit” ad avere conseguenze imponderabili per gli attori politici. Ecco perché il loquace presidente del Consiglio italiano per tutta la giornata di ieri è restato defilato sulla questione greca, pur così strategica in queste ore. Renzi tifa come un “ultrà” per il sì, legge con soddisfazione i primi sondaggi, giudica negativamente il governo greco, che, a suo avviso, non ha mantenuto tutte le promesse fatte. E d’altra parte, da quando Tsipras ha vinto le elezioni, sei mesi fa, Renzi si è tenuto puntualmente a distanza. Pochi giorni dopo la vittoria, il premier greco venne a Roma e in un incontro a quattr’occhi, chiese a Renzi se volesse far parte del gruppo ristretto chiamato a mediare, ma il capo del governo italiano rispose negativamente. Per evitare di restare invischiato in una trattativa difficile e dall’esito incerto?
Una cosa è certa: negli ultimi mesi il premier italiano ha continuato ad avere sulla vicenda greca un atteggiamento mediano, «politicamente corretto». Ma ora che siamo al dunque, Renzi intimamente tifa per la sconfitta di Tspiras. Non può dirlo per non interferire troppo con una vicenda (relativamente) “interna” di un altro Paese e per non guastare i rapporti con l’elettorato sinistrorso di casa nostra. Ma il suo orientamento lo lascia trapelare attraverso una lunga dichiarazione affidata al vicesegretario del Pd Debora Serracchiani che, dopo aver spiegato le «ragioni di carattere storico, economico e geopolitico per le quali la Grecia, non deve andare alla deriva» alla fine preannuncia la linea del governo: «La Bce sta dimostrando di avere un atteggiamento di estrema responsabilità, una responsabilità che, stando ai sondaggi, il popolo greco dimostra di avere in misura maggiore di chi ha vinto le elezioni facendo promesse che sapeva di non poter mantenere». E tifa per Tsipras chi scommette sullo scardinamento dell’ordine costituito, in Europa, come in Italia. Beppe Grillo lo ha detto chiaramente: «Avevo dei dubbi su Tsipras, invece quell’uomo si sta comportando in maniera straordinaria, portando al popolo greco l’ultima parola». Grosso modo sta con Tsipras anche Matteo Salvini: «Questa è un’Europa da abbattere. Tsipras fa bene a tenere alta la testa, ma il referendum non lo annunci oggi e si fa tra dieci giorni, o lo fai subito o no. È uno scontro tra due errori». Salvini simpatizzante ma non troppo perché Tsipras è sinistrorso e destinato a una sconfitta?
Distinguo che non coinvolgono il berlusconiano Renato Brunetta: «Io tifo Tsipras, con tutte le contraddizioni, però almeno mette sul piatto le contraddizioni di questa Europa di burocrati, a trazione tedesca».

Repubblica 29.6.15
L’appello
Così si salva la democrazia
di Barbara Spinelli e Étienne Balibar


CARO direttore, chiediamo ai tre creditori della Grecia (Commissione, Banca centrale europea, Fondo Monetario internazionale) se sanno quello che fanno, quando applicano alla Grecia un’ennesima terapia dell’austerità e giudicano irricevibile ogni controproposta proveniente da Atene. Se sanno che la Grecia già dal 2009 è sottoposta a un accanimento terapeutico che ha ridotto i suoi salari del 37%, le pensioni in molti casi del 48%, il numero degli impiegati statali del 30%, la spesa per i consumi del 33%, il reddito complessivo del 27%, mentre la disoccupazione è salita al 27% e il debito pubblico al 180% del Pil.
Al di là di queste cifre, chiediamo loro se conoscono l’Europa che pretendono di difendere, quando invece fanno di tutto per disgregarla definitivamente, deturparne la vocazione, e seminare ripugnanza nei suoi popoli.
Ricordiamo loro che l’unità europea non è nata per favorire in prima linea la governabilità economica, e ancor meno per diventare un incubo contabile e cader preda di economisti che hanno sbagliato tutti i calcoli. È nata per opporre la democrazia costituzionale alle dittature che nel passato avevano spezzato l’Europa, e per creare fra le sue società una convivenza solidale che non avrebbe più permesso alla povertà di dividere il continente e precipitarlo nella disperazione sociale e nelle guerre. La cosiddetta governance economica non può esser vista come sola priorità, a meno di non frantumare il disegno politico europeo alle radici. Non può calpestare la volontà democratica espressa dai cittadini sovrani in regolari elezioni, umiliando un paese membro in difficoltà e giocando con il suo futuro. La resistenza del governo Tsipras alle nuove misure di austerità — unitamente alla proposta di indire su di esse un referendum nazionale — è la risposta al colpo di Stato postmoderno che le istituzioni europee e il Fondo Monetario stanno sperimentando oggi nei confronti della Grecia, domani verso altri Paesi membri.
Chiediamo al Fondo Monetario di smettere l’atteggiamento di malevola indifferenza democratica che caratterizza le sue ultime mosse, e di non gettare nel dimenticatoio il senso di responsabilità mostrato nel dopoguerra con gli accordi di Bretton Woods. Ma è soprattutto alle due istituzioni europee che fanno parte della trojka — Commissione e Banca centrale europea — che vorremmo ricordare il loro compito, che non coincide con le mansioni del Fmi ed è quello di rappresentare non gli Stati più forti e nemmeno una maggioranza di Stati, ma l’Unione nella sua interezza.
Chiediamo infine che il negoziato sia tolto una volta per tutte dalle mani dei tecnocrati che l’hanno fin qui condotto, per essere restituito ai politici eletti e ai capi di Stato o di governo. Costoro hanno voluto il trasferimento di poteri a una ristretta cerchia di apprendisti contabili che nulla sanno della storia europea e degli abissi che essa ha conosciuto. È ora che si riprendano quei poteri, e che ne rispondano personalmente.
Barbara Spinelli è europarlamentare indipendente del Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica. Étienne Balibar è un filosofo francese

Repubblica 29.6.15
Paul Krugman: la scelta di Atene di ricorrere alla consultazione popolare è da difendere
“Una mostruosa follia aver spinto Tsipras fino a questo punto”
La troika sperava che il governo greco avrebbe ceduto o in alternativa si sarebbe dimesso
Non posso biasimare il premier ellenico per aver rimesso tutta la questione nelle mani degli elettori
di Paul Krugman


Ad oggi ogni monito riguardo a un’imminente frattura dell’euro si è dimostrato infondato. A dispetto di quanto affermato in fase di campagna elettorale, i governi cedono alle richieste della troika, e parallelamente la Bce interviene per calmare i mercati. Tale dinamica ha permesso di tenere insieme la moneta unica, ma ha al tempo stesso perpetuato un’austerità profondamente distruttiva: non lasciate che qualche trimestre di modesta crescita metta in ombra l’immenso costo di cinque anni di disoccupazione di massa.
Da un puto di vista politico, i grandi perdenti di questa dinamica sono stati i partiti di centro-sinistra, la cui acquiescenza in fase di rigorosa austerità — e il conseguente abbandono di quei valori per i quali avrebbero presumibilmente dovuto battersi — produce danni ben più gravi di quelli che politiche analoghe mietono nel centro-destra.
Ho l’impressione che la troika (credo sia ora di smettere di fingere che qualcosa sia cambiato, e tornare a chiamarla con il vecchio nome) si aspettasse, o quanto meno si augurasse, che nel caso della Grecia la storia si sarebbe ripetuta: o Tsipras avrebbe preso come al solito le distanze dalla maggior parte della propria coalizione, trovandosi probabilmente obbligato a stringere un’alleanza con il centro- destra, o il governo Syriza sarebbe caduto. Cosa che infatti potrebbe ancora accadere.
Tuttavia Tsipras non sembra per ora disposto a lasciarsi cadere sulla propria spada. Anzi: di fronte all’ultimatum posto dalla troika ha indetto un referendum sull’opportunità di accettarlo o meno. La sua scelta produrrà certo grande preoccupazione e numerose dichiarazioni sul suo scarso senso di responsabilità, ma in realtà egli sta facendo la cosa giusta, e per due motivi.
Per cominciare, una vittoria del referendum rafforzerà il governo, conferendogli una legittimità democratica — cosa che in Europa credo conti ancora (e se non contasse occorre saperlo).
In secondo luogo Syriza si è trovato sino ad oggi, politicamente parlando, in una posizione maldestra, con gli elettori furiosi a causa delle crescenti richieste di austerità ma al tempo stesso riluttanti ad abbandonare l’euro. Conciliare queste due tendenze è sempre difficile, è lo è a maggior ragione oggi. Il referendum di fatto chiederà agli elettori di stabilire le proprie priorità, e di conferire a Tsipras il mandato per fare ciò che deve nel caso in cui la troika lo porti a un gesto estremo.
Ritengo che spingerlo sino a questo punto sia stato, da parte dei governi e degli istituti creditori, un atto di mostruosa follia. Eppure lo hanno fatto, e non posso assolutamente biasimare Tsipras per aver rimesso la questione nelle mani degli elettori anziché voltar loro le spalle.

Repubblica 29.6.15
Thomas Piketty
“Serve una conferenza per ristrutturare i debiti più insostenibili”
“Europa in agonia sono i conservatori ad averla devastata”
“Quando sento dai tedeschi che i debiti vanno onorati, mi viene solo da ridere”
“La Merkel se vuole assicurarsi un posto della storia come Kohl, deve avere il coraggio di un nuovo inizio”
di Roberto Brunelli


L’Europa sta per essere distrutta. Ma non dai greci e dall’ostinazione di Tsipras e Varoufakis, ma dai “conservatori” del Vecchio Continente, in particolare quelli tedeschi. E’ un Thomas Piketty furente a dire la sua, in un’intervista alla Zeit che il settimanale tedesco pubblica non a caso con grandissimo rilievo. Perché è un j’accuse — quello dell’economista divenuto una star internazionale con il suo “Il capitale del XXI secolo” — che cade come un meteorite in fiamme sulla cronaca greca di questi giorni.
“I conservatori stanno ad un passo dal devastare definitivamente l’idea europea, e lo fanno per colpa di uno spaventoso deficit di memoria storica. In particolare per quello che riguarda i debiti. Proprio la Germania di oggi dovrebbe capire il significato di quello che sta accadendo: dopo la guerra Gran Bretagna, Germania e Francia soffrirono di una situazione debitoria peggiore di quella della Grecia di oggi. La prima lezione che dovremmo trarne è che ci sono molti modi per saldare dei debiti: e non uno solo, come Berlino vorrebbe far intendere ai greci”.
Sul banco degli imputati, non è difficile immaginarlo, soprattutto Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble. “Quando sento i tedeschi dire che sono mossi solo dall’etica e che sono fermamente convinti che i debiti debbano essere pagati, penso: ma questa è una barzelletta! La Germania è esattamente il paese che non ha mai onorato i suoi debiti, né dopo la prima né dopo la seconda guerra mondiale”. Niente a che vedere con “l’accezione comune di ordine e giustizia: perché se la Germania nel secondo dopoguerra realizzò il boom, fu proprio grazie del fatto che i suoi debiti furono abbattuti, cosa che oggi neghiamo con ferocia ai greci”.
Quello che propone Piketty è chiaro: una grande conferenza europea sul tema dei debiti. Qualcosa di paragonabile, come dimensione strategica, al Piano Marshall. Ma niente del genere è all’orizzonte, anzi. “La verità è che una ristrutturazione dei debiti è inevitabile in molti paesi europei, non soltanto in Grecia.
E invece abbiamo appena perso inutilmente sei mesi di tempo a causa di trattative tutt’altro che trasparenti con Atene”. Non solo. A Schaeuble, che sostiene che una eventuale Grexit addirittura favorirebbe una rinnovata compattazione europea, Piketty risponde con uno scenario opposto: se non cambia passo, l’Unione europea affronterà una crisi di fiducia ancora più grave. “Sarà l’inizio di una lenta agonia, nella quale sacrificheremo all’altare di una politica debitoria irrazionale il modello sociale europeo, persino in termini di democrazia e civilizzazione”. L’ultimo pensiero, e non poteva essere altrimenti, è per la cancellera tedesca Angela Merkel: “Se vuole assicurarsi un posto nella storia, come Kohl con la riunificazione tedesca, deve avere il coraggio di un nuovo inizio. Chi invece oggi insiste nel voler cacciare la Grecia dall’eurozona finirà nella pattumiera della storia”.

