MISCELLANEA DI DOMENICA 28 GIUGNO
Il Sole 26.6.15I tempi della finanza, i tempi della democrazia
di Luigi Zingales
Molti anni dopo la crisi dei missili a Cuba, l’allora ministro della difesa americana McNamara chiese a Fidel Castro, se – qualora attaccato—avrebbe risposto con i missili nucleari. Stupito della risposta affermativa chiese a Castro se si rendeva conto che questo avrebbe comportato l’annientamento del suo popolo. La risposta fu un agghiacciante «sì».Per fortuna nella crisi greca non ci sono ordigni nucleari di mezzo. Ma questa è l’unica consolazione che abbiamo in un momento estremamente difficile.
Quello che la lezione di Cuba ci insegna e’ che i modelli di teoria dei giochi, che assumono la razionalità di tutti i giocatori coinvolti, non sempre funzionano. Costretti all’angolo, alcuni giocatori antepongono l’orgoglio alla ragione e compiono scelte devastanti per loro e per tutte le persone coinvolte. Questo sarebbe stato il caso di Castro se Kennedy avesse bombardato le postazioni dei missili a Cuba, e questo e’ il caso oggi con la decisione di Tsipras di indire un referendum sul accordo offerto dai creditori alla Grecia.
Molti ritengono che la scelta di Tsipras sia sommamente democratica, ed e’ vero. Ma qui e’ dove i tempi della democrazia non coincidono con quelli della finanza. Lunedì mattina la corsa agli sportelli, già cominciata da tempo, si trasformerà in un vero e proprio assalto. Difficilmente la Banca Centrale Europea potrà aumentare la sua assistenza di liquidità, soprattutto dopo il 30 giugno, quando il mancato pagamento del prestito al Fondo Monetario Internazionale sarà ufficiale. Bloccare i movimenti di capitale non basterà. La gente si metterà a ritirare contanti. Se – come già in Argentina—si procederà anche ad un tetto mensile dei prelievi in contranti, ci sarà l’assalto ai negozi, con carte di credito. Meglio comprare dei beni che non si svalutano che tenersi dei depositi che rischiano di svalutarsi del 40-50%. In questa situazione e’ facile immaginare una rivolta di piazza ed una caduta del governo Tsipras.
Come in una situazione di guerra, così in una situazione di crisi finanziaria, la democrazia diretta non funziona. Bisogna delegare le scelte. E chi è delegato deve assumersi la responsabilità di farle, anche a costo di sbagliare e poi essere smentito dall’elettorato. Tsipras paga la sua ambiguità elettorale: aveva affermato contemporaneamente che non avrebbe mai ceduto ad ultimatum dei creditori ma che avrebbe tenuto la Grecia nell’euro, non specificando cosa avrebbe fatto se costretto a scegliere tra le due opzioni. E invece di assumersi la responsabilità della scelta, la scarica sugli elettori. Probabilmente la loro risposta arriverà a giochi fatti.
Tutta colpa di Tsipras? No. Certamente Tsipras ha commesso molti errori, ma le controparti europee non sembrano essere state da meno. Non hanno capito che la vittoria di Syriza era un segnale importante del fatto che i greci erano arrivati al limite. Invece di trovare un compromesso, hanno cercato in tutti i modi di screditare la controparte, sperando in una rapida caduta del Governo Tsipras. Non solo questa strategia è sommamente antidemocratica (vi immaginate cosa succederebbe se il presidente americano Obama cercasse di far cadere un governatore repubblicano di uno stato del’Unione?), ma è pure miope. Ignora che chiunque venga messo all’angolo, può reagire in modo sconsiderato. Questa miopia è il frutto di una mancanza di leadership.
In inglese si dice che un cammello è un cavallo disegnato da un comitato. L’Europa è gestita da comitati, e continua a produrre cammelli. Manca una ledearship europea degna di questo nome e con un forte mandato popolare. Durante la crisi di Cuba, contro l’opinione della maggioranza dei suoi consiglieri militari, Kennedy si assunse la responsabilità di non bombardare le istallazioni missilistiche sovietiche a Cuba. Scelse la trattativa. Una scelta politicamente rischiosa per chi, come lui, in campagna elettorale aveva tuonato contro l’arrendevolezza di Eisenhower nei confronti di Fidel Castro. Ma facendo questo evitò al mondo una guerra nucleare.
Per fortuna oggi non rischiamo la guerra nucleare. Ma in questa crisi rischiamo non solo la catastrofe umanitaria in Grecia (molto peggiore di quella che già c’è), ma rischiamo la distruzione totale dell’idea di Europa. Di questo dobbiamo ringraziare la diplomazia europea, ma soprattutto il leader che non c’è.
il Fatto 28.6.15
Landini alla festa Fiom
“Manovra politica contro Syriza, serve mobilitazione”
“QUELLA DI BRUXELLES è solo una manovra politica per far cadere il governo greco. Tsipras fa bene a chiedere un referendum”. Maurizio Landini, dalla festa della Fiom di Bologna, ribadisce il suo sostegno al premier ellenico e lanciauna mobilitazione in tutta Europa. Nel dibattito “La rotta d’Europa” a cui ha preso parte anche José Maria Montero, segretario madrileno di Podemos, il leader dei metalmeccanici, applaude l’idea di chiedere il parere dei cittadini greci, l’unica soluzione di fronte a un “tentativo di golpe”: “Il voto darebbe un mandato chiaro a Tsipras su un tema specifico e decisivo. È il modo per rimettere in una posizione di forza il governo greco e dire di no a Bruxelles”. Landini spera che il resto del continente si schieri dalla parte di Atene: “È necessario scendere in piazza prima del 5 luglio in Italia e in Europa per gridare da che parte stiamo. In ballo non c’è solo il destino di un Paese ma di tutti noi”. “Colpirne uno per educarne cento: l’Europa si sta comportando così con la Grecia, per far capire a tutti chi comanda davvero”, conclude il leader Fiom. “Se cade Atene, passa la linea dei burocrati”.
il Fatto 28.6.15
Parola di Strauss-Kahn
“Il Fondo ha sbagliato, ora cancellare buona parte del debito”
“CREDO CHE ABBIAMO bisogno di pensare diversamente, di cambiare logica e di prendere una direzione radicalmente diversa nelle trattative con la Grecia. La mia proposta è che la Grecia non riceva più alcun nuovo finanziamento da parte dell’Ue e dell’Fmi ma che benefici di una estensione molto ampia del termine del debito e anche una riduzione nominale massiccia del suo debito”.
Così l’ex direttore generale dell’Fmi ed ex ministro francese, Dominique Strauss-Kahn commenta su Twitter la situazione greca. Il Fondo monetario internazionale, sottolinea Dsk, “ha fatto degli errori e sono pronto a prendere la mia parte di responsabilità. La diagnosi del Fmi secondo cui si è di fronte a un problema classico di crisi di bilancio e della bilancia dei pagamenti non ha tenuto conto del fatto che la natura incompiuta dell’Unione monetaria europea sia all’origine di tutto il problema e che avrebbe dovuto essere un elemento essenziale per risolvere la situazione”. Il Fondo, inoltre, aggiunge l’ex direttore generale dell’Fmi, “ha anche sottostimato l’ampiezza delle debolezze istituzionali della Grecia che imponevano un’assistenza molto più importante della Banca Mondiale e dei prestiti più agevolati”.
Corriere 28.6.15
L’euro-referendum procede a ostacoli L’azzardo di Tsipras spacca il Parlamento
di Francesca Basso
BRUXELLES Messo da parte nei negoziati dopo lo scivolone di Riga a fine aprile, ieri il ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis si è ripreso la scena. Prima non ha firmato la dichiarazione dell’Eurogruppo che si impegna a «fare tutto il necessario per assicurare la stabilità finanziaria dell’area euro». Poi, dopo aver lasciato gli altri 18 ministri finanziari a discutere sulle conseguenze della decisione della Grecia di indire un referendum sull’accordo con i creditori per il 5 luglio, ha spiegato la sua versione dei fatti.
Primo: «il referendum non è sull’euro». Secondo: il mandato elettorale che del governo Tsipras, con il 36% dei voti, non basta per accettare le condizioni proposte dai creditori. «Per una decisione del genere ci vuole come minimo il 50% più uno e questo è il motivo del referendum». Varoufakis ha spiegato che «i termini dell’accordo erano recessivi, i numeri dei finanziamenti non tornavano e non c’erano elementi che suggerissero che il piano avrebbe posto fine alla crisi». La decisione dell’Eurogruppo di non estendere il programma per pochi giorni «certamente danneggia la credibilità dell’Eurogruppo come unione democratica di Paesi membri, un danno permanente». Il premier Alexis Tsipras rincara. In un colloquio telefonico con la cancelliera Angela Merkel e il presidente François Hollande ha detto che «il popolo greco sopravviverà», «il valore sommo è la democrazia». Ad Atene sale la tensione. Oggi Antonis Samaras, ex premier prima di Tsipras e leader del partito conservatore europeista Nea Demokratia, che si era detto disposto a entrare in un governo di coalizione, incontrerà il presidente della Repubblica, Prokopis Paulopoulos. È possibile che chieda di dichiarare incostituzionale il referendum, anche se il Parlamento ne ha votato l’ammissibilità, o addirittura di dimettersi per far cadere il governo. Contro il referendum anche l’ex premier socialista George Papandreou: «È un tentativo di spostare sul popolo il fallimento dei negoziati» di Tsipras. Il leader del Pasok Fofi Genimmata ne ha chiesto le dimissioni.
Corriere 28.6.15
Mossa finale DI Tsipras. Ma la Grecia ha perso
Così il Paese ha già perso
di Lorenzo Bini Smaghi
Il referendum indetto da Tsipras era forse l’unico esito possibile di un negoziato durato troppo a lungo sul programma di aggiustamento della Grecia. È anche nell’interesse di entrambe le parti. Consente ai Paesi europei di dare alla Grecia l’ultima parola, evitando di essere accusati di aver spinto il Paese fuori dall’euro
Sembrerebbe essere anche nell’interesse di Tsipras, che può cosi sostenere di aver cercato fino all’ultimo di difendere le sue promesse elettorali, in base alle quali è stato eletto, e di rimettersi alla volontà popolare per una decisione di questa portata.
In realtà, per Tsipras si tratta di una sconfitta, che i greci pagheranno caro indipendentemente dall’esito del referendum.
La settimana entrante rischia di essere drammatica per i cittadini di quel Paese. Chi non è ancora riuscito a ritirare i propri risparmi in euro dalle banche, nel timore che un passaggio alla nuova moneta, il giorno dopo il referendum, ne dimezzi il valore, cercherà di farlo nei prossimi giorni, ma molto probabilmente non ci riuscirà. Data l’incertezza sulla permanenza della Grecia nell’euro, la Bce non potrà più erogare liquidità alle banche elleniche, che si troveranno a loro volta impossibilitate di fornire euro ai loro clienti. Nel timore di lunghe file ai bancomat e agli sportelli, il governo dovrà imporre la chiusura temporanea delle banche, o limitare a poche decine di euro l’ammontare di banconote che ciascun greco potrà ritirare. C’è già stato il precedente di Cipro, ma lì si sapeva che la misura sarebbe stata temporanea perché il Paese aveva accettato il programma di risanamento. In Grecia, invece, il rischio di veder svanire, dopo il 6 luglio, una buona parte dei propri risparmi può spingere a comportamenti che si traducono in forti tensioni sociali e politiche nei giorni che precedono la consultazione.
Se al referendum vince il sì al programma europeo, Tsipras sarà obbligato ad attuarlo, anche contro la volontà del suo partito. Potrebbe essere obbligato a nuove elezioni entro breve, dall’esito incerto visto che l’immagine di novità e di determinazione del primo ministro escono ridimensionati da sei mesi di trattative con i partner europei, terminatesi con un ultimatum. Tsipras non ha capito che il mandato dei suoi elettori era sopratutto quello di far rimanere la Grecia in Europa, e nell’euro, ma di ottenere condizioni migliori di quelle dei suoi predecessori. In questo ha fallito. Il leader greco avrà poi perso le fiducia degli altri capi di governo europei, che è riuscito ad unire contro di sé in un negoziato esasperante e inconcludente.
Se al referendum vince il no all’Europa, Tsipras si troverà a dover gestire una uscita della Grecia dall’euro in condizioni drammatiche. L’adozione di una nuova moneta, di un nuovo quadro di legislazione monetaria per consentire alla banca centrale greca di finanziare il disavanzo di bilancio, determinerà una forte svalutazione, con ripercussioni negative sui risparmi e sul valore reale di stipendi e pensioni. Per evitare il collasso del sistema finanziario, che avrà bisogno di nuove iniezioni di capitale, Tsipras dovrà comunque negoziare con le istituzioni internazionali per ottenere nuovi aiuti, che saranno inevitabilmente legati a condizioni più rigorose. Il default farà scattare cause internazionali con i creditori privati, che imbriglieranno la Grecia per anni, come dimostra l’esempio dell’Argentina. In un generale contesto di incertezza gli investitori, greco o esteri, tenderanno a ritirarsi, come dimostrano le recenti proteste dei nuovi proprietari cinesi del porto del Pireo, con effetti recessivi sull’economia greca, poco aperta alla concorrenza internazionale. Non è detto che il governo Tsipras riesca a sopravvivere in un tale scenario.
La scelta di Tsipras di indire un referendum era forse inevitabile, l’unico modo di uscire dall’impasse negoziale in cui si era infilato. Ma nel tempo rappresenta una soluzione «lose-lose», in cui rischia di perdere indipendentemente dall’esito. E con lui la Grecia.
Uno spunto di riflessione importante per chi, in altri Paesi europei, propone simili referendum.