Repubblica 29.6.15
Yanis Varoufakis.
Il ministro delle Finanze si rivolge soprattutto ad Angela Merkel: “E’ lei ad avere le chiavi in mano per sbloccare l’accordo con i creditori, le usi”
“La proposta dell’Eurogruppo? Non abbiamo potuto accettarla ma neppure rifiutarla, ecco perché andiamo al referendum”
“Mi appello ai capi di governo possono scongiurare il disastro”
intervista di Peter Tiede


BERLINO. Le trattative con i creditori sulla questione del debito sono fallite, la Grecia è sull’orlo dell’abisso, il primo ministro Alexis Tsipras intende indire un referendum domenica prossima sulla proposta dei creditori.
La Bild ha intervistato il ministro greco delle finanze Yanis Varoufakis.
Signor Varoufakis, il suo primo ministro chiama i greci a un referendum su una proposta della Troika dei creditori.
Significa che le trattative sono interrotte o terminate?
«Né l’una, né l’altra cosa. Il 25 giugno le istituzioni dell’Eurogruppo ci hanno presentato una proposta dettagliata. Il tempo era ormai scaduto. Non abbiamo potuto accettare, ma non abbiamo nemmeno potuto rifiutare di fronte all’importanza della cosa per il futuro della Grecia. Perciò abbiamo deciso di rivolgerci ai cittadini e di chiarire la nostra posizione contraria, lasciando però a loro la scelta. Rimaniamo comunque aperti a nuove proposte delle istituzioni. Se queste nuove proposte dovessero arrivare e noi le ritenessimo significativamente migliori, potremmo sempre cambiare le nostre indicazioni e suggerire agli elettori di approvarle. Quindi, per quanto ci riguarda, siamo ancora disponibili a trattare mentre la gente fa le sue valutazioni».
Da parte vostra arriveranno nuove proposte?
«No, abbiamo già esposto le nostre posizioni. Sono eque e accompagnate da notevoli concessioni. Si basano su un solido programma finanziario legato alla concreta aspettativa di mettere fine alla crisi senza ulteriori versamenti di denaro allo Stato greco. Sta ora alle istituzioni dimostrare buona volontà».
Il memorandum scade il 30.
Se non rispetterete questo termine non riceverete la rata di 7,2 miliardi di euro. E la Banca centrale europea bloccherà l’erogazione dei fondi di emergenza ELA. Cosa succederà allora? Un assalto alle banche? Controlli sui movimenti di capitale? E poi la Grexit?
«Se l’Europa permetterà che accada un simile disastro solo per umiliare il nostro governo e nonostante le caute, moderate, concilianti proposte venute da parte nostra — allora gli europei non potranno non porsi la domanda sollevata dal capo del governo italiano di fronte al clamoroso fallimento sulla questione dei profughi: “È questa l’Europa che vogliamo?”» Dal suo punto di vista, c’è ancora spazio per un accordo con l’eurogruppo? E cosa si dovrebbe tentare di fare da entrambe le parti?
«Sono un eterno ottimista. L’Europa ha dimostrato di continuo di saper curare le sue ferite e di essere capace di superare i suoi litigi. Si tratta soltanto di far valere quello che ci accomuna. Finora, però, ci è sempre stato detto che è possibile qualsiasi accordo, ma solo se è conforme al memorandum delle istituzioni».
Recentemente ha dichiarato che il contributo decisivo può venire solo dalla cancelliera Merkel. È ancora così?
«Sì, assolutamente. Le istituzioni non hanno alcun mandato per collegare riforme pesanti a una saggia politica di rinegoziazione del debito. I vertici dell’Unione Europea a Bruxelles non sono in grado di adottare iniziative politiche. I capi di governo dell’Unione europea devono agire. E tra loro è la cancelliera Merkel, in quanto rappresentante del Paese più importante, ad avere in mano le chiavi per evitare una fine terribile di questa crisi. Spero che le usi».
Copiright Bild Traduzione di Carlo Sandrelli

La Stampa 29.6.15
Il mondo impossibile di Tsipras
di Paolo Baroni


Per mesi tutti hanno ripetuto che uscire dall’euro era impossibile: opzione non prevista. E invece oramai ci siamo arrivati. La Grecia è lì, in bilico sullo strapiombo. Oggi la Borsa di Atene, banche e uffici postali resteranno chiusi. Domani scadrà l’ultimatum del Fmi e la Grecia finirà in default. Solo la Bce continua a sostenere le banche greche attraverso i fondi d’emergenza, ma fino a quando riuscirà a farlo sapendo che il governo di Atene non rispetta più gli impegni con suoi creditori? Difficile prevederlo. Come è difficile prevedere i contraccolpi sulle economie dell’area euro e soprattutto sulla crescita, a cominciare da quella sempre debole dell’Italia.
Si entra così nel terreno dell’ignoto. Tutto è possibile, tutto può accadere. Fintanto che la Bce garantirà il suo ombrello, con fondi adeguati e illimitati, le possibili turbolenze sui mercati dei titoli di Stato potrebbero venire attutite. E anche l’Italia, che a quel punto si ritroverebbe nella zona più a rischio, come l’ultimo o uno degli ultimi tra i Paesi periferici, e quindi teoricamente più esposti alla speculazione, potrebbe trovare un riparo sicuro. Di certo però se il mercato dei nostri Btp dovesse entrare in sofferenza per un periodo prolungato ci ritroveremmo a fare i conti con un aggravio del costo del nostro debito anziché con quel tesoretto su cui tante volte Renzi ha fatto progetti.
Ma riavvolgiamo il film della tragedia greca. Da quando si è insediato Tsipras ha messo in atto un’unica strategia: contrapporsi al resto d’Europa. Litigare. Fare di tutto per passare da vittima predestinata.
Si capiva fin dall’inizio che il nuovo governo non sarebbe stato in grado di risolvere da solo i mali del Paese, ma cosa ha fatto per uscire dal pantano in cui era finito dopo anni di bilanci allegri? Nulla. Eppure il nuovo premier greco era quello che teorizzava che «un altro mondo era possibile», ma delle politiche di sinistra non se n’è vista una. L’unica azione in qualche modo «di sinistra» messa in atto è stata quella di contrapporsi alle richieste di austerità dei creditori. Bollati alla stregua di usurai. E quindi muro su ogni richiesta. Dall’aumento dell’Iva all’innalzamento dell’età pensionabile. Che va ricordato - e noi italiani lo possiamo dire senza remore, viste le riforme che ci sono toccate negli ultimi vent’anni - per un Paese in bancarotta come la Grecia è scandalosamente bassa: appena 58 anni in media quella effettiva contro i 65 anni di legge, addirittura 56 nel settore pubblico. L’unico intervento sui conti pubblici è stato quello di azzerare tutti i pagamenti dello Stato, con una sorta di default interno, per concentrare le (poche) risorse disponibili su stipendi pubblici e pensioni. Anziché attaccare le rendite e, ad esempio, iniziare a tassare per davvero gli armatori fino ad ora esenti da imposte - questa sì una vera politica di sinistra per la Grecia - iniziando quindi a fare cassa, in questi mesi addirittura il gettito fiscale della Grecia è calato. Un miliardo in meno rispetto alle attese solo a maggio, perché i cittadini hanno semplicemente imitato lo Stato smettendo di pagare. In questo modo la situazione non ha fatto altro che peggiorare accelerando il collasso dei conti pubblici e rendendo ancora più precarie le condizioni delle fasce più basse della popolazione che invece Tsipras si era ripromesso di sostenere.
E pure la mossa di chiedere ai greci di esprimersi attraverso un referendum è una non scelta: si abdica al primo compito della politica, che è quello di compiere delle scelte, anche le più difficili, nell’interesse generale, e ci si consegna mani e piedi al puro populismo.
Giunti a questo punto è chiaro che finire in default e poi uscire dall’euro può servire alla Grecia a cancellare con un tratto di matita le centinaia di miliardi di euro di debiti contratti sino ad oggi. Ma di contro una svalutazione della «nuova dracma» avrebbe effetti limitati sull’economia di un Paese con una scarsissima propensione all’export. E soprattutto in futuro, dopo aver rotto tutti i ponti, sarebbe molto difficile trovare nuovi soggetti disponibili a finanziare un Paese che si è dimostrato tanto inaffidabile.
Certo Bce, Fondo monetario e Ue non sono indenni da colpe, soprattutto in passato hanno gestito con troppa rigidità il dossier greco pretendendo di imporre a senso unico le solite politiche un poco ottuse di rigore, ma Tsipras e C. ci hanno messo molto del loro. Qualcuno agli esordi lo aveva definito un parolaio, difficile a questo punto non condividere questo giudizio.

Corriere 29.6.15
C’è un’altra storia da raccontare
Sarebbe il caso di collocare il problema ellenico, ventre molle dell’Europa nello scenario instabile del Mediterraneo, dell’emigrazione incontrollata, della lotta al terrorismo integralista
di Massimo Nava


Certo, i debiti si pagano. Certo, i greci ballano sull’orlo del precipizio. Certo, è disperante che le sorti di un Paese siano appese all’estremismo ideologico di un dandy marxista come Varoufakis. Detto questo, con il fiato sospeso su ciò che accadrà nelle prossime ore, occorre prendere in considerazione anche i possibili danni collaterali della Grexit, sul piano politico e strategico, non solo monetario. Stiamo forse per dovere raccontare un’altra storia, che colloca il problema greco, il ventre molle dell’Europa, nello scenario instabile del Mediterraneo, dell’immigrazione incontrollata, della lotta al terrorismo, di una crisi economica continentale non ancora superata. Fenomeni spesso collegabili, che necessitano di risposte unitarie, coraggiose e forse persino militari, ma come darle se prevalgono le divisioni fra i leader europei, le esigenze delle opinioni pubbliche interne, le regole contabili, il vuoto di visioni lungimiranti, gli interessi nazionali e le loro varianti elettorali?
Occorre ricordare che la Grecia, oltre che dell’Europa, fa parte della Nato: quali potrebbero essere le scelte future di un Paese allo sbando, che chiederà aiuto dovunque possa ottenerlo? In cambio di quali contropartite? Fino a che punto potremo contare sul secondo membro della Nato sul fronte orientale — la Turchia di Erdogan — che gioca una partita ambigua e pericolosa nel rapporto con l’islamismo? È sensato chiudere le porte alla Grecia dopo averle chiuse alla Turchia?
Ci si preoccupa dell’effetto contagio sui mercati, ma è più preoccupante l’effetto contagio che l’uscita della Grecia potrebbe avere su movimenti populisti, ovunque in crescita sull’onda del rifiuto di questa Europa e delle sue élite.
Se questi sono i rischi, oltre al fatto ovvio che non conviene mai, nemmeno nella vita di tutti i giorni, fare morire il debitore, alcune domande andrebbero poste alla Germania, da cui dipendono in larga misura il destino della Grecia e la politica europea.
Non si tratta di amplificare il comprensibile risentimento dei greci o rispolverare la questione delle colpe e dei debiti di guerra (peraltro non pagati) ma di non ripetere errori di valutazione che hanno condizionato la storia d’Europa degli ultimi vent’anni.
All’indomani della riunificazione della Germania, l’allora ministro degli esteri Hans Dietrich Genscher, forzò in modo unilaterale il riconoscimento dell’indipendenza della Croazia, una decisione che ebbe un effetto domino sui Balcani con conseguenze ben note: la guerra, i massacri, fino all’indipendenza del Kosovo, presupposto e alibi anni dopo del referendum indipendentista in Crimea.
Nel decennio scorso, il presidente francese Nicolas Sarkozy (peraltro, principale responsabile del disastro in Libia) lanciò il progetto di un’Unione del Mediterraneo, ponte con l’Europa per contribuire allo sviluppo economico e democratico del Maghreb. Un’idea lungimirante, di cui oggi si comprende la dimensione e la necessità, ma di fatto naufragata per indifferenza dell’Europa e diffidenza di Angela Merkel.
Di fronte alla crisi greca, sono i no tedeschi (della Merkel, della Bundesbank, del ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble) i principali ostacoli al salvataggio in nome del rigore finanziario.
Se si guarda invece alla crisi in Crimea e in Ucraina, è la Germania la più determinata nell’imporre sanzioni alla Russia. Alle conseguenze delle sanzioni sulle imprese europee si somma la difficoltà di costruire un’indispensabile collaborazione con Mosca nella lotta al terrorismo.
Nelle scelte della Germania, pesano la sensibilità di Angela Merkel, la ragazza dell’Est, verso l’Europa orientale e l’imperativo del rigore finanziario alla base del modello tedesco. L’opinione pubblica tedesca non valuta i danni collaterali, anche perché pochi hanno il coraggio di prospettarli. Basterebbe ricordare ai tedeschi l’esempio dell’ex cancelliere Kohl, che all’indomani della caduta del Muro di Berlino introdusse la parità del marco occidentale con il marco dei tedeschi dell’Est. Un cambio «folle», ma Kohl seppe guardare all’Europa e al futuro delle prossime generazioni. Nasceva la «Germania europea», rassicurante prospettiva rispetto all’«Europa tedesca» di oggi, in cui non c’è posto per la Grecia alla bancarotta.