Corriere 28.6.15
Bauman e la democrazia in crisi
«I governi hanno ceduto il loro potere ai mercati. Perciò ricorrono al popolo»
di Maria Serena Natale
Borgonato (Brescia) «Le statistiche ingannano. Dietro la crescita economica fotografata dai numeri si accumula malessere e la sola cura che conosciamo ci dice di spingere ancora sull’economia, ma non è così che impareremo ad essere felici». Zygmunt Bauman ragiona sull’impotenza della democrazia dei consumi di fronte alle domande fondamentali. Ospite d’onore di Berlucchi a Palazzo Lana per la cerimonia dei diplomi della Scuola estiva dell’Iseo di Brescia, il grande sociologo polacco descrive il capovolgimento dei rapporti tra politica e finanza in queste ore convulse di trattative. «Non solo lo Stato non dispone più della capacità di dirigere i processi economici ma ne è diretto a sua volta — dice Bauman al Corriere —. E questo accade mentre i governi sono sottoposti a una duplice pressione: da un lato non possono ignorare le richieste degli elettori che li hanno investiti di un preciso mandato, come in Grecia, Italia o Portogallo; dall’altro sanno di non poter mantenere le promesse perché aumento della disoccupazione e abbassamento degli standard sociali non dipendono più dalla loro capacità d’intervento».
In questo svuotamento di prerogative, che investe governi ed elettori, alla politica che dovrebbe risolvere le crisi spetta un ruolo residuale?
«Sì e non per colpa di programmi sbagliati o scandali di corruzione, ma per l’esternalizzazione delle funzioni dello Stato progressivamente cedute ai mercati, impolitici per definizione. Gli standard della nostra vita quotidiana dipendono dai movimenti dei capitali finanziari internazionali. Così i governi devono cercare l’approvazione dei cittadini, sola fonte di legittimità democratica, e al tempo stesso inseguire gli andamenti delle Borse».
Cosa impedisce al progresso economico di essere fattore di stabilità e benessere condiviso?
«Il perfido meccanismo per il quale gli indicatori economici crescono grazie a dinamiche socialmente dannose. La macchina provoca i guasti e si autoalimenta riparandoli. L’organizzazione che ci siamo dati non prevede collaborazione, non può promuovere solidarietà e stabilità perché ha bisogno di uno stato perenne di precarietà, mutuo sospetto e competizione. Eppure è la possibilità di collaborare con gli altri, di migliorare e sentirci parte di una comunità solidale che dà senso al nostro esistere. Facciamo un esempio. Se tra vicini ci si aiuta dando vita a un microsistema non produttivo ma virtuoso, non ci saranno ricadute positive per l’economia, che potrà invece beneficiare di un incidente d’auto. Se la vittima finisce in ospedale e viene sottoposta a un complicato intervento chirurgico, più soggetti ne trarranno vantaggi economici».
Se il paziente Grecia è sottoposto a un complicato intervento di salvataggio...
«La Grecia è un esempio lampante. Il popolo ha eletto una squadra che aveva promesso di ribaltare l’ordine creato dalle politiche di austerità. Si è così venuto a creare un conflitto insanabile tra la Grande Troika e un governo democraticamente eletto. Il fatto è che l’intera economia nazionale in questi anni è collassata ed è evidente che Atene non potrà ripagare i debiti. Sul fronte opposto, i creditori devono curare i propri interessi, dal loro punto di vista il fatto che l’austerità non abbia migliorato le condizioni di vita dei greci non rappresenta un problema».
Inevitabile che la trattativa si areni in assenza di «choc», come un referendum.
«Ormai il confronto tra Atene e i creditori assomiglia a certe gare di coraggio tra auto sulle strade americane, come nel film Duel . Una guerra di nervi tra automobilisti, perde chi si spaventa prima. Non c’è alcuna logica razionale».
Quali prospettive vede per la democrazia?
«Quelle che sapremo inventare, la Storia non finisce qui. Per quanto pervasive siano le forme di manipolazione che dobbiamo affrontare, nessuno potrà mai privarci della libertà di scegliere e immaginare altri mondi possibili» .
Repubblica 28.6.15
Lo storico Luciano Canfora
“Il referendum strumento antico e democratico quanto la Grecia”
E’ lo strumento della sovranità popolare. Chi lo critica si mette dalla parte degli oligarchi
intervista di Raffaelle De Santis
ROMA . «Il referendum è lo strumento della sovranità popolare, che veniva utilizzato nell’età antica. Chi lo critica si mette dalla parte degli oligarchi». Luciano Canfora ha indagato da studioso del mondo classico le origini e i cambiamenti delle nostre democrazie, spiegandoci nelle sue opere come nel tempo siano andati evolvendosi i rapporti tra i cittadini e chi detiene il potere.
Com’era il referendum nel mondo antico?
«Nell’Atene del V secolo a. C. il referendum non aveva senso: le decisioni erano prese dall’assemblea popolare. Qui due volte al mese si tenevano delle assemblee ordinarie nelle quali i cittadini votavano per alzata di mano e decidevano sulla loro rappresentatività. La repubblica romana invece era aristocratica: si votava per centurie e le classi ricche vincevano sempre».
Quando nasce storicamente l’esigenza di far partecipare il popolo alla vita pubblica?
«Aristotele spiega bene che in origine solamente in pochi prendevano parte alla vita politica della polis. Erano i signori a comandare. Solo quando s’introdusse un salario minimo anche le persone comuni poterono iniziare a partecipare attivamente».
Si può ricorrere al referendum per una questione così importante come l’accettazione del piano Ue sulla Grecia?
«Non solo si può, ma si deve. Nella storia d’Italia ci sono un paio di referendum che ci hanno segnato per sempre: quello per la Repubblica del 1946 e quello per il divorzio del 1974. E invece ora tutti si mettono a dare lezioni alla Grecia. Ma sono lezioncine in contrasto con l’idea di sovranità popolare. Sono reazioni oligarchiche» Chiamare il popolo a decidere, non è un modo per abdicare alle proprie responsabilità politiche?
«No, tutt’altro. Se il concetto di sovranità popolare ha un senso, rimettersi al popolo è l’unica forma legittima».
Siamo di fronte ad una crisi delle democrazie rappresentative?
«Il modello della delega è logoro. Il referendum è un correttivo, un modo per restituire voce al cittadino comune. E’ una grande conquista, insieme al suffragio universale sicuramente una delle più grandi del Novecento. D’altra parte Jean-Jacques Rousseau diceva che il popolo inglese è libero soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento, ma appena questi sono eletti ridiventa schiavo.
In momenti delicati, non è rischioso affidarsi alla pancia degli elettori?
«Chi pensa questo non ha fiducia nel popolo sovrano. In realtà la democrazia s’impara praticandola e non continuando a tenere il cittadino comune sotto tutela».
Repubblica 28.6.15
Robert Sheller, premio Nobel 2013
“Parola al popolo unica via o mercati nel caos”
Fin dall’inizio la trattativa è stata politica: c’è un fronte che vuol liberarsi di Syriza
Il referendum non è un errore. è un segno di chiarezza
intervista di Eugenio Occorsio
ROMA. «Il referendum non è affatto un errore, sempre che il Parlamento l’approvi. È l’unico modo rimasto per porre fine a quest’impasse che getta sui mercati ventate di incertezza ogni giorno più pericolose. E sono sicuro che, al contrario delle aspettative, le Borse alla riapertura lo prenderanno come un segnale positivo». Robert Shiller, economista di Yale, Nobel 2013, coautore del Case-Shiller Index di Standard & Poor’s, è in Italia per la summer school dell’Istituto Iseo fondato da Franco Modigliani e oggi presieduto da Robert Solow. Mentre parliamo compulsa sul computer i futures sugli indici a Chicago, che non vanno in week-end e in effetti non sono catastrofici.
Ovviamente a Iseo non si è parlato di altro?
«Guardate che la crisi greca se degenera provocherà sui mercati un caos senza precedenti. Come senza eguali è il crollo del Pil di un Paese industrializzato del 25% in soli sette anni, che è anche la più grave decrescita della storia mondiale non dovuta a guerre o rivoluzioni. Ed è senza precedenti l’ammontare dei fondi prestati: ma le sofferenze della popolazione greca richiama le nostre coscienze».
Invece ieri si è celebrata una rottura, a giudicare dal tono di Dijsselbloem, anch’essa di una durezza senza precedenti.
«Alla quale ha fatto da specchio l’assalto ai bancomat ad Atene. Però così non se ne esce. Certo, c’è da sperare, e non è affatto sicuro, che i greci dicano “sì” al programma. A quel punto l’accordo sarà chiuso e nessuno dovrà dire di aver perso. Che è il motivo, tutto politico, per cui non si è firmato: nessuno vuole presentarsi al suo Parlamento con un’intesa diversa da quella per cui ha il mandato. Invece se c’è il suggello popolare è diverso. Ma tutta la trattativa è diventata politica da subito, sennò non era male l’idea iniziale di Varoufakis di sostituire il debito con i titoli cosidetti “eterni” e con quelli legati alla crescita» Ma perché tanta incomunicabilità?
«Non escludo che ci sia uno schieramento idelogico diciamo liberal-conservatore in Europa che vuole liberarsi di Syriza, e quale miglior occasione? E’ uno scenario plausibile. La durezza dell’Fmi è più spiegabile: in Camerun vuole le scuole costruite con i banbini in classe, in Grecia vuole le riforme».
Però le Borse finora hanno retto.
«No, è un’illusione. I mercati europei viaggiano al di sotto del potenziale. Se si chiuderà positivamente la partita greca allora avranno un boom. La Borsa Usa invece ha recuperato i livelli del 2007, però non è escluso che cresca ancora. Ma se si rompe sulla Grecia, le conseguenze arriveranno anche negli Stati Uniti, e saranno pesanti».
Repubblica 28.6.15
La schizofrenia della Grecia
di Andrea Bonanni
DIETRO le dichiarazioni ufficilai di oltraggiato rammarico, la decisione del governo greco di respingere l’ultima proposta dei creditori e di indire un referendum è stata accolta con un certo sollievo nelle capitali europee. Per due ragioni. La prima e che il referendum permette di rimediare al corto-circuito democratico che aveva mandato in “panne” l’Europa a partire dalla vittoria elettorale di Tsipras. Syriza, infatti, ha conquistato il potere sulla base di due promesse, entrambe legittime ma intrinsecamente contraddittorie: porre fine alla politica di austerità necessaria per risanare il bilancioe l’economia della Grecia, e allo stesso tempo mantenere il Paese nella moneta unica pur non rispettando neppure uno dei requisiti su cui è fondata.
Questa forma di schizofrenia politica, alimentata da un alto tasso di ideologia populista e uno scarso realismo, non poteva durare a lungo. E ora infatti i cittadini greci sono finalmente chiamati a fare la scelta che l’elezione di Tsipras aveva rimandato: risanare i propri bilanci e la propria economia, come hanno fatto tutti gli altri Paesi europei, oppure accettare il default e lasciare la moneta unica. Se imboccheranno la prima strada, sarà stata una loro decisione libera e sovrana e non una crudele imposizione dell’Europa, come i populisti, greci e non, vanno sostenendo da anni. Se invece sceglieranno legittimamente di abbandonare l’unione monetaria, andranno coraggiosamente verso quella «terra incognita» evocata da Draghi. E i molti sostenitori della necessità di lasciare l’euro, in Italia come in Francia o in Spagna, avranno modo di verificare in concreto quali siano i prezzi da pagare, e anche i possibili vantaggi, nel rinnegare la moneta unica. Dopo un decennio di euro-retorica sulle meraviglie dell’unione monetaria, che evidentemente non ha convinto ampi strati della popolazione europea, la crisi greca offre la possibilità di valutare quanto la scelta fatta a Maastricht sia stata effettivamente illuminata e lungimirante o non abbia invece costruito, come sostengono i partiti anti-sistema di destra e di sinistra, una prigione monetaria dei popoli. Le code che si stanno formando ai bancomat e ai supermercati di Atene, forniscono un primo indizio di risposta.
Il secondo motivo del sollievo che traspira dalle capitali è che il rifiuto di Tsipras di accettare il pacchetto di aiuti offerto dai creditori, e la decisione di andare ad un referendum in cui il governo si schiererà per il «no» alle proposte di Bruxelles, fa definitivamente chiarezza su chi abbia deciso la rottura. La questione ha una rilevanza che va ben oltre le responsabilità morali per l’esito della crisi. La posta in gioco, in questo caso, è il rischio di un contagio che da Atene potrebbe estendersi al resto d’Europa. Proprio E’ da tre anni, da quando Draghi promise di fare «whatever it takes» per salvare l’integrità della zona euro «costi quel che costi», che la Bce interviene, con diversi strumenti, per contrastare le speculazioni sui debiti sovrani e mantenere gli spead entro livelli ragionevoli. Questa azione è legittimata solo dall’assunto che la scelta dell’euro, per i Paesi che ne condividono i criteri a adottano una politica economica condivisa, sia irreversibile.
Se fossero stati i creditori a spingere la Grecia verso il default, senza fare tutto il possibile per offrire ad Atene un salvagente che evitasse il naufragio, il postulato sulla irreversibilità dell’euro sarebbe stato messo seriamente in discussione. E dunque i mercati avrebbero potuto dubitare della volontà della Bce di difendere gli anelli deboli della catena monetaria e avrebbero potuto riaprire la guerra degli spread. Il rifiuto da parte della Grecia dei molti salvagenti che le sono stati offerti, permette invece ai governi dell’eurozona, e al board della Bce che si riunirà oggi, di riaffermare solennemente la determinazione a difendere l’irreversibilità della moneta unica, almeno per i Paesi che ne condividono la filosfia. L’immagine dei diciotto ministri dell’eurogruppo che ieri sono tornati a riunirsi a Bruxelles, senza la Grecia, «per assicurare la stabilità della zona euro» è in primo luogo un messaggio forte che gli europei hanno voluto mandare ai mercati in previsione della burrasca che si prepara per lunedì. Se poi la Grecia, con il referendum, deciderà di voler restare nella moneta unica assumendo le responsabilità che ne derivano, la “famiglia” dell’euro tornerà certamente ad aprirsi anche per il figliol prodigo. Ma è legittimo dubitare che, in quel caso, a sedersi al tavolo dell’eurogruppo per rappresentare Atene possa tornare l’improbabile Yannis Varoufakis.