La Stampa 29.6.15
Pensioni, scuola, statali
Renzi tenta il rilancio con un luglio di riforme
Agenda parlamentare piena. E si rinnovano le commissioni
di Ugo Magri


Alle vacanze del Parlamento manca un mese o poco più. Da qualche anno, infatti, Montecitorio e Palazzo Madama chiudono i battenti nella seconda settimana di agosto, per far vedere che in quelle stanze si lavora e si produce quando molti detrattori sono già al mare. Ma stavolta, a mettere gli onorevoli sotto pressione, sarà soprattutto Renzi. Scottato dalle Regionali, il premier ha urgenza di portare a casa qualche bella riforma, in modo da mostrarsi di nuovo nel pieno controllo delle operazioni. Alla Camera, vista la maggioranza di cui dispone, farà poca fatica.
Il 7 luglio prima riforma
Quel giorno è atteso il sì definitivo della Camera sulla scuola. Mancherà solo la controfirma di Mattarella. Nel frattempo l’aula avrà già licenziato il decreto da tanti atteso: quello che adegua (molto parzialmente) le pensioni alla sentenza della Consulta. Le votazioni sull’argomento inizieranno domani, prima del prossimo weekend saranno terminate e subito dopo la palla passerà al Senato che dovrà fare parecchio in fretta, poiché il 20 luglio questo decreto scadrà e in quel caso si porrebbe un bel problema. Dunque, ricapitolando: alla Camera subito in votazione gli arretrati delle pensioni, poi la scuola. Dopodiché sarà il turno della Pubblica amministrazione, la cosiddetta riforma Madia (dal nome della ministra) che prova a mettere ordine nella giungla dirigenziale, a velocizzare i concorsi, a introdurre la «staffetta generazionale». In ossequio al calendario della Camera, se ne discuterà in aula dal 13 luglio. Ma poiché è scontato che ci saranno delle modifiche, la riforma tornerà al Senato che già ne aveva discusso e dunque ne riparlerà in autunno. Che altro faranno, i nostri deputati, prima delle ferie? Grandi trattative per rinnovare le presidenze delle Commissioni, perché questa è la prassi di metà legislatura. Il centrodestra oggi ha 4 caselle, ma per effetto del rimescolamento le perderà tutte e 4 o, al massimo, Renzi gliene lascerà una per bontà. Gli ultimi giorni di luglio saranno dedicati, così si augura il capogruppo Pd Rosato, alla riforma della giustizia penale, intercettazioni comprese. Quasi negli stessi giorni Palazzo Madama allungherà per legge i tempi delle prescrizioni (ma l’ex Cavaliere ne usufruirà lo stesso per sfuggire al processo sulla presunta corruzione dei senatori al tempo di Prodi).
Il paradosso del Senato
Sarà un caso, ma tutte le questioni più importanti verranno affrontate proprio nel ramo del Parlamento destinato all’estinzione. Compresa la riforma costituzionale che lo condanna: Renzi esige a tutti i costi che venga votata entro luglio sulla base di un suo calendario, che mira a tenere il referendum confermativo sulla riforma insieme con le Comunali del 2016. Per superare gli ostruzionismi, concederà qualche piccola modifica alla sinistra Pd. Così a settembre la riforma del Senato passerà alla Camera, tornerà tre mesi dopo in Senato e infine (la cosiddetta «seconda conforme»), sarà rivotata dalla Camera. Finalmente, a quel punto, la parola passerà al popolo sovrano... Ai fini del risultato, si sa, molto pesa l’orientamento dei mezzi d’informazione. E guarda caso, nei prossimi giorni si annuncia al Senato grande battaglia sulla governance Rai. Il forzista Gasparri ha già presentato in commissione 200 emendamenti alla proposta renziana che vorrebbe dare pieni poteri di nomina dei direttori al futuro amministratore delegato di Viale Mazzini. La mediazione è difficile. Idem, se non peggio, sulle unioni civili: c’è una trattativa in Commissione tra Pd da una parte, centristi dall’altra. Ma sulle adozioni gay le posizioni restano distanti, per avvicinarle ci vorranno settimane e mesi. Arrivederci a settembre.

Corriere 29.6.15
Renzi sulle unioni civili «Manterrò la parola data»
Nessuno stop dopo il Family day. Sui migranti l’idea di conciliare «etica e ragionevolezza»
di Maria Teresa Meli


La promessa di Renzi sulle unioni civili: se fosse diventato segretario del Pd avrebbe proposto la civil partnership alla tedesca.

ROMA Nel recente Family day alcune centinaia di migliaia di cattolici sono scesi in piazza per protestare contro la legge sulle unioni civili. Ma questa iniziativa non ha indotto Matteo Renzi a cambiare il suo programma. Il premier è un credente, è praticante e, come è noto, è stato un boy scout, tant’è vero che ancora adesso utilizza in politica slogan cari a quell’associazione giovanile.
Ma ora fa il presidente del Consiglio. E, soprattutto, ha fatto una «promessa», tre anni fa, e intende «mantenerla». Alla Leopolda del 2012 annunciò che se fosse diventato segretario del Partito democratico avrebbe proposto la civil partnership sul modello tedesco. In Germania, ovviamente, si chiama in un altro modo, ma è assai più difficile da pronunciare per un italiano. E comunque la sostanza non cambia. Sarebbero le unioni civili.
L’idea l’aveva maturata dopo una serie di colloqui con alcuni esponenti pd del mondo lgbt che da subito si erano schierati con lui nella contesa con Bersani. Anzi, proprio in una stanza della Leopolda, con un gruppetto di loro, aveva studiato le future mosse. E adesso dopo tre anni? «Non verrò mai meno alla parola data».
Ci sono molti modi per essere cattolici adulti, c’è chi ama rivendicarlo con dichiarazioni, c’è chi (ed è lo stile di Renzi) preferisce andare dritto al sodo. «Sulle unioni civili — aveva promesso tempo fa — andrò avanti con la stessa determinazione con cui sono andato avanti sulla legge elettorale». E non sarà quindi un Family day a fermarlo, anche perché, come spiega un ministro pd, «il testo che si sta esaminando è iper-accettabile anche per molti cattolici».
Anzi, per paradossale che possa sembrare, quella manifestazione di piazza invece di ingenerare perplessità nel credente Renzi o nel segretario del Partito democratico che vuole prendere i voti dei moderati, gli avvicina il traguardo che si è fissato.
Già, infatti, una parte importante del Pd vorrebbe direttamente il matrimonio tra gay. Tanto più dopo la storica sentenza della Corte suprema degli Usa. E la minoranza interna per mettere in difficoltà il leader è tentata di giocare questa carta, forzando sulla strada del matrimonio (Roberto Speranza lo aveva anticipato in un’intervista nei giorni scorsi).
Un’altra fetta del Partito democratico, invece, formata per lo più da ex popolari ed ex democristiani, riteneva che anche questa volta, come fu per i Dico, non si sarebbe approdati a nulla e comunque è contrarissima all’idea di paragonare il matrimonio tra uomo e donna a quello tra gay.
Siccome il premier intende veramente «fare sul serio» può facilmente incunearsi in questo spazio che si è aperto tra chi vuole il matrimonio e chi vi si oppone con tutte le sue forze, portando a casa il risultato: le unioni civili come proposta di mediazione accettabile.
Del resto, lo ha ripetuto tante volte che «i numeri in Senato ci sono». Una maggioranza trasversale è possibile. Magari non si riuscirà ad approvare la normativa entro luglio, come da progetto originario, a causa dell’ingorgo a palazzo Madama tra riforma costituzionale e Pubblica amministrazione, ma a settembre al massimo la legge passerà al Senato per andare alla Camera.
Per occuparsi che tutto fili liscio Renzi ha dato l’incarico di seguire questa vicenda a Maria Elena Boschi e la presenza della ministra per le Riforme, che per ora si muove dietro le quinte, dimostra quanto il premier tenga a quella legge.
È una normativa che piace a molti credenti e una parte dei credenti sono gay, per questo Renzi non vede contraddizione alcuna tra il suo essere cattolico e il fatto di essere il primo presidente del Consiglio che riuscirà (salvo incidenti parlamentari sempre possibili in un paese come l’Italia) a mandare in porto, dopo anni di dibattiti, mediazioni fallite e tentativi andati a vuoto, una legge sulle unioni civili. E comunque «una promessa è una promessa».
Ma c’è un altro tema che per i cattolici e per la Chiesa riveste grande importanza. Quello dell’accoglienza ai migranti. Prima che l’immigrazione divenisse un’emergenza si discuteva nel Pd di una versione italica dello ius soli , adesso ovviamente questa legge resterà un po’ in sonno.
Ma anche su questo punto il Renzi premier e il Renzi cattolico non si sentono in contraddizione. Il presidente del Consiglio non propone i respingimenti verso i quali la Chiesa è contraria. «Noi — sottolinea — siamo il Paese più solidale del mondo e io ho fatto della solidarietà una mia priorità, ma non si può dire che questo cambi perché ci saranno dei rimpatri in più, ovviamente non di rifugiati politici, e perché questi rimpatri verranno velocizzati. Noi siamo sempre quelli che salvano i migranti in mare, perché è una questione di civiltà».
Insomma, l’accoglienza passa «per criteri etici e di ragionevolezza».
Non c’è contesa tra governo e Chiesa su questo. Semmai, alle volte, si discute di molto più prosaici problemi: ossia di scuole cattoliche e fisco...

Corriere 29.6.15
Rai, le buone intenzioni non possono bastare
Servizio pubblico? non è mai esistito
di Aldo Grasso


Il servizio pubblico non esiste più, forse non è mai esistito. E se fosse solo una formidabile finzione retorica, una di quelle favole belle che consentono ai governanti di collocarsi nella posizione di saggi?
S e il «mito civile e pedagogico» della tv fosse solo una storia che ci tramandiamo da anni?
L’impressione è che il servizio pubblico (sp) abbia concluso il suo ciclo storico. Nonostante si faccia una grande fatica ad ammetterlo, l’idea di sp affonda le sue radici nei totalitarismi europei (comunismo, fascismo, nazismo...), quando, entrando nella modernità, i governi decisero di sfruttare la grande potenza dei media (radio e cinema) con un controllo diretto. Gli Usa, per esempio, non avendo mai conosciuto un regime dittatoriale, non hanno sentito il bisogno di elaborare una nozione che assomigliasse al sp. Ma bastano le differenze culturali a spiegare questa assenza? La risposta la troveremo fra poco. La nozione di sp prende corpo con la radio, esattamente con la britannica Bbc nel 1923: nel «rapporto Sykes» si definisce la radiodiffusione come una public utility . Solo con il direttore John Reith la Bbc (nata come ente commerciale) subisce un’idealizzazione, il sogno umanistico di educazione delle masse: informare, educare, intrattenere. Con questo mantello di buone intenzioni, e senza scopo di lucro, nel 1927 la Bbc diventa una società pubblica che beneficia di un monopolio. Quando arriva la tv, e siamo già nel dopoguerra, tutti i governi si rendono conto della smisurata potenza del nuovo mezzo e, sul modello della Bbc, elaborano in forme diverse un’idea di sp come risposta democratica al consenso coatto. I media restano saldamente sotto il controllo dello Stato, ma la loro funzione non sarà più quella della bieca propaganda, bensì quella dell’educazione e della missione sociale.
In Italia, com’è noto, la Rai nasce sulle ceneri dell’Eiar, senza una vera fase di discontinuità. Nel 1946 presidente della Rai è il democristiano Giuseppe Spataro, dopo l’estromissione di Carlo Arturo Jemolo, ma l’azienda è saldamente in mano a un gruppo dirigente molto attivo in epoca fascista: da Marcello Bernardi a Giulio Razzi, da Sergio Pugliese a Vittorio Veltroni. Il sp serve anche ad alimentare e rafforzare i miti fondativi della Liberazione, della Costituzione.
Come in altri Paesi, la scarsità delle frequenze è la ragione sostanziale dell’avocazione allo Stato del sp, prima radiofonico e poi televisivo. Ma già nel 1961 Jemolo, l’insigne giurista, sostiene che alla tv non è applicabile l’art. 43 della Costituzione, che contempla i casi in cui è legittima l’istituzione di un pubblico monopolio. Anzi, su di lei dovrebbe far premio l’art. 21, sui diritti dei cittadini e sulla diffusione del pensiero. L’opinione del primo presidente della Rai rimane però inascoltata.
Mentre in Italia si accenna timidamente alla concorrenza, in Inghilterra sin dal 1955 esiste Itv (Independent Television), un raggruppamento di canali tv commerciali a base regionale. Giusto per offrire un confronto prospettico. Nel suo libro Il servizio pubblico. Storia culturale delle televisioni in Europa (di recente edito in Italia da Vita e Pensiero, € 25), Jérôme Bourdon pone molte questioni fondamentali. Una su tutte: la vicinanza con lo Stato. Secondo Bourdon, questo è il vero tallone d’Achille del sp: «questa vicinanza, tesa a proteggere il servizio pubblico dalle tentazioni del mercato, è anche fonte di problemi e di critiche che molto presto lo indeboliranno». L’idea che il sp sia solo una idealizzazione si fa sempre più concreta: una forma di dispotismo illuminato, un’ambizione politica, una «favola» al «servizio» non del pubblico ma dello Stato. Dove sta, infatti, la differenza di fondo fra tv di servizio pubblico e tv commerciale? Premesso che la tv è tale in quanto mezzo di massa, che il suo specifico è la capacità di penetrazione nell’audience, che resta il più fulgido esempio di cultura pop, ebbene gli studi che si occupano della nascita della tv concordano su un punto chiave. La tv ha avuto un impatto clamoroso sul sociale (come mai prima) per una durata di circa 20 anni. Come se il mezzo sprigionasse un «sapere tecnologico» molto più avanzato del pubblico cui si rivolgeva, al di là dei contenuti specifici, come se la sua audience ideale fosse identificata in una borghesia medio-alta. La tv si offre come il più formidabile strumento di modernizzazione delle società. Grazie a lei moltissime persone imparano a parlare, ad accogliere un’opinione, a sorvegliare l’igiene personale, a «stare al mondo». Il fatto è che questo «insegnamento», sia pure in tempi sfasati, si attua in tutto il mondo, l’impatto è identico in America come in Europa. E l’impatto avviene soprattutto con l’intrattenimento, con i grandi programmi di successo, persino con la pubblicità.
Dove sta dunque la differenza tra tv commerciale e tv di servizio pubblico? La storia di una tv la fanno i programmi di successo, non i proclami.
Gli anni passano e la grande sconfitta del sp, come sottolinea Bourdon, si palesa proprio nel suo mancato apporto alla costruzione di una «cultura europea». Se oggi l’Europa è tenuta insieme solo da vincoli monetari, la colpa è anche delle tv dei singoli Paesi. Cosa ha fatto il sp per l’Europa? Al di là di alcuni goffi tentativi promossi dall’Ebu-Uer (una pletora di funzionari che tengono in vita con convegni e trasferte il mito del sp), che apporto ha dato il sp alla formazione di una cultura europea? Gli unici programmi di successo sono stati Giochi senza frontiere e l’ Eurofestival .
Oggi, l’idea di sp è in sé tanto fragile e sfuggente quanto, a ben vedere, irrilevante. Si regge sulle buone intenzioni. Ma questa concezione così astratta ha ancora senso? A difesa si cita sempre il caso della Bbc che si associa alla garanzia di un’offerta di qualità. Forse, con l’ on demand alle porte, bisognerebbe anche ragionare sul fatto che, paradossalmente, la cosiddetta quality tv è nata negli Usa. Non certo nella culla del sp.
Bourdon, in conclusione, è ancora convinto del ruolo del sp: nonostante tutte le sue debolezze, un tv pubblica forte avrebbe ancora una funzione. Ma ciò che più l’autore teme è l’indifferenza con cui Stati e pubblico faticano sempre più a identificarne identità e missione. Ciò che più teme è l’insignificanza del sp nei confronti di una cultura europea. Colpa attuale o vizio d’origine?

Repubblica 29.6.15
Accoglienza no-limits e frontiere chiuse le due ricette sbagliate contro l’emergenza
Parafrasando Stalin si può dire che le soluzioni proposte da liberal e populisti sono da considerare entrambe peggiori
Il capo di ogni fazione ha rapporti d’affari con una corporation: i minerali estratti sono quelli usati per costruire i nostri computer e cellulari
di Slavoj Žižek


CHE fare con le centinaia di migliaia di disperati che, in fuga da guerre e carestie, aspettano in Africa settentrionale di poter attraversare il mare e trovare rifugio in Europa? Le risposte sono essenzialmente due. I liberal di sinistra esprimono il loro sdegno nei confronti dell’Europa che lascia annegare nel Mediterraneo migliaia di persone: il loro appello è rivolto a far sì che l’Europa si mostri solidale e spalanchi le sue porte. I populisti contrari all’immigrazione dichiarano che dovremmo difendere il nostro stile di vita e lasciare che gli africani risolvano da soli i loro problemi.
Le soluzioni sono entrambe pessime, ma quale è peggiore? Volendo parafrasare Stalin, sono peggiori entrambe. Gli ipocriti più grandi sono i fautori delle frontiere aperte: in privato sanno benissimo che una cosa simile non accadrà mai, dal momento che innescherebbe una fulminea rivolta populista in Europa. Si calano nella parte delle anime belle che si reputano superiori al mondo corrotto, al quale per altro sotto sotto appartengono. Anche i populisti contrari all’immigrazione sanno molto bene che, lasciati a loro stessi, gli africani non riusciranno a cambiare le loro società. Perché? Perché noi, europei occidentali, impediamo loro di farlo. A precipitare la Libia nel caos è stato l’intervento europeo. A creare le premesse per l’ascesa dell’Is è stato l’attacco statunitense in Iraq. La guerra civile in corso nella Repubblica Centrafricana tra il sud cristiano e il nord musulmano non è una semplice deflagrazione dell’odio etnico: le ostilità sono state innescate dalla scoperta a nord del petrolio. E Francia (collegata ai musulmani) e Cina (collegata ai cristiani) stanno combattendo per interposta persona un conflitto per il controllo dei giacimenti petroliferi.
Il caso più eclatante della nostra colpevolezza è il Congo che di questi tempi si sta nuovamente affermando come il “ cuore delle tenebra” dell’Africa. Sul Time Magazine del 5 giugno 2006, in copertina comparve il seguente titolo: «La guerra più letale del mondo». Quel titolo rimandava a un articolo nel quale si documentava nei particolari come, in conseguenza delle violenze politiche in Congo, nell’ultimo decennio vi fossero morte circa quattro milioni di persone. A quell’articolo non fece seguito alcuna protesta umanitaria di rilievo, come è consuetudine che accada, quasi uno strano filtro avesse impedito a quella notizia di raggiungere e avere il suo pieno impatto. Volendo, potremmo essere cinici ed affermare che il
Time scelse la vittima sbagliata nella battaglia per l’egemonia delle sofferenze: avrebbe fatto meglio a seguitare a usare quelle che compaiono nell’elenco dei soliti noti, le donne musulmane e la loro difficile condizione, l’oppressione in Tibet, e così via. Perché questa ignoranza?
Nel 2001, un’indagine delle Nazioni Unite sullo sfruttamento illegale delle risorse naturali congolesi aveva riscontrato che il conflitto nel paese riguardava per lo più l’accesso, il controllo e il commercio di cinque risorse minerarie fondamentali: coltan, diamanti, rame, cobalto e oro. Dietro l’immagine di facciata di una guerra etnica, pertanto, intravediamo all’opera il meccanismo del capitalismo globale. Il Congo non è più uno stato unito: è una pluralità di territori governati da signori della guerra locali, che vigilano sul loro pezzetto di territorio con eserciti che, di norma, annoverano bambini drogati. Ciascuno di questi signori della guerra ha rapporti d’affari con una società o una corporation straniera che sfrutta la ricchezza in buona parte mineraria di questa regione. Ironia della sorte, molti di questi minerali sono utilizzati per la produzione di oggetti hi-tech come laptop e cellulari.
Lasciate perdere quindi il comportamento disumano della popolazione locale: basterebbe rimuovere dall’equazione le aziende straniere dell’hi-tech e l’intero edificio delle guerre etniche alimentate da antichi rancori crollerebbe in pezzi. È da qui che dovremmo iniziare, se vogliamo davvero aiutare gli africani e fermare il flusso dei profughi.
Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 29.6.15
La nostra speranza rimane viva
di Lina Ben Mhenni


Ieri è stata una lunghissima giornata: sono andata in macchina a Susa per partecipare alla Marcia contro il terrorismo.
Chilometro dopo chilometro cresceva il dolore: autobus pieni di turisti andavano verso l’aeroporto . A Susa mi sono unita alla marcia: uomini e donne che gridavano contro il terrorismo e cantavano l’inno nazionale. C’era anche qualche turista, giovani per lo più: avevano in mano la bandiera tunisina.
Poi mi sono fermata in un caffè con degli amici: sono anni che parliamo di quello che succede. Abbiamo punti di vista diversi, ma questa volta ci siamo trovati d’accordo nel dire che il governo ha fallito nella lotta al terrorismo. Abbiamo parlato dei tanti giovani che fanno la scelta del terrorismo: qualcuno ha detto che era a causa della povertà, ma non tutti siamo stati d’accordo. Un amico ha ricordato il caso del rapper Emino, che aveva una vita normale prima di unirsi alla jihad.
Poi sono tornata a casa: con il mio dolore, la mia disperazione e la mia speranza. Ho continuato a navigare su Internet alla ricerca di fili di speranza: lo sto facendo ancora ora. Quello che è accaduto è orribile, ma la speranza qui in Tunisia non deve morire.

La Stampa 29.6.15
Obama studia un piano per rilanciare il dialogo fra Israele e palestinesi
Ma prima la Casa Bianca vuole l’intesa con l’Iran
di Paolo Mastrolilli


Il presidente Obama non ha rinunciato a far fare la pace tra israeliani e palestinesi, nonostante tutte le emergenze mediorientali che deve affrontare, dal negoziato nucleare con l’Iran all’Isis, e nonostante i contrasti avuti col premier Netanyahu. A confermarlo sono i suoi stessi collaboratori, come Mike Yaffe, a cui il capo della Casa Bianca ha chiesto di presentargli una serie di proposte per rilanciare la trattativa, dopo la conclusione del negoziato con Teheran. Al momento sul tavolo ci sono quattro idee, che «La Stampa» è in grado di rivelare.
La strategia
L’amministrazione ha ben presente l’emergenza Isis, ma in questo momento la politica estera americana ruota soprattutto intorno all’accordo nucleare con l’Iran, che non servirebbe solo a disinnescare la sua minaccia atomica. Se infatti Teheran accettasse di interpretare un nuovo ruolo responsabile nella regione, potrebbe diventare la chiave per risolvere il conflitto in corso fra sciiti e sunniti, aprendo un dialogo con l’Arabia che tornerebbe utile anche per fermare il Califfato.
In questo quadro molti analisti ritengono che la pace fra israeliani e palestinesi, inseguita inutilmente dal segretario di Stato Kerry durante i primi due anni del suo mandato, sia quasi irrilevante. Il Presidente però continua a coltivare l’ambizione di favorirla, perché sarebbe un risultato storico, e aiuterebbe comunque a stabilizzare il Medio Oriente. Perciò ha chiesto ai suoi collaboratori più stretti al Consiglio per la Sicurezza Nazionale e al dipartimento di Stato di elaborare proposte per salvare la «soluzione dei due Stati», da lanciare dopo la trattativa nucleare con l’Iran. Il dossier è in mano all’inviato speciale Frank Lowenstein e appunto a Mike Yaffe, che hanno cominciato ad allertare le diplomazie dei Paesi alleati.
Le quattro ipotesi
Il dibattito è in una fase molto preliminare, ma al momento le ipotesi allo studio sono soprattutto quattro. Prima, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che incoraggi la ripresa del negoziato di pace sulla base di punti fermi condivisi anche dagli Usa, dando però garanzie sull’identità ebraica di Israele e sul futuro di Gerusalemme. Seconda, una dichiarazione del Quartetto, che poi verrebbe fatta propria dal Palazzo di Vetro come «road map» per le trattative. Terza, la pubblicazione degli «Obama Parameters», ossia i parametri considerati equi da Washington per rilanciare il dialogo, prima che i dati di fatto sul terreno rendano impossibile la creazione di due Stati. La pubblicazione di questi parametri sarebbe seguita da un invito delle parti alla Casa Bianca e poi un round negoziale, sul modello del tentativo fatto e fallito da Clinton alla fine del suo secondo mandato. Quarta, una pressione coordinata della comunità internazionale sulle parti, affinché riprendano le trattative dirette nella regione.
Quando il dibattito interno sarà completato, e la pratica iraniana chiusa in qualche maniera, le proposte saranno definite e presentate al presidente. Lo stesso Kerry ha continuato a lavorarci, anche quando era in ospedale a Boston con la gamba rotta. L’amministrazione non si fa illusioni, e ha letto il recente discorso di Netanyahu alla Herzliya Conference come la volontà di seppellire la soluzione dei due Stati. Washington però non vede alternative, anche per salvare Israele dall’isolamento, e non ha rinunciato a riaprire la trattativa.

La Stampa 29.6.15
Slitta l’intesa sul nucleare iraniano
Il ministro Zarif lascia i colloqui di Vienna e rientra a Teheran per consultazioni
di Monica Perosino


Serve altro tempo. I negoziati di Vienna per arrivare allo storico accordo sul nucleare iraniano slitteranno oltre la data di scadenza limite che era stata fissata per domani.
E mentre le parti impegnate nei colloqui - i Paesi del 5+1 (Usa, Gran Bretagna, Russia, Cina, Francia e Germania) restano a Vienna, il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, è tornato a Teheran per un giorno di consultazioni con i leader del Paese, dal momento che i negoziatori rimangono divisi sul modo di monitorare e limitare il programma nucleare e perfino su come interpretare l’accordo preliminare di due mesi fa.
Devono essere prese ancora «decisioni molto difficili», ha avvertito il capo della diplomazia britannica, Philip Hammond. «Ho detto più volte e lo ripeto oggi, è meglio nessun accordo che un cattivo accordo». Il capo della diplomazia europea, Federica Mogherini, aveva avvertito che era giunto il momento di «scelte politiche» in questa trattativa estenuante iniziata ormai oltre 18 mesi fa: «È una questione di volontà politica, e la volontà politica per un accordo c’è», ha detto Mogherini. Nelle 24 ore a Teheran Zarif dovrà cercare il compromesso tra le richieste dei 5+1 e le «linee rosse» invalicabili indicate una settimana fa dall’ayatollah Khamenei: l’Iran non accetterà ispezioni militari sui suoi siti nucleari, le sanzioni Onu e Usa devono essere revocate contestualmente all’accordo e la ricerca e lo sviluppo non potranno essere bloccati durante il periodo delle restrizione che comunque non potranno durare sul lungo periodo (10-15 anni).