Il Sole 28.6.15
Il nodo cittadinanza
I migranti, risorsa da premiare
di Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto
Si parla molto di migranti in questi mesi, dalle cronache che ne raccontano il flusso continuo verso l’Italia e l’Europa, alle riflessioni sul fenomeno in atto, che spaziano dai rozzi pregiudizi di alcuni, pronti a considerare reato ogni arrivo di clandestino, al ventaglio di proposte per l’accoglienza e l’integrazione a medio e lungo termine.
Proposte talvolta purtroppo solo teoriche, fino alla rincorsa a soluzioni tampone, che spesso restano le uniche a tempo indeterminato. Diventa perciò importante riflettere sulle dinamiche che il processo migratorio implica, da quella della provenienza dei migranti, e dunque delle cause che spingono intere masse umane ad abbandonare la propria terra, i propri affetti e le proprie per quanto povere certezze per andare verso un futuro in buona parte ignoto, a quella della destinazione, che aiuti a capire quali sono le mete perseguite da chi accetta il rischio dell’immigrazione clandestina, a quella delle possibilità d’inserimento e d'integrazione effettiva nei luoghi di arrivo.
I migranti verso l’Italia provengono oggi per la quasi totalità dallAfrica e dal Medio Oriente. Le ragioni che motivano la decisione - tutt’altro che facile - di emigrare, da una parte sono legate ai processi di disgregazione di ampi gruppi sociali e di interi Stati, come nel caso della Somalia, dell’Iraq, della Libia e dello Yemen, dall’altra sono spesso dovute a situazioni di guerra, ispirata a motivazioni etniche e religiose, o a crisi economiche pesanti e durature, come ad esempio in Nigeria, nel Mali, in Eritrea ed in Etiopia. La gravità dei fattori che entrano in gioco nello spingere uomini e donne di ogni età a rischiare tutto, pur di fuggire da simili contesti, rende difficile applicare in concreto la distinzione cui spesso si ricorre fra “rifugiato” e migrante “per ragioni economiche”. Appellarsi a questa differenza come a un criterio decisivo in ordine alle possibili espulsioni e ai rimpatri, rischia di esporre chi dovrà decidere a gravi ingiustizie e a discriminazioni insostenibili dal punto di vista morale. Un intervento preventivo nei Paesi di provenienza appare certamente più corretto, anche se per essere onesto ed efficace implicherebbe componenti politiche ed economiche di vasta portata e dai costi certamente elevati. Soprattutto, di una simile azione, che valica confini e responsabilità nazionali, dovrebbero farsi carico entità sovranazionali, quali le Nazioni Unite e la stessa Europa, la cui divisione e latitanza in materia appare sempre più grave.
Circa poi la destinazione reale dei flussi migratori non è difficile riconoscere che per tantissimi essa non è il Paese di prima accoglienza: molti dei migranti, in particolare quelli provenienti dal Medio Oriente, hanno parenti già inseriti in diverse società del Nord Europa o dell’America, tanto del Nord, quanto del Sud. È verosimile, dunque, che essi guardino all’Italia soltanto come a un Paese di transito, senza intenzione di stabilirvisi. La dimostrazione pratica di quest’asserto sta nel fatto che tanti di quelli che arrivano più o meno fortunosamente nel nostro Paese rifiutano di adempiere atti burocratici che li legherebbero allo Stato coinvolto nella prima accoglienza. Anche qui c’è nella legislazione europea un insieme di carenze che andrebbero colmate e di disposizioni che andrebbero modificate. L’impressione che l’Europa unita sta dando al mondo è quella di una sconcertante (e per vari aspetti perfino vergognosa) disunità, per cui ciascuno dei Paesi membro appare più preoccupato di “difendersi” dai migranti che di affrontare il fenomeno migrazioni in maniera organica e capace di tutelare e promuovere la dignità delle persone in gioco.
C’è, infine, da considerare l’effettiva possibilità di accoglienza e d’integrazione degli immigrati: una semplice considerazione economica, fatta anche da numerosi imprenditori, è che senza l’apporto del lavoro che gli immigrati svolgono, non una singola azienda, ma l’azienda Italia nel suo insieme avrebbe conosciuto enormi difficoltà e rischierebbe autentici crolli di produttività. Per dirla in altre parole, l’immigrato non è un peso o un pericolo, come viene definito da alcune delle più rozze fra le voci che gridano sulla scena politica, è spesso al contrario un’autentica risorsa, che andrebbe accolta con rispetto per la dignità delle persone e valorizzata per le capacità di contribuire alla crescita di tutti. La cecità di fronte al fenomeno migratorio tocca a volte vertici che, se non fossero drammatici, rasenterebbero il ridicolo: per limitarsi a un solo esempio, che è di estrema gravità, si potrebbe citare il caso del rifiuto della registrazione della dichiarazione di nascita in Italia dei figli di migranti privi di permesso di soggiorno! Su questo fatto c’è stato a lungo un assordante silenzio (con poche eccezioni, come ad esempio la raccomandazione proposta nel congresso del 2014 dalla Società Italiana di Medicina delle Migrazioni). Eppure, da diversi anni, nei rapporti firmati anche dalla Caritas Nazionale, il gruppo Convention on the Rights of the Child (CRC) segnala questo problema e ne raccomanda una soluzione a livello istituzionale. È vero che al presente la registrazione della dichiarazione di nascita è possibile a norma di una circolare del ministero dell’Interno (n. 19 del 7 Agosto 2009), di cui lo stesso gruppo a favore dei diritti dei bambini segnala però l’inadeguata diffusione. In Parlamento esistono proposte di legge che, se approvate, potrebbero risolvere la questione e che, però, pur affidate alle commissioni competenti, non vengono messe a calendario. Si può tollerare che l’esistenza giuridica di nuovi nati sia affidata a una circolare che, così come è stata emessa, potrebbe venir cancellata senza neppur informarne il Parlamento e che, comunque, crea dubbi negli uffici anagrafe? La domanda di chi si batte per una soluzione piena e dignitosa del problema diventa: perché impedire per legge a due genitori (o almeno a chi di loro riconosca quel bambino) di dire “questo è mio figlio”, che ha diritti uguali a ogni altro nato in questo Paese che si dice democratico? Anche su punti come questo la sfida delle migrazioni ci interpella tutti sulla pienezza e autenticità del nostro essere e volerci umani e sulle esigenze morali che nessuna coscienza retta dovrebbe ignorare.
Repubblica 28.6.15
Caso De Luca
Ridurre il danno è il piano di Renzi a Napoli e a Roma per silenziare Grillo
Il premier ha evitato il rischio di una legge ad personam
di Stefano Folli
Come si concluderà lo psicodramma della Campania forse non è chiaro nemmeno a De Luca. È noto che il neo presidente è stato sospeso senza indugi da Renzi, in ossequio alla legge Severino. Ma è anche certo che le polemiche proseguiranno e diventeranno molto aspre nel momento in cui De Luca, pur sospeso, formerà la giunta e nominerà un vice “facente funzioni”. In altre parole, il pasticcio non è risolto e non lo sarà fino a quando la Corte Costituzionale non prenderà posizione, si suppone in autunno.