Repubblica 29.6.15
I negoziati slittano ancora una volta: decisive saranno le scelte della Guida suprema
Gli slalom di Khamenei per vincere sul nucleare
di Thomas Erdbrink


TEHERAN MARTEDÌ, i tappeti persiani sono stati srotolati a Beit¬e Rahbar, negli uffici della Guida supremo iraniano Ayatollah Ali Khamenei, a indicare l’imminente arrivo di ospiti importanti. Uno a uno, sono comparsi i membri dell’establishment iraniano: politici e autorità religiose. Sedevano a gambe incrociate in ansiosa attesa, non sapendo cosa aspettarsi da Khamenei che, al lampeggiare delle luci rosse della televisione di Stato, ha cominciato a parlare. Ha lodato il gruppo di negoziatori iraniani: poi, di contro, ha specificato le sette “linee rosse” per i negoziatori. Vincoli che sembravano minare molti accordi chiave già raggiunti con l’Occidente: dopodichè la maggior parte del pubblico, amici e nemici, era confusa. Il leader ha sabotato le negoziazioni con richieste impossibili, qualche giorno prima della scadenza del 30 giugno? Oppure ha cercato di calcare la mano dei suoi delegati? Qualunque sia l’interpretazione, è un classico comportamento di Khamenei, parte di una strategia di ambiguità perseguita da più di dieci anni.
Questa ambiguità serve a molti scopi. Nell’opaco sistema politico iraniano, il leader supremo presiede a uno spettro di fazioni in competizione per il potere, l’influenza e il denaro. Nel tessere la sua trama avanti e indietro soddisfa l’opposizione e contemporaneamente placa i falchi religiosi e militari. Per Khamenei, lo scopo ultimo è la sopravvivenza del suo governo: il suo obiettivo è liberare il Paese dalle sanzioni economiche, pur mantenendo un autonomo programma di energia nucleare. Allo stesso tempo però non deve esporsi alle critiche interne.
Per questo già arrivare al punto dove siamo oggi è stata un’impresa epica. Tutto cominciò nel 2002, con la rivelazione al mondo del programma nucleare, fatta da un gruppo di opposizione: la cosa espose l’Iran alla minaccia di sanzioni economiche, oltre che di un possibile attacco degli Stati Uniti di George W. Bush. Nel cominciare quella che sarebbe diventata una complicata partita a scacchi, Khamenei, ordinò al presidente riformista Mohammad Khatami di rivolgersi all’Europa per la ricerca di un compromesso. Al centro di quello di quello sforzo, c’era Hassan Rouhani, all’epoca al vertice della sicurezza nazionale: a ottobre 2003, strinse un accordo con le potenze europee, con la benedizione dei leader. L’Iran avrebbe sospeso le sue attività di potenziamento nucleare durante le negoziazioni. Quando queste si protrassero, divenne subito chiaro che non si sarebbe arrivati a nulla senza gli stati Uniti, ma il governo Bush non era interessato a trattare con Teheran.
Nel 2005, quando gli americani occuparono l’Iraq ,Khamenei cambiò tattica: ordinò la fine della sospensione volontaria del programma di arricchimento nucleare, mentre veniva eletto Mahmoud Ahmadinejad, un presidente a favore della linea dura. Durante il mandato di Ahmadinejad l’Iran è passato da 64 a 19.000 centrifughe. Cominciò anche a produrre in larga scala l’uranio arricchito al 20% e costruì una infrastruttura nel bunker in una montagna.
Ahmadinejad mise l’Iran al centro della ribalta, ma non in termini lusinghieri: nello stesso tempo, le sanzioni economiche cominciavano a far sentire il loro peso.
Quando il Presidente Obama si insediò nel 2009 le sanzioni furono inasprite ulteriormente, strozzando l’economia iraniana. Con l’economia a pezzi, e forse incoraggiato dalle lettere segrete di Obama, Khamenei dispose una nuova inversione di rotta. Nel 2012 autorizzò colloqui segreti in Oman. «Quelle trattative non potevano essere condotte da Ahmadinejad: ormai era diventato una figura antagonista », dice un analista iraniano. Nel 2013, il Consiglio dei guardiani, che valuta i candidati presidenziali, autorizzò Rouhani, ex negoziatore di Khamenei, a correre alle presidenziali. Vinse facilmente e Khamenei ne fu soddisfatto: Rouhani fu incaricato di restaurare l’immagine dell’Iran nel mondo.
Nel settembre 2013, lo stesso Khamenei segnalò che non era più un tabù trattare direttamente con gli Stati Uniti. Nei fatti significava che era lieto di riavviare le trattative nucleari. Eppure negli ultimi giorni, mentre il ministro degli Esteri Zarif e il Segretario di stato John Kerry raggiungevano Vienna per i colloqui, Khamenei si è nuovamente defilato, rinnegando diversi principi cardine che i negoziatori pensavano di avere definito in precedenza: anche per questo la scadenza del negoziato è stata di nuovo posticipata. Ma questa mossa è legata alla sua strategia di ambiguità per rafforzarsi di fronte agli oppositori interni. «Se ci mostriamo deboli, perdiamo», spiega un consigliere del ministro degli Esteri. «Quello che vogliamo davvero è guidare il mondo musulmano: possiamo farlo solo a testa alta».
(© 201502NewYork Times News Service. Traduzione di Ettore C. Iannelli)

Corriere 29.6.15
Polonia, il drone, l’aborto : scene da un paese che cambia
di Maria Serena Natale


È decollato da Francoforte sull’Oder, ha sorvolato il fiume che disegna la linea di confine Germania-Polonia ristabilita dopo la Seconda guerra mondiale, è atterrato nella polacca Slubice. Il piccolo drone bianco trasportava due confezioni di farmaci abortivi, ad aspettarlo c’erano due donne con regolare ricetta medica che hanno ingerito le pillole davanti a un gruppo di attivisti pro-vita arrivati con volantini e feti di plastica. «Così durante l’occupazione nazista la Germania voleva distruggere la Polonia, promuovendo l’aborto e la contraccezione» ha commentato il quotidiano Nasz Dziennik , parte dell’impero mediatico del fondatore di Radio Maryja , padre Tadeusz Rydzyk.
Scene dalla Polonia che cambia, Paese cattolico e tradizionalista alle prese con le spinte della modernità, dove l’aborto era legale in epoca comunista e il ritorno alla democrazia ha portato un inasprimento delle norme ancora oggi al centro del dibattito. L’aborto in Polonia è consentito solo in caso di stupro, in presenza di seri rischi per la salute della madre o gravi malformazioni del feto. Tema che spacca partiti e opinione pubblica. Il governo liberale di Piattaforma civica ha respinto i tentativi dell’opposizione di arrivare a un divieto totale e ha autorizzato la pillola del giorno dopo, ma il prossimo ottobre si vota e non è detto che gli equilibri restino inalterati. Alle presidenziali di maggio è stato eletto a sorpresa Andrzej Duda di Diritto e giustizia, il partito nazionalista e conservatore di Jaroslaw Kaczynski apertamente sostenuto da Radio Maryja . Segno di fisiologica disaffezione per il governo ma anche di arroccamento identitario davanti alle incognite della crisi e alla percepita «assimilazione» delle specificità nazionali nell’indistinto magma europeo.
In questo contesto va letta la provocatoria incursione del drone di Women on Waves, associazione olandese che lotta per l’interruzione volontaria di gravidanza nei Paesi dove leggi restrittive espongono le donne a pericolosi interventi clandestini (in Polonia circa 50 mila ogni anno). E allo stigma sociale che si aggiunge al dolore di un aborto.

La Stampa 29.6.15
Joseph Petrosino
Il poliziotto anti-mafia che cambiò l’immagine degli italiani a New York
di Paolo Mastrolilli


Prima di Rudy Giuliani, prima ancora di Frank Serpico, c’era Joseph Petrosino, il mitico poliziotto anti mafia che cambiò l’immagine degli italo-americani a New York. Ora un nuovo libro, scritto da Paul Moses e intitolato «An Unlikely Union», celebra la sua figura come la più influente per ricostruire il rapporto fra irlandesi e italiani all’inizio del secolo.
Un campano a New York
Petrosino era nato in Campania, era emigrato a New York, e lavorava come scaricatore di porto. Facendo l’informatore contro il racket della «Black Hand», era riuscito a guadagnarsi un posto da agente. All’epoca la polizia di New York era dominata dagli irlandesi, che consideravano i colleghi italiani «inutili», come titolò il giornale «Brooklyn Eagle», perché automaticamente venduti alla mafia. Joseph però si rimboccò le maniche, fu promosso detective, e nel primo anno di servizio in questa posizione fece 98 arresti, diventando un mito.
Nel 1904 il dipartimento di Polizia decise di creare una speciale unità anti mafia, ma su 8.151 agenti solo 17 erano italiani, e quindi pochissimi parlavano la lingua necessaria ad infiltrare Cosa Nostra.
L’unità speciale
Petrosino ottenne il comando dell’unità, e per non farsi scoprire la insediò in un appartamento anonimo di Waverly Place, fingendo che fosse una impresa di costruzioni. Il trucco funzionò così bene, che i vicini chiamarono la polizia per avvertirla dell’attività condotta nel loro edificio da muratori italiani sospettati di appartenere alla mafia, e un gruppo di agenti che non sapeva della missione segreta affidata a Petrosino fece un raid nel suo ufficio, che non finì a pistolettate solo perché Joe tirò fuori in tempo il suo distintivo di detective. Era diventato così bravo che nel 1909 il capo della polizia lo mandò in Italia per una operazione segreta: doveva scoprire le radici criminali di alcuni boss emigrati negli Usa, per poi cacciarli. Il capo della polizia però non resistette alla tentazione di rivelare la missione di Petrosino, la mafia lo seppe, e lo ammazzò a Palermo. Ora viene da chiedersi se fu solo un errore idiota, o un tradimento.

La Stampa 29.6.15
L’Argentina sfida Londra per il petrolio delle Falkland
Un giudice ordina il sequestro dei beni di cinque multinazionali e società inglesi per “perforazioni illegali”: quel pezzo di mare è nostro
di Filippo Fiorini


Tre giganteschi vascelli di rilevamento sismico, tra cui lo Sterling e il Titan, che il costruttore definisce «semplicemente i più potenti al mondo». Due piattaforme d’estrazione, compresa la Eirik Raude, che ospita 140 persone e vanta un motore da 61 mila cavalli. Un battello oceanografico e capitali per 156 milioni di dollari, di cui una parte è anche italiana, sono i primi prigionieri di guerra a cui punta l’Argentina, nell’offensiva legale che ha appena scatenato contro il petrolio inglese alle Falkland.
Coinvolta anche Edison
L’ordine di sequestro arriva da un giudice della Tierra del Fuego, regione del remoto sud, che mette nel mirino cinque multinazionali degli idrocarburi, tra cui è compresa anche Edison International, controllata da azionisti francesi, ma con sede legale a Milano. L’accusa è quella di aver cercato ed estratto petrolio dalle acque territoriali argentine e di aver anche creato il pericolo di un disastro ambientale. La denuncia sorge da due ministeri di Buenos Aires che, a quattro mesi dalle presidenziali, cercano di fare leva su un tema sensibile come quello delle Malvinas, per suscitare la simpatia dell’elettorato.
I giacimenti marittimi
Di fatto, però, i giacimenti e le attrezzature in questione si trovano tutti entro i confini marittimi dell’arcipelago che l’Argentina invase e riperse nel 1982 (con una guerra che causò circa mille morti), e che nel 2013 ha deciso con un referendum di restare inglese. Il punto è che sei anni fa il governo di Cristina Kirchner ha varato una legge che include nel suo territorio «le isole Malvinas e altri isolotti o rocce» dei dintorni. Poi, ha tirato fuori una risoluzione Onu che impedisce all’Inghilterra di «prendere decisioni unilaterali» sulla questione, e chiede a Londra le royalties sul greggio.
Il silenzio britannico
Sebbene non ci sia ancora stata una risposta ufficiale da parte di Downing Street, che storicamente misconosce le pretese della controparte, l’ultimo faccia a faccia risale ai primi d’aprile. Giovedì 2, la petrolifera Fogl ha annunciato la scoperta di un nuovo giacimento vicino alle isole. Era il giorno del 33esimo anniversario della guerra e la Kirchner, parlando a reti unificate, ha denunciato «l’ennesima provocazione britannica». A rincarare la dose, è stata la rivelazione dell’ex agente americano Edward Snowden, per cui gli inglesi avrebbero a lungo spiato le forze armate di Buenos Aires. La notizia ha provocato una catena di proteste e la reciproca convocazione degli ambasciatori.
La notifica
Oggi, l’Argentina manderà l’ordine di sequestro negli stati in cui le compagnie indagate sono presenti, anche se difficilmente qualcuno lo raccoglierà. Nessuna di loro registra attivi nel Paese, ma un rischio minimo esiste: c’è un gruppo di nazioni che adotta d’ufficio le rivendicazioni argentine sulle Falkland. Nella lista, c’è anche l’Algeria, dove Edison ha comprato il 6% di un pozzo di gas nel maggio 2014. Oltre a questo, basterà non mettere mai piede nelle Pampas per eludere il provvedimento.

La Stampa 29.6.15
Il ’900 è finito e noi ci sentiamo poco bene
Nel passaggio tra XX e XXI secolo i pilastri che sorreggevano la nostra visione del mondo sono crollati: resta un senso di inadeguatezza e l’incapacità di capire il tempo in cui viviamo
di Giovanni De Luna

Verso la fine del 1899 si accese una disputa molto vivace se l’imminente 1900 dovesse contare come ultimo anno del secolo vecchio o come primo del nuovo. Alla fine intervenne l’imperatore di Germania, Guglielmo II, dichiarando che il 1900 era il primo anno del XX secolo: a Berlino, alla mezzanotte di San Silvestro del 1899, campane a distesa e salve di cannone annunciarono la nascita del nuovo secolo. Allora era così. Il tempo poteva essere scandito dagli orologi di Berlino e il potere di un imperatore tedesco faceva direttamente sentire i suoi effetti nella vita quotidiana di milioni di uomini.
Nessuno se ne rese conto, ma quello fu il definitivo addio al tempo storico dell’Ottocento. Nel Novecento il tempo avrebbe smesso di essere il «principio ordinatore» degli eventi umani e della loro rappresentazione fondata sulla successione cronologica, per lasciare posto all’«esperienza della simultaneità»: prima la telefonia e la radio, poi il cinema e la televisione, poi ancora il trasporto aereo, il fax, le reti telematiche, infine il mondo sterminato del web hanno consentito l’accesso immediato a una pluralità di spazi e di tempi cancellando i concetti tradizionali di passato e futuro, di vicino e lontano. Oltre al tempo, anche gli spazi si sono infatti ridefiniti in una dimensione planetaria, proponendosi come territori percorribili istantaneamente, senza più il tempo che era necessario per attraversare le antiche distanze.
L’età dell’inquietudine
Questo cambiamento radicale ha alterato in maniera irreversibile il nostro modo di vivere e ha reso il mondo del ’900 irriconoscibile per tutti quelli che avevano abitato il secolo precedente.
Oggi stiamo vivendo una rottura altrettanto drastica. Nessuna delle definizioni che gli storici hanno utilizzato per leggere il ‘900 sembra resistere a questo passaggio. Charles Maier lo aveva chiamato il «secolo delle ciminiere», riferendosi alle grandi produzioni industriali con le fabbriche che funzionavano con grandi ciminiere, con il carbone o con altre energie «fumanti». Per altri era stato «il secolo delle guerre» (tra il 1900 e il 1993 c’erano stati 54 conflitti armati con ben 185 milioni di morti, di cui l’80% civili). Altri ancora avevano insistito sul totalitarismo, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, l’allargamento planetario dei mercati, l’omologazione indotta dai consumi; definizioni che si muovevano tutte verso un’unica direzione: produzioni di massa, morte di massa, politica di massa, consumi di massa, mezzi di comunicazione di massa attribuivano al Novecento i tratti indelebili del «secolo delle masse». Nell’Occidente euroamericano, a cui questi concetti si riferiscono, si era affacciata alla storia una schiera di produttori, elettori, consumatori, che avevano affollato le fabbriche, le urne elettorali della democrazia, le piazze dei regimi totalitari, i supermercati e i campi dello sterminio e della guerra.
Molti pilastri che sorreggevano queste definizioni sono crollati. E sulle loro macerie è affiorata un’inquietudine, un senso di inadeguatezza. Molti degli eventi che caratterizzano il nostro tempo ci appaiono incomprensibili. Le categorie del ’900 non ci aiutano a capire l’Isis; un’Europa che abbiamo imparato a conoscere attraverso gli Stati che vi aderivano, ora - per la prima volta, con la Grecia - rischia di perderne uno. La competizione globale tra i Paesi industrializzati, i flussi dell’informazione, del sapere, del denaro, delle persone e delle immagini hanno superato i limiti territoriali degli Stati nazionali, disvelando uno scenario i cui confini sono solo il cielo e la terra.
Totalitarismo tecnologico
Il binomio Guerra e Stato, ad esempio, per secoli inscindibile, si è ora dissolto in quelle che chiamiamo le «guerre postnazionali», caratterizzate, da un lato, da una complessiva «privatizzazione» dei conflitti armati (i mercenari, i volontari, il tramonto della tradizionale figura del soldato), dall’altro dalla dimensione sempre più sovrannazionale dei poteri di comando sulle forze armate che operano nei vari fronti. E sono cambiati anche gli aspetti ideologici della guerra, con una netta accentuazione della sua «confessionalità»: si combatte in nome di Dio, e la dimensione laica delle categorie «amico» e «nemico» viene dissolta in un universo in cui l’avversario diventa un alleato del Diavolo, un ostacolo all’espandersi del bene da cancellare. Non più la sconfitta militare, ma l’annientamento del nemico rappresenta così l’unico scopo plausibile della guerra.
Ma è soprattutto nella Rete e nella rivoluzione digitale che sono emerse le principali novità post-novecentesche. La velocità del cambiamento digitale è stata vertiginosa e ormai la Rete penetra in ogni angolo della nostra vita: il lavoro, il tempo libero, l’organizzazione del dibattito politico e della protesta sociale, perfino le nostre relazioni sociali e i nostri affetti. Facebook e Twitter, programmaticamente nati per renderci più amici, più solidali e allargare i nostri spazi «comunitari», oggi si sono insinuati prepotentemente nella nostra privacy, determinano e controllano i nostri gusti e i nostri consumi. Quasi che dal totalitarismo ideologico del XX secolo si stia passando a quello tecnologico del XXI.

Corriere 29.6.15
Il gran virtuoso della malinconia
La Rochefoucauld era pessimista ma con misura: la conversazione lo consolava e apprezzava il capriccio
Le malattie dell’anima sono esplorate palmo a palmo, l’indagine affronta l’amor proprio e finalmente approda alla saggezza
di Pietro Citati