Dal punto di vista politico, tuttavia, il presidente del Consiglio ne esce con il minor danno. Restano tutti gli interrogativi sull’opportunità di una candidatura messa in campo (potenza delle primarie...) quando era già evidente che l’eletto non avrebbe potuto prendere possesso della carica. Detto questo, Renzi è stato abile nel togliere il piede dalla trappola. Vale a dire che non ha ceduto alla tentazione di un decreto “ad hoc”, una norma “ad personam” per risolvere il caso. Avrebbe reso meno intricato il groviglio giuridico e politico in cui si dibatte il centrosinistra a Napoli, ma avrebbe attirato su di sé gli strali delle opposizioni. Che infatti lo aspettavano al varco. Adesso invece persino Grillo concorda con la procedura seguita da Palazzo Chigi, pur rivendicando a suo merito - è ovvio - il senso della decisione.
In verità il presidente del Consiglio sta cercando di dipanare la matassa di questa calda estate in cui c’è di tutto: non solo la Campania, ma il caso Marino a Roma; e poi, come un’onda sismica, il terrorismo, l’immigrazione, il caos in Grecia. Renzi ha afferrato il bandolo dei governi locali. Non è il più grave dei problemi, ma sul piano degli equilibri politici interni è certo il più insidioso. È chiara la strategia: prosciugare un po’ dell’acqua in cui nuotano i Cinque Stelle, togliendo loro argomenti. A Napoli si lascia De Luca a sbrogliarsela, senza alcun ombrello confezionato su misura. A Roma si spinge il sindaco Marino a uscire di scena, con le buone o con le cattive, in modo da disporre di un lasso temporale discreto, dai sette ai nove mesi, per ricostruire il rapporto con la città (attraverso un commissario) prima del voto nelle grandi città, capitale compresa.
Esposto su tutti i fronti, privo di una convincente politica dell’immigrazione e con un’Europa in sostanza sorda alle istanze italiane, Renzi cerca di tamponare la falla dei “grillini”, la più pericolosa al momento sul piano elettorale. Ma la vera sfida si vince o si perde sullo sfondo di uno scenario assai più ampio. È una sfida che richiede un’autentica capacità di coinvolgimento del Parlamento da parte del premier. Come ha detto il presidente della Repubblica, il terrorismo nell’area mediterranea e di nuovo in Francia consiglia uno sforzo di “coesione nazionale”. Ovvio che Mattarella non auspica un governo di unità nazionale; ma forse tra le righe sta suggerendo a Renzi di rivolgersi con un linguaggio nuovo sia alla minoranza del Pd sia all’opposizione capace di ascoltare. In fondo allo stesso Berlusconi, trascinato sempre più da Salvini verso orizzonti estremisti, farebbe comodo tornare a vestire per un attimo - magari il tempo di una foto - i panni dell’uomo delle istituzioni. E poi, non è Renzi che in questi giorni drammatici ripete: “non accetteremo di vivere nel terrore”? Un proposito che implica una strategia, si deve immaginare. Di “intelligence” e anche militare verso l’esterno. Ma segnata da un nuovo grado di consapevolezza politica all’interno. La coesione fra maggioranza e opposizione contro una grave minaccia fa parte della storia delle democrazie. Non si tratta di far rivivere alcun tipo di Nazareno, ma di riconoscere che le grandi forze politiche, quelle che sentono di appartenere a un destino nazionale, sono in grado di convergere sulle scelte fondamentali quando è in gioco la vita dei cittadini.
Repubblica 28.6.15
Se nomina un vice rischia la denuncia
Ilcaso De Luca ha molte incognite. Ecco l’inedito rebus di un governatore eletto, ma sospeso per legge
Intervista all’avvocato Gianluigi Pellegrino
di Liana Milella
Innanzitutto, da quando effettivamente decorre la sua sospensione?
A differenza di altri decreti di sospensione dello stesso Renzi, quello di De Luca non riporta la specifica indicazione della data del suo congelamento. Retrodatandolo, poteva essere quella del giorno della proclamazione, il 18 giugno. Il decreto è datato 26 giugno, è già stato notificato in Regione, il Consiglio ne prenderà atto domani. In quel momento la sospensione diventerà operativa.
La mancata indicazione è un “aiutino” a De Luca per fargli fare la giunta?
Potrebbe essere solo una svista, perché ormai De Luca entrerà in consiglio regionale già da sospeso.
De Luca può chiedere al tribunale di sospendere la sospensione. Poteva già farlo ieri?
A notifica avvenuta poteva farlo. Ma forse spera ancora di poter fare domani giunta e vicepresidente.
Domani De Luca può presentare il suo “governo”?
Da sospeso non può farlo. Anzi, non appena il Consiglio prende atto della sua sospensione, De Luca dovrebbe lasciare la sala, nella quale non ha più il titolo per rimanere.
Il parere dell’Avvocato generale dello Stato Massella Ducci Teri gli consente di restarci e ufficializzare la giunta?
L’avvocato Gianluigi Pellegrino replica così: «È come se un automobilista, cui è stata ritirata la patente, continuasse a guidare. Ancora: che cosa diremmo se un condannato per mafia, poi sospeso, continuasse ad agire?». Il parere dell’Avvocatura mette in guardia dal rischio «paralisi». Ma se De Luca, domani, tentasse di fare la giunta, rischierebbe di compiere un atto illegale. Che scatenerebbe, a sua volta, altri ricorsi.
È necessario che prima la sua sospensione sia sospesa?
Sì, a questo punto il suo destino di governatore è nelle mani della magistratura. Del resto, proprio Renzi gli ha consigliato la strada: presentare un ricorso come hanno fatto altri prima di lui, come De Magistris.
Che chance ha De Luca di ottenere dal tribunale la sospensione?
I fan del governatore sospeso ne sono certi, i giuristi sono divisi. È un fatto che molti amministratori, prima di lui, si sono visti bocciare la richiesta dal Tar, dal Consiglio di Stato, dallo stesso tribunale. Ma dopo De Magistris, la pronuncia del Tar (sospensiva e ricorso alla Consulta) - confermata dal giudice civile poiché la Cassazione ha inibito il Tar - le chance di ottenerla sono maggiori. Anche se nella sentenza di De Magistris è scritto che «non costituisce un precedente».
Se De Luca presenta il ricorso domani quanto tempo passa per il verdetto dei giudici?
Una settimana, dieci giorni.
Con la sospensiva può fare la giunta?
Sì,e può anche governare, finché la Consulta, attivata dal tribunale, non decide sulla legge Severino.
E senza sospensiva?
La palla torna a Palazzo Chigi. Lo scenario si divide tra un commissario ad acta per la Campania e la prospettiva di nuove elezioni.
Il Sole 28.6.15
Democratici
Le minoranze di Bersani e Cuperlo cercano coesione: la sconfitta alle regionali è la prova che il partito della nazione è morto
Riforma costituzionale, la sinistra pd prepara la trincea
di B. F.
L’appuntamento è stato fissato in «autunno». L’obiettivo è «riconquistare» il Pd, liberarlo da Matteo Renzi, attaccando il suo doppio ruolo di segretario e premier. Per riuscirci le minoranze Dem hanno deciso ieri di superare differenze e diffidenze. La ricomposizione non è ancora una realtà, ma la presenza di Gianni Cuperlo, leader di Sinistra Dem, all’incontro voluto dai bersaniani di Area riformista guidati da Roberto Speranza è più che un segnale. La sinistra Dem è convinta che la sconfitta elettorale delle amministrative abbia sepolto l’idea del «partito della Nazione» coltivata dal segretario.
Cuperlo chiede di superare gli «steccati» e propone «una grande assemblea in autunno». Appello immediatamente raccolto da Speranza: «Non ci perderemo di vista. Dico da subito sì, parteciperò alle prossime iniziative che si faranno nel prossimo mese di luglio e in autunno dovremo immaginare un nuovo appuntamento largo».
L’analisi di partenza è la stessa: «C’è un pezzo del nostro elettorato, della nostra gente, che non si fida più e rischia di voltarci le spalle», ha detto Speranza. E le ultime elezioni lo confermano. «Un milione, un milione e mezzo di elettori a questo Pd ha voltato le spalle, colpiti nell’orgoglio da scelte che il governo ha compiuto. Se qualcuno pensava che questo disegno potesse congelare i voti della sinistra, convinto che “tanto non hanno dove andare “ e contemporaneamente sfondare dall’altra parte ha compiuto un errore di calcolo e di visione: quella pessima lettura del partito della nazione si è spenta nelle urne».
Un avvertimento di cui Renzi, sono convinti, non potrà non tener conto. La riforma costituzionale del Senato tra pochi giorni sarà oggetto dell’attenzione di Palazzo Madama e la minoranza è pronta ad accoglierla. Renzi stavolta «deve trattare». Come avvenne per l’elezione di Sergio Mattarella che non a caso Speranza definisce «il momento migliore, in cui insieme abbiamo saputo essere all’altezza della sfida della storia».
Si punta al bersaglio grosso, la rivisitazione dell’Italicum, per indurre il premier a cedere sul ritorno all’elezione diretta dei senatori che il ddl costituzionale non prevede.
L’importante, però, ha sottolineato Guglielmo Epifani, è cambiare il partito «da dentro». Perché «fuori c’è il tentativo di fare una sinistra identitaria e ristretta» con il rischio di «consegnare il Paese alla destra populista». Una puntualizzazione che arriva a pochi giorni dall’uscita dal Pd di Stefano Fassina. Insomma la strada non è quella.
Ce n’è anche per quella parte della sinistra dem più dialogante (quella che votò la fiducia all’Italicum). Speranza li ha bollati «renziani dell’ultima ora». Cuperlo è persino più tagliente: quelli che fanno da «stampella» a Renzi.
«Duro l’intervento di Alfredo Reichlin che dopo aver definito Renzi «un ignorante» attacca però anche la sinistra, accusata di essere ferma, di limitarsi alla «protesta» e ai «voti contrari a leggi sbagliate». Per Reichlin «la questione decisiva è quella delle alleanze con il tessuto pulsante del Paese che sta nella parte sana delle imprese italiane: le forze produttive di cui, invece, in questo partito non si discute più, perché nel Pd si discute di Civati».
Corriere 28.6.15
Speranza rilancia il dissenso pd Reichlin: non siate una setta Poi si scatena contro il premier
di Alessandro Trocino
ROMA «Noi vogliamo bene al Pd, ma non si può abusare all’infinito del nostro senso di responsabilità. É sbagliato uscire dal partito, ma serve una nuova ripartenza». Roberto Speranza guida la carica della minoranza pd. Lo fa in un’assemblea fondativa del processo che dovrà portare all’unificazione della sua area con la sinistra dem di Gianni Cuperlo. Ad applaudirlo, in un centro congressi di via Margutta ci sono anche vecchi big come Pier Luigi Bersani, che rimane un passo indietro per non esporre la minoranza all’accusa di rispolverare i soliti nomi (assenti Rosy Bindi e Massimo D’Alema, a un matrimonio).
«Si è rotto un patto con gli elettori — dice Speranza — e tocca a noi dare una risposta». Il «noi» fa capo anche a Gianni Cuperlo, che vorrebbe «patti federativi dentro, ma anche fuori dal Pd»: «Dobbiamo accelerare. A metà luglio ci sarà un incontro di sinistra dem. E a ottobre faremo una grande assemblea insieme». Prima non si starà fermi: «Possiamo già collaborare nei gruppi pd e lanciare anche un seminario su Europa e sovranità».
Speranza rivendica le dimissioni da capogruppo: «Non sono pentito». E racconta i «tre grandi errori» di Renzi: il J obs act , «fatto contro il mondo del lavoro, insultando i sindacati»; la riforma della scuola; e la legge elettorale, «un errore gravissimo che può provocare disastri». Ma quello che non va è la linea di Renzi, «che punta a dividere»: «Matteo sbaglia a parlare male della sinistra, perché sega l’albero su cui è seduto. Deve cambiare rotta». Per Speranza occorre ricostruire un centrosinistra che «è stato raso al suolo»: «L’autosufficienza è irrealistica». Speranza chiede a Renzi di accelerare su fisco, ius soli , diritti civili. E spiega che il Pd «non può essere il megafono di Palazzo Chigi».
Nel pubblico ci sono Alfredo D’Attorre e Miguel Gotor. E c’è Vasco Errani, un po’ defilato, riemerso dopo l’annullamento della sua condanna: «Darà un contributo al Pd» annuncia Speranza. Poi parla Cuperlo: «Non siamo la stampella di Renzi». La sinistra europea, dice, «pare un fantasma, è priva di passioni: non ha mai conosciuto una parabola più modesta». Cuperlo ne ha anche per i renziani critici (anche Speranza affonda contro «i renziani dell’ultima ora»): «Chi leviga gli spigoli o mette a posto il mobilio sbaglia». Poi cita Gianni Rivera: «Prima i fuoriclasse lanciavano la palla sul piede dell’avversario. Lui lanciava la palla in una zona del campo dove non c’era nessuno e dove però arrivava l’attaccante. La sinistra deve imitarlo».
Tra gli interventi più applauditi, quello di uno storico dirigente, Alfredo Reichlin, che prima mette in guardia la minoranza: «Non siate una setta». E poi è durissimo con Renzi: «Il suo sbaglio drammatico è stato quello di creare un partito personale, trasformista. È anche ignorante, non si possono asfaltare i valori. É da stupido pensare di giocare con la destra come il gatto con il topo». L’ultimo colpo lo dà Flavio Zanonato, che paragona Renzi al Sordi del Marchese del Grillo: «Io so’ io e voi non siete...».
Dai «renziani dell’ultima ora», fondatori con Maurizio Martina della corrente Sinistra è cambiamento, arriva la risposta di Matteo Mauri: «Questo è tatticismo autoreferenziale».