Françis de La Rochefoucauld, nato a Parigi nel 1613 e morto a Parigi nel 1680, era un malinconico. Nel suo bellissimo autoritratto, disse così di se stesso: «Mi sono studiato abbastanza per conoscermi bene. Per parlare del mio temperamento, sono malinconico, e lo sono al punto che in tre o quattro anni mi si è visto ridere sì e no tre o quattro volte…La malinconia mi pervade in tal modo l’immaginazione e mi occupa così tanto lo spirito, che per il più del tempo o fantastico senza aprire bocca o non bado quasi per nulla a ciò che dico. Sono molto chiuso con gli sconosciuti, né estremamente aperto con la maggior parte di coloro che conosco». Posseduto da questa malinconia, agì nella prima parte della sua vita: fu deluso e sconfitto, amaramente e tragicamente; e poi si ritirò nei salotti di Parigi, insieme ai suoi amici, tra i quali madame de la Fayette, con cui si abbandonava al conforto e alla gioia della conversazione. Conversare era per lui, in primo luogo, saper ascoltare: un’estrema facoltà di attenzione.
Alla conversazione con gli amici, e a quella conversazione più intima e sconosciuta che teneva con sé stesso, la Rochefoucauld dovette la sua opera più famosa, un libro che getta la sua disperata e ironica ombra su tutta la letteratura francese e su molta letteratura europea: le Sentenze e massime morali , di cui Carlo Carena ha appena procurato un’eccellente edizione — traduzione (Einaudi), dove le frasi italiane fronteggiano senza essere sconfitte le mirabili sentenze francesi. Nos vertus ne sont le plus souvent que des vices déguisés . Le nostre virtù non sono più delle volte che vizi travestiti, dichiara l’epigrafe a partire dalla quarta edizione, annunciando uno dei temi ricorrenti del libro.
La Rochefoucauld crede nella Provvidenza: «Per quanta instabilità e varietà appaia nel mondo, vi si mostra tuttavia una certa concatenazione segreta e un ordine regolato da sempre dalla Provvidenza, che fa sì che ogni cosa procede al suo posto e segue il corso del suo destino». All’interno del mondo della Provvidenza, egli sceglie la figura del peccatore, che considera l’uomo reale, l’unico che egli conosca visibilmente, sebbene mostri una silenziosa venerazione per l’uomo che vive nella grazia e obbedisce alla grazia. Ricerca le leggi del regno del peccatore: l’immenso, reale e fantastico, quotidiano e grandioso, territorio dell’amor proprio a cui dedica la parte più evidente del suo libro, perché «vi rimangono ancora molte terre ignote». Il regno dell’amor proprio ha anche un altro nome: l’interesse che, come l’amor proprio, ha infinite manifestazioni spesso capovolte. «L’interesse parla ogni sorta di lingua e interpreta ogni sorta di personaggi, anche quello del disinteressato».
L’amor proprio suscita in la Rochefoucauld una meravigliosa eloquenza, che si nutre alla propria fonte, senza esaurirsi mai. «L’amor proprio è l’amore di se stesso e di ogni cosa per sé: esso rende gli uomini idolatri di se stessi. Nulla è più impetuoso come i suoi desideri, nulla è nascosto come i suoi propositi, nulla astuto come i suoi comportamenti… Non si può sondare la profondità né fendere le tenebre dei suoi abissi. Là è al coperto degli occhi più penetranti: vi compie mille impercettibili giri e rigiri». L’amor proprio ha, in primo luogo, una vita inconscia. «Vi concepisce, vi nutre e vi alleva inconsapevolmente un grande numero di affetti e di odi; ne forma di così mostruosi, che quando li ha messi in luce, li disconosce od esita ad approvarli». Ma ha anche una lussureggiante vita conscia, posseduta da una prodigiosa forza immaginativa. Alla fine, La Rochefoucauld è spaventato dalla sua stessa creatura: perché l’amor proprio rende gli uomini più crudeli di quanto li renda la stessa «ferocia naturale».
Nel regno dell’amor proprio, la Rochefoucauld scopre una forza, che ha qualcosa di grandiosamente meccanico: quella del rovesciamento, di cui egli segue i movimenti e gli spostamenti, come Freud, secoli dopo, seguirà gi spostamenti della sua meccanica psicologica. «Le passioni ne generano spesso di contrarie. L’avarizia produce talvolta la prodigalità, e la prodigalità l’avarizia». «Gli uomini non solo sono soggetti a perdere i ricordi dei benefici e delle offese: essi odiano persino coloro che li hanno resi debitori». «Questa clemenza di cui si fa una virtù è praticata talora per vanità, qualche volta per pigrizia, spesso per timore, e quasi sempre per tutt’e tre le cose insieme». Così il mondo reale, il mondo nel quale egli vive e conversa, e noi continuiamo a vivere e conversare, è quello della maschera, che diventa una forza interna, perché siamo così abituati a mascherarci agli altri che alla fine ci mascheriamo anche a noi stessi. Tutti esibiscono una sembianza, per apparire all’esterno quel che vogliono essere creduti, così che il mondo non è composto che di infinite sembianze.
Nelle sue esplorazioni la Rochefoucauld si sofferma su ciò che è più visibile ed evidente: il mondo del corpo, che ha una corrispondenza continua e incessante con quello dell’anima. Basta fissare il fisico e si risale al cuore. Ci sono malattie dell’anima e malattie del corpo: ferite del corpo e difetti dell’anima; la cicatrice si vede sempre. Tutte le passioni non sono altro che diversi gradi di calore e di freddezza del corpo. Le malattie traggono origine dalle passioni e dalle sofferenze dell’animo. Questo causa, molto spesso, una conseguenza: noi non ci conosciamo: perché ignoriamo gli umori del corpo, che muovono e volgono impercettibilmente le nostre volontà: essi esercitano un dominio occulto dentro di noi; e hanno una parte considerevole in tutte le nostre azioni, senza che lo sappiamo. Dovunque la Rochefoucauld volge il suo sguardo lucidissimo, la luce della realtà si spegne rapidamente davanti a lui, che scorge soltanto tenebre.
L’esplorazione di La Rochefoucauld continua ad estendersi: sempre più lontano, sempre più lontano, nel ristretto e immenso regno dell’amor proprio. Più vede, più la difficoltà di vedere sembra accrescersi, perché nel cuore di ogni persona ci sono infinite contraddizioni: molte più di quante ne può inventare l’immaginazione; talvolta si è tanto diversi da se stessi quanto dagli altri. Un individuo può avere molte verità: un altro soltanto una: quello che ha molte verità è più pregevole; e nella vita deve osservare lo stesso equilibro che osservano, nella musica, le varie voci e i vari strumenti.
Col procedere dello sguardo, il pessimismo delle Sentenze aumenta. Ecco l’invidia: questa passione timida e ignobile, che non osa mai confessare se stessa; un vero delirio, che dura sempre più a lungo della felicità di coloro che spia. Ecco la vanità tremenda e spregevole: mentre le passioni più violente ci lasciano qualche volta una tregua, essa ci agita sempre, unica, ossessiva, attraverso tutte le forme che assume. Ecco l’inganno, che viene disprezzato come segno di un intelletto piccolo o mediocre. E la malvagità, che domina l’uomo e non gli lascia via di fuga: «Solitamente si fa del bene per poter fare impunemente del male». «Ci sono dei cattivi che sarebbero meno pericolosi se non avessero affetti buoni». C’è infine la grande malvagità, che spesso è propria degli uomini grandi; e per essi la Rochefoucauld nutre una profonda ammirazione.
C’è un’oasi, per la quale la Rochefoucauld nutre una specie di tenerezza: il mondo volatile e libertino del capriccio, «ancora più bizzarro di quello della fortuna». È il mare enorme dei temperamenti leggeri e frivoli: temperamenti incostanti, per incostanza, leggerezza, amore, curiosità, tedio e disgusto; essi stanno a metà, senza avere difetti né qualità solide. Qui trionfa l’ esprit , la galanteria dell’intelletto. Per loro le Sentenze provano un divertito disprezzo. La Rochefoucauld gioca deliziosamente, rinunciando ai toni alti e superbi. Ecco le immagini spiritose, spesso di prodigiosa eleganza. «I vecchi amano dare precetti, per consolarsi di non essere più in grado di dare cattivi esempi».
Avremmo torto a vedere nelle Sentenze soltanto il sistema dell’amor proprio. La Rochefoucauld possiede un’immensa fantasia; e a un certo punto, la sua creazione gli sembra piccola, ed egli si eleva sempre più in alto. «Coloro che si applicano troppo alle piccole cose, di solito diventano incapaci delle grandi», dice, certo pensando al suo libro. Se ci sono i falsi, gli uomini con la maschera, ci sono anche — e non importa che siano pochi — i sinceri. Il loro è il regno della grandezza dello spirito, chiamato giudizio: «Il giudizio non è che la grandezza del lume dell’intelletto: questo lume penetra al fondo delle cose, vi rileva tutto ciò che bisogna rilevare e percepisce quelle che sembrano impercettibili».
Con quale rilievo ed esaltazione, egli sottolinea la grandezza del lume dell’intelletto: lo stesso lume che illumina la totalità delle Sentenze . Nelle Riflessioni diverse insiste. Le conoscenze del grande intelletto sono sterminate, agisce sempre nello stesso modo e con la stessa alacrità, distingue gli oggetti lontani come fossero presenti, capisce, immagina le più grandi cose, vede e conosce le più piccole: i suoi pensieri sono elevati, vasti, giusti e comprensibili. Nulla sfugge alla sua perspicacia. Egli dice tutto ciò che occorre, e non dice se non ciò che occorre. Fa intendere in poche parole molte cose, mentre gli spiriti piccini hanno il dono di parlare molto senza dire nulla.
La grandezza del lume dell’intelletto ha molti nomi, che non ne esauriscono i limiti. Il coraggio: «L’intrepidezza è una forza straordinaria dell’animo, che lo innalza al di sopra dei turbamenti, degli scompigli e delle emozioni; ed è grazie a questa forza che gli eroi si mantengono in uno stato tranquillo». La fierezza: «L’orgoglio, come stanco dei suoi artifici e delle sue diverse metamorfosi, dopo aver interpretato lui solo i personaggi della commedia umana, si mostra con un volto naturale, ci si scopre con la sua fierezza, per cui, propriamente, la fierezza è la manifestazione e la liberazione dell’orgoglio». Sopratutto i disegni e i propositi: le grandi anime non sono quelle che hanno meno passione e più virtù delle anime comuni, ma semplicemente quelle che hanno più grandi disegni. Nel sistema dell’amor proprio, il coraggio, la fierezza, e i disegni e i propositi venivano ricondotti, come maschere, a vizi che occultavano. Qui, invece, queste facoltà dell’animo valgono per se stesse, riportate al loro modello eroico.
L’amore occupa il colmo dell’animo. È molto difficile definirlo. Si può dire — così la Rochefoucauld si avvicina al suo tema — che nell’animo esso è una bramosia di dominio: negli spiriti un’affinità; e nel corpo un desiderio nascosto e sottile di possedere ciò che si ama dopo tanti misteri. Poi le Sentenze compiono un passo terribile: se giudichiamo l’amore dalla maggior parte dei suoi affetti, assomiglia più all’odio che all’amicizia; «più si ama un’amante, e più si è prossimi ad odiarla». Infine la costanza, che dovrebbe sostenere l’amore, si dissolve in incostanza. La costanza in amore è un’incostanza perenne, per cui il nostro cuore si attacca incessantemente a tutte le qualità delle persone amate, dando la preferenza ora a questo ora all’altro; sicché questa costanza è un’incostanza ristretta e racchiusa in un medesimo soggetto.
Il tentativo di avvicinarsi all’amore non ha fine. Ora è una febbre; e non abbiamo alcun potere né sulla febbre né sull’amore, sia per la loro violenza, sia per la loro durata. Ora è come il mare: l’amore che si estingue e muore è simile a quelle lunghe bonacce, a quelle calme e tediose che si incontrano all’equatore: stanchi di un lungo viaggio aneliamo a concludere; scorgiamo la terra, ma manca il vento per raggiungerla: le malattie e i languori impediscono di agire: l’acqua e i viveri mancano: siamo stanchi di tutto ciò che scorgiamo; stiamo sempre sugli stessi pensieri e siamo sempre tediati. Ma attraverso tutte le metamorfosi e le trasformazioni, l’amore ci dimostra ogni giorno di esistere; e di essere una grande passione, che occupa il centro della nostra vita e del nostro cuore, avvolgendo come un alone il lume dell’intelletto. «L’amore, da solo, ha creato più male che tutto il resto insieme; ma poiché procura anche i più grandi beni della vita, anziché maledirlo, si deve tacere; e lo si deve temere e rispettare sempre». L’amore si chiude così, nel silenzio.
Intorno al culmine del cuore, sta una facoltà misteriosa, che non possiamo chiamare che follia. Essa ci accompagna in ogni tempo della vita. Infine fa un balzo: nasce dalla più sottile saggezza, e costituisce l’essenza stessa della saggezza. «Invecchiando si diventa più folli e più saggi».
La Rochefoucauld è maestro in tutti gli stili: non solo nel fulgore rapido e istantaneo della sentenza, ma nella prosa diffusa e costruita che eccelle nelle Riflessioni diverse , le quali discorrono del vero, della società, della conversazione, della confidenza, della gelosia ma anche di un personaggio straordinario e impossibile come Alessandro Magno, «modello di elevazione d’animo e di grandezza d’ardimento». Dovunque, non solo nelle Sentenze , la prosa tende alla concentrazione e alla sintesi. La Rochefoucauld si abbandona al suo mirabile istinto analitico: distingue e ancora distingue e sottodistingue; poi costruisce massime abbaglianti e misteriose, che talora comprendono la ricchezza nascosta di un racconto, colpiscono la nostra anima e ci inducono a fantasticare.

Repubblica 29.6.15
Quanto vale il bonus mamma
L’importanza della maternità deve stare a cuore a tutti
Più prestigio e potere sociale
Non solo diritti ma il riconoscimento di un ruolo: fare figli non conta meno che governare un’azienda
di Vera Schiavazzi


A lanciare un (controverso) appello, con una lettera a Repubblica, è stata una docente di ginecologia. Che ha aperto un vivace dibattito: molti concordano, altri obiettano. Una prova di quanto il tema sia sensibile

Dare prestigio alla maternità. Non solo tutele, non solo diritti, ma un salto culturale (e politico) che la renda «più prestigiosa della carica di amministratore delegato di un’azienda, più prestigiosa di prestigiosi incarichi politici». Il sasso nello stagno lo ha lanciato, con una lettera a Repubblica, Eleonora Porcu, docente di ginecologia all’Università di Bologna. Suscitando decine di risposte sulla pagina Facebook del giornale, molte entusiaste e altrettante apertamente critiche, ma soprattutto riaprendo un dibattito che non si è mai chiuso in Italia. Giustificato anche dai dati più recenti dell’Istat. Nel 2014, la popolazione è diminuita di oltre 95mila unità: mortalità stazionaria, ma calo delle nascite del 2,3 per cento rispetto al 2013, qualcosa che non accadeva nel Paese dal 1917. Ovviamente, la dottoressa Porcu non indica nei figli la ragione unica, o ultima, di ogni vita femminile. Ma propone che l’atto di fare figli diventi qualcosa in più di una scelta individuale: «Costituisce un servizio sociale di valore incommesurabile, un oggettivo investimento sul futuro che un paese deve valorizzare». La centralità e la priorità della scelta devono diventare un nucleo dell’organizzazione sociale. Il cambiamento suggerito, però, non è fatto solo dalle misure che già da anni gli esperti indicano per risollevare la natalità italiana, riaccostandola, per esempio, a quella francese: dall’1,42 per ogni donna verso un 2 per cento che, al di là delle Alpi, dura quasi invariato dagli anni Settanta. E cioè più asili, più congedi, più smart working (cosa ben diversa dall’emarginato e emarginante telelavoro). Tutte queste cose servono, così come misure fiscali diverse, con detrazioni per la scuola materna e per l’affitto, raddoppio delle detrazioni per i figli a carico. L’idea nuova, invece, è quella di una diversa presa del potere, di un “tormentone” rivolto alla politica, alle aziende, agli uomini per riportare al centro la declinazione procreativa delle donne. «L’eclisse del matriarcato — dice Daniela Del Boca, docente di economia e direttore di Child, tra le più importanti studiose delle politiche rivolte a donne e famiglie — è un fatto storico ineludibile. Non c’è più il potere sociale di una donna con molti figli, meglio se maschi, e nel frattempo non si è venuti incontro alle esigenze della madri che lavorano. Ora, la crisi ha portato a un’ulteriore riduzione dell’investimento sulla fascia 0-6 anni, che era già molto basso in Italia, e molte famiglie preferiscono risparmiare tenendo i figli a casa. Anche la genitorialità, estesa ai maschi, non è un valore riconosciuto». Che fare? Insistere sulle politiche family friendly, e prendere esempio da regole positive che arrivano dai sistemi pubblici, come il conto degli anni investiti nella maternità che vada ad aggiungersi all’età massima per affrontare un concorso. In molte grandi compagnie si è cominciato a insistere in questa direzione. A Vodafone, per esempio,l’occupazionefemmiil bonus nile è al 55 per cento e al 40 tra i ruoli manageriali. Come? «È la cultura meritocratica a far salire l’eccellenza femminile nelle scelte manageriali — dice Elisabetta Caldera, direttore delle risorse umane e dell’organizzazione nella compagnia — Noi garantiamo sempre la presenza di almeno una donna in tutte le rose di candidati per una promozione o un’assunzione, e paghiamo la maternità a stipendio pieno per nove mesi e mezzo ».
Su 3.700 donne in Vodafone, 2.100 hanno figli e 550 sone le mamme che hanno partorito negli ultimi tre anni. Ma il punto- chiave, per Caldera, è una cultura del lavoro orientata sul risultato e non sulla presenza, adottando per tutti uno smart working che consenta di connettersi da remoto, senza con questo costringere nessuno a non venire in ufficio e restare tagliata fuori dalle relazioni professionali. «Attraverso tutte queste politiche — dice la manager — si consente alle donne di rientrare più serene e non si perdono competenze. Il business aziendale migliora ». «Essere madri quando lo si desidera, ascoltando se stesse rispetto ai propri richiami biologici è fondamentaòe — dice Simona Cuomo, docente di organizzazione e persionale alla Bocconi — Ma bisogna poterlo fare senza che l’organizzazione intervenga sugli aspetti del femminile, per esempio offrendo il congelamento degli ovuli. Per questo credo che sia il momento di insistere sull’idea di genitorialità: fare figli è un’esigenza sociale, che ovviamente dipende dalle donne ma non è limitata soltanto a loro.
La flessibilità nelle aziende, che è importantissima ed è molto più diffusa nel nord rispetto al sud Europa, dovrebbe aiutare tutti a prendersi cura della famiglia, ed è solo in questo modo che si supererà l’asimmetria e lo stigma che condiziona le carriere femminili». Ma solo il 21% delle aziende italiane ha introdotto processi di diversity management , e molte non hanno nominato nessuno a dirigere il settore. E se il 100 per 100 del campione esaminato dalla Bocconi per studiare le migliori prassi di gestione della diversità (e dunque dell’equilibrio tra vita privata e lavoro) ha adottato i permessi di maternità, solo il 67 per cento utilizza anche quelli di paternità, mentre gli interventi per aiutare la gestione del tempo familiare per entrambi i generi esistono solo nel 9 per cento delle società. In un’altra inchiesta, commissionata da Prénatal all’Ispo, i congedi parentali nei primi 36 mesi di vita del figlio sono stati adottati dal 50 per cento delle lavoratrici madri, e rappresentano lo strumento più usato, mentre solo il 20 per cento ha potuto godere di una flessibilità oraria. E sette donne su dieci dicono che i problemi migliorerebbero se il capo fosse una donna, ma a non crederci sono soprattutto quelle che ci hanno già provato, come le dipendenti pubbliche e chi ha tra i 45 e i 54 anni. Il punto, sostiene Daniela Del Boca, «è che i cambiamenti tecnologici e sociali non si sono accompagnati alla priorità genitoriale, anzi, spesso hanno portato con sé una mascolinizzazione dei processi di lavoro. Datori di lavoro e mariti non sono andati incontro alle donne, e la maternità è stata esclusa dai diritti prioritari che un Paese dovrebbe garantire».
Tra i risultati del processo mancato, c’è anche l’idea che i progressi nella cura della fertilità consentano a tutte di avere figli anche quando il tempo biologico è scaduto. «Dopo esserci affrancate dalla maternità obbligatoria del passato — dice Eleonora Porcu — potremo diventare protagoniste di una maternità davvero libera perché prestigiosa. E capace anche di rispettare i limiti della fertilità, che dopo i 35 anni cala inesorabilmente ». Vuol dire incoraggiare chi decide, al governo e nelle aziende, di offrire a tutti i lavoratori la possibilità di scegliere anche da giovani, anche durante la gavetta che li porterà a diventare un quadro, un capo ufficio, un socio dello studio, un primario o un professore di ruolo. Così, il Pil potrebbe tornare a salire (fino al 13 per cento, in Europa, secondo una ricerca di Goldman Sachs se le donne lavoratrici raggiungessero i maschi), creare posti di lavoro (15 in più ogni 100 donne nei servizi). E crescerebbe anche la felicità di chi lavora.

Corriere 29.6.15
Tutti segreti che il Dna ci ha svelato in 15 anni
Dall’attività dei geni nei tessuti ai successi nella lotta ai tumori
Il futuro? Cure personalizzate
di Edoardo Boncinelli


«A vevano detto prima nel 2005, poi nel 2003, e infine nel giugno 2000. E così è stato. Da ieri sappiamo quasi tutto sul nostro genoma, cioè sul nostro patrimonio genetico, quel complesso di istruzioni biologiche necessarie per costruire un essere umano, farlo vivere, convivere e riprodurre. Forse potremmo anche sospendere per qualche ora le considerazioni sulle questioni di politica spicciola e sulla vita dei vari partiti politici. Come esseri umani abbiamo qualcosa da festeggiare, qualcosa che ci dovrebbe rendere giustamente fieri delle nostre capacità tecniche, del nostro ingegno e del nostro coraggio». Con queste parole annunciai sulla prima pagina del Corriere il completamento della decifrazione del genoma umano verso la fine di giugno dell’anno 2000. Sono passati 15 anni e probabilmente anche oggi userei le stesse parole. Con la differenza che oggi possiamo fare un bilancio, almeno parziale.
In primo luogo il fatto in sé: siamo la prima specie vivente — e probabilmente l’unica — che si è ripiegata su se stessa e ha voluto leggere il libro che descrive la propria natura biologica. Tale lettura potrà dire poco o potrà dire tanto, ma quello che dirà è in un certo senso definitivo. E unico. Almeno come punto di partenza noi siamo quello. Dalla data di questo completamento sono successe tante cose, alcune importanti per la nostra conoscenza del fenomeno vita, altre per la nostra salute, altre infine come preparazione a un futuro ancora più allettante. Sul piano conoscitivo questa impresa di 15 anni fa ha sconvolto la nostra visione dell’azione dei geni. È noto che non basta possedere un gene che sia anche sano; occorre che questo si attivi e si disattivi nei tessuti giusti, nel momento giusto e nella quantità giusta. Di ciò si occupa il problema generale della regolazione genica, allo studio della quale lavorano quasi tutti i laboratori del mondo.
Non possiamo nemmeno tentare di riassumere che cosa si è imparato da allora, ma basti accennare al nuovo inusitato ruolo che abbiamo scoperto avere i piccolissimi frammenti di Rna che prendono il nome di microRna. Sempre sul piano conoscitivo siamo stati in grado in questi anni di fare confronti arditi fra il nostro patrimonio genetico e quello delle specie più diverse, vicine o lontanissime, per trovare per esempio che circa 40.000 anni fa qualcuno dei nostri antenati si è biologicamente incrociato con qualche individuo della specie cugina dei cosiddetti Neanderthal.
È abbastanza comprensibile che la gran massa delle persone sia più interessata alle applicazioni pratiche di tutto questo, applicazione che non sono mancate, soprattutto nel campo oncologico. È noto da quasi quaranta anni che i tumori si originano per una mutazione in un certo numero di geni particolari, detti oncogeni e geni oncosoppressori. All’inizio se ne conoscevano 18, poi una trentina, poi un centinaio, ora diverse centinaia. La facilità con la quale si può oggi studiare tutto il Dna delle diverse persone ha permesso di aggiornare questo «inventario» di geni sospetti, allo scopo di prevenire e magari affrontare molti casi clinici di tumori. In alcuni casi particolari la mortalità è scesa dall’80% al 30%, e in altri casi fortunati ancora di più, con una percentuale di successo nella diagnosi che cresce ogni giorno.
Subito dopo le malattie tumorali sono quelle cardiocircolatorie e quelle neurodegenerative ad avere tratto profitto dalla decifrazione del nostro genoma. Si possono considerare infine due tipi di nuove opportunità, apertesi 15 anni fa: la lettura veloce e a buon mercato del genoma di singoli individui, come pure la possibilità di studiare il genoma in azione in singole cellule del corpo, in primissimo luogo quelle del cervello. Con la prima opportunità si è aperta l’era della medicina personalizzata, mentre con la seconda quella dello studio approfondito delle nostre funzioni cerebrali, prima fra tutte la memoria e la sua conservazione, un problema che attende ancora oggi una vera soluzione.
«E l’Italia?» mi chiedevo allora. «In questa grande festa, l’Italia della biologia praticamente non c’è, o almeno occupa un posto piccolo piccolo. Non ci mancano certamente i cervelli, né la voglia di rimboccarsi le maniche, né un certo coraggio imprenditoriale. Perché non mettere tutto questo al servizio della ricerca biologica anche nel nostro Paese? Siamo ancora in tempo». Anche oggi. Forse.

Corriere 29.6.15
Per 99 dollari la mappatura fatta in casa (ma è inutile)
di Margherita De Bac


Costa meno di taglio e colpi di sole dal parrucchiere anche se promette di svelare aspetti reconditi della vita personale. «Scopri cosa il tuo Dna dice di te e della tua famiglia», è lo slogan. Un kit a domicilio da ordinare su Internet, 99 dollari incluse le analisi complete del Dna anche queste inviate per posta elettronica tramite un indirizzo protetto. Basta un campione di saliva. L’azienda americana «23andme», chiamata così dal numero dei cromosomi umani, 23 paia, offre il servizio a chi, oltre a ricostruire il suo stampo genetico, vuole sapere se è portatore di alterazioni. Dunque se rischia di sviluppare certe malattie in modo da modificare il suo stile di vita per allontanarne la minaccia. È una delle conseguenze commerciali più discutibili della rivoluzione avviata quindici anni fa. Definito nel 2007 scoperta dell’anno, il kit è l’unico al mondo per il fai-da-te. Il fatto che sia consegnato direttamente al paziente, senza la prescrizione del medico, è un azzardo anche perché le risposte predittive andrebbero interpretate dagli specialisti con molta prudenza. Nel 2013 l’Agenzia americana dei farmaci lo ha sospeso. La vendita in Usa per analisi collegate alla salute è bloccata ed è ripresa solo in Inghilterra e Canada alla fine dell’anno successivo. Tra i Paesi dove l’azienda consegna c’è anche l’Italia ma non risultano ordini. I genetisti sono fermamente contrari. Nei laboratori seri il sequenziamento viene effettuato solo se c’è la richiesta del medico, oppure se esiste un’alterazione specifica da cercare sulla base di un sospetto. La prospettiva che si possa fare tutto da soli, come per il test di gravidanza, è lontana.

La Stampa 29.6.15
L’opera? È malata ma migliora
Segnali di vita dai teatri italiani
Da Bologna a Roma passando per il Maggio Fiorentino, qualità in crescita
di Alberto Mattioli


In fondo al tunnel si inizia a intravedere una luce. Fioca, ma c’è. Si può forse sperare che il Paese che l’ha inventata non distruggerà l’opera lirica.
Fino a qualche tempo fa, posto che Scala e Santa Cecilia fanno gara a sé, delle dodici restanti fondazioni lirico-sinfoniche italiane erano frequentabili solo la Fenice e il Regio di Torino. Per le altre, veniva voglia di chiudere i portoni e buttare via la chiave. Adesso capita di fare un salto al Pelléas et Mélisande del Maggio musicale fiorentino e di doverne fare subito un altro sulla sedia. Che meraviglia. Direzione musicalmente splendida e intellettualmente stimolante di Daniele Gatti, orchestra in grandissimo spolvero, compagnia ben scelta, ben preparata, ben cantante e per giunta tutta italiana, bello spettacolo di Daniele Abbado. Insomma chapeau, è un Debussy da serie A e pure da zona Champions, una produzione davvero «da Maggio», come si sarebbe detto una volta, cioè da grande festival europeo, non la sua caricatura degli ultimi tempi, quando si affidavano delle risibili Aide a Ozpetek.
Dopo la legge Bray
E poi anche il resto del cartellone fiorentino è stato di buon livello e quello prossimo venturo, la stagioncina estiva per i turisti, propone sì titoli polari ma, per esempio, Il barbiere di Siviglia è quello di Damiano Michieletto. Restano, ovvio, dei problemi, qualche residua tensione sindacale, un teatro, inteso come edificio, nuovo ma pieno di guai, un rapporto tutto da ricostruire con la città, molto lavoro da fare sul marketing. Però Firenze è una delle otto fondazioni che hanno dovuto ricorrere alla legge Bray, dunque sono state messe di fronte a un’alternativa radicale: o rifondarsi o chiudere. Beh, la rifondazione sta funzionando.
E non solo lì. Prendete il Comunale di Bologna. Negli Anni ’80 e ’90 era un grande teatro, dove i direttori musicali si chiamavano Riccardo Chailly o Daniele Gatti e il primo ospite, par di sognare, Christian Thielemann. Poi sono seguiti anni di conti sempre più in rosso e di scelte artistiche sempre più provinciali. Adesso, segni di ripresa. Intanto, il teatro si è aggiudicato come direttore musicale Michele Mariotti, cioè il miglior giovane della sua generazione. E poi, anche lì, si è vista una Jenufa importante, coprodotta con la Monnaie di Bruxelles, cantata bene, diretta meglio e con uno spettacolo di Alvis Hermanis che poteva piacere o no, ma non lasciava indifferenti come i patetici concerti in costume che in Italia tanti ancora scambiano per regie d’opera. Del resto, Bologna è l’unico teatro italiano ad aver importato, sempre da Bruxelles, il Parsifal di Castellucci, regista italiano molto controverso che in Italia, almeno per l’opera, nessuno si fila (e intanto inaugura con Moses und Aron la prima bellissima stagione parigina di Stéphane Lissner).
Sorpresa nella Capitale
Buoni segnali anche da un’altro teatro brayzzato, quello di Genova. Lì si fanno delle gran riprese di vecchi spettacoli, cosa giustissima se sono belli e si deve risparmiare. Il Billy Budd con la regia di Davide Livermore era vecchio ma bellissimo, e a una recente recita di Carmen (sempre Livermore) si è rivisto il Carlo Felice pieno e festante.
Però la vera sorpresa è l’Opera di Roma, il simbolo stesso di tutte le inefficienze, i privilegi, gli sprechi e le cialtronerie della lirica «made in Italy». Ma il nuovo sovrintendente, Carlo Fuortes, ha dato una bella regolata alle follie sindacali. E quando si è vista la nuova stagione non ci si poteva credere: è bellissima, sia per i titoli sia per chi dovrà realizzarli. Finalmente un cartellone da teatro europeo e non da tinello de’ noantri infestato da vecchie glorie, amici degli amici e figli di (come poi il pubblico giurassico dell’Opera accoglierà gli spettacoli di Michieletto, Terry Gilliam o Emma Dante sarà tutto da vedere, e magari tutto da ridere. Ma intanto ci sono). Ed è dell’altro giorno la notizia del regalo di un milione di euro alla Fondazione da parte di un magnate asiatico melomane, roba che di regola succede a Salisburgo, non a Roma.
Morale. Nonostante tutto, in Italia per l’opera qualche speranza c’è. Come dicevano i saggi democristiani: cauto ottimismo. Di questi tempi, non è poco.