Repubblica 28.6.15
La sinistra si ricompatta ma Reichlin striglia tutti “Non ci serve una setta”
Bersani: “Noi restiamo”
Da Speranza e Cuperlo parte la sfida per la leadership “Quella di Renzi è fragile. Italicum da rifare”
Renzi sbaglia se continua a parlare male della sinistra: così sega l’albero su cui è seduto. Senza sinistra non c’è il Pd
Nel Pd c’è chi pensa di fare la stampella di Renzi: ma chi sceglie questa via, sceglie una strada perdente
di Giovanna Casadio
ROMA. Tocca al novantenne Alfredo Reichlin bacchettare tutti: Renzi in primo luogo, ma anche le minoranze del Pd guidate da Roberto Speranza e Gianni Cuperlo, che ieri si sono unite in un’assemblea a Roma, in vista di una grande convention autunnale. «Stiamo attenti a non diventare una setta come le altre – mette in guardia lo storico leader– Il problema non è Renzi ma il pensiero politico che non c’è». Insomma «cosa c’è dietro di lui?». E poi meglio sarebbe parlare meno di Civati e più delle forze produttive del paese. Reichlin sta con gli anti renziani. Del premier e segretario dice che è «un ignorante» che non può asfaltare i valori del centrosinistra perché se lo fa «è uno stupido». Ma non è solo giornata di vecchi leoni al centro congressi vicino piazza di Spagna, dove si riunirono i grandi elettori dem indicando Mattarella per il Quirinale. Qui ora la sinistra del Pd invoca la riscossa ed esorcizza le perdite. Nel fronte anti renziano infatti non c’è solo chi ha lasciato il partito (Civati, Fassina) e chi si è convinto a più miti dissensi (Martina, Damiano, Amendola). Bersani in prima fila rinuncia a parlare per non fare ombra alla nuova leva, soprattutto al “delfino” Speranza: «È la giornata di Roberto..».
Però una cosa l’ex segretario non può non dirla. Riguarda l’Italicum, che non sarebbe mai dovuto passare. I duri e puri della sinistra dem non votarono la fiducia a Renzi sulla legge elettorale e Speranza si dimise da capogruppo. «L’Italcium è un danno e chi l’ha voluto se ne assuma la responsabilità. Penso e spero non ci saranno altri abbandoni – commenta Bersani – Si deve rafforzare il progetto originario del Pd che è l’unica alternativa al centrodestra». Il Pd è il centrosinistra, non è un partito indistinto che perde a sinistra e non pesca a destra. Lo dice Speranza e attacca Renzi che, snobbando la sinistra, «sega l’albero su cui siede. E a forza di evocare gufi diventiamo struzzi...».
Da Firenze Renzi ironizza, riferendosi ad una platea che lo ascolta sotto il sole per l’intesa tra Italia e Istituto buddista: «La sinistra estrema si sta sciogliendo, dal punto di vista tecnico e non politico...». A Roma contro l’Italicum Speranza suona la carica: «L’Italicum è un errore gravissimo, è intelligenza ammettere i propri errori. Se non lo si cambia, si modifichi la riforma del Senato».
E Cuperlo ricorre alla metafora del sarto per spiegare che è stato un abito proprio sbagliato, fuori taglia, quello dell’Italicum, era per un Pd che non c’è e il popolo-sarto lo ha svelato alle ultime elezioni. Spiega Miguel Gotor: «Stiamo asfaltando l’autostrada per i 5Stelle». Nel mirino anche l’altra minoranza che fa capo a Martina. «Ci sono i renziani della prima, della seconda, della terza e ora anche dell’ultima ora», è l’affondo di Speranza. Cuperlo, persino più tagliente, sferza quelli che fanno «da stampella», che pensano di «levigare lo spigolo..».. Per la sinistra dem al gran completo la leadership di Renzi si è infragilita ed è in difficoltà. Zanonato invoca la separazione: mai più un premier che sia anche segretario del Pd. È la parola d’ordine. Applauditissimo Errani, seduto in platea. Epifani chiede di avere «spalle larghe per una sfida dentro il Pd, perché fuori c’è una sinistra minoritaria e ristretta». Però la sinistra dem è tutta da costruire. Non è stata capace di stoppare Renzi sulla scuola. Ci vorrebbe la fantasia di un Rivera: esemplifica Cuperlo. La riscossa parte dai circoli, molti del sud presenti. In prima fila la nuova generazione Stumpo, D’Attorre, Leva, Agostini. «Compagni...», esordisce l’eurodeputato Paolucci, scattano applausi: torna una parola di sinistra e si scommette sul Pd oltre Renzi.
Repubblica 28.6.15
Luigi Zanda, capogruppo Pd al Senato
“Patto per il Pd ma non si dica renziano come insulto”
intervista di Francesco Bei
ROMA. LUIGI Zanda, nocchiero di un gruppo di 113 senatori democratici, ha già mandato in porto la Buona scuola e nelle prossime settimane lo aspettano prove altrettanto difficili. A partire dalla riforma costituzionale, «che sarà approvata nel giro di 40-50 giorni». Ma l’Italicum, avverte «non si cambierà».
La sinistra interna oggi si è rimessa in cammino. Ha visto l’assemblea di Speranza?
«Mi chiede della vita interna al Pd? Tema certamente importante, anche se la nostra attenzione oggi è sul possibile default della Grecia, sull’offensiva degli islamisti in tre continenti, sui segnali inquietanti di un ritorno alla guerra fredda, sulla crisi economica. Ma se vuole parliamo del Pd».
Insomma, la minoranza si starebbe guardando l’ombelico senza pensare al contesto mondiale?
«Non dico questo e, come vedono tutti, in un anno e mezzo di Renzi c’è stata necessariamente un’attenzione riservata soprattutto ai temi di governo, con una minor cura alla vita interna di partito».
È da mesi che parlate di come si deve stare nel partito e non è cambiato ancora nulla. Non è arrivato il tempo di fare qualcosa?
«Dobbiamo assolutamente ricostruire le regole della nostra vita interna: come si prendono le decisioni, quale rapporto deve esserci fra quello che stabilisce il partito e come votano i gruppi, l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione».
Ma?
«Ecco il punto: i contrasti interni possono essere un’occasione di crescita, oppure possono essere agitati come una copertura per cercare un posizionamento politico».
La sinistra dem accusa Renzi di non tener in alcun conto il parere delle minoranze, di guardare solo al centro perdendo per strada milioni di elettori. Non è cosi?
«Guardando al Pd io vedo tre realtà diverse. C’è una parte maggioritaria che ha sempre sostenuto Renzi fin dalle primarie e lo ha portato alla segreteria. C’è un’altra parte che non lo ha sostenuto all’inizio ma ne riconosce la legittimità come segretario e vive una forma di collaborazione politica, senza per questo essere diventata renziana. E c’è infine una terza parte che non solo non lo ha votato, ma conduce una battaglia politica interna di opposizione. Il che va benissimo, ma i partiti non reggono senza un patto politico che leghi maggioranza e opposzione».
E questo patto è quello che manca secondo lei?
«In una parte temo di sì. E mi faccia aggiungere, da uno che non lo ha votato alle primarie e non è renziano, che trovo scandaloso che l’aggettivo “renziano” possa essere usato come un insulto all’interno del Pd».
Alfredo Reichlin, pur criticando il segretario, invita la minoranza a non trasformarsi in una «setta» e a dotarsi di un progetto politico. Alla sinistra interna manca un progetto?
«Se lo dice Reichlin...Quando le minoranze hanno un buon progetto possono anche guidare un partito: mi viene in mente Aldo Moro nella Dc».
Si chiedono anche dove Renzi stia portando il Pd. Lei lo ha capito?
«La scommessa di Renzi è quella di mettere sul piatto un pacchetto di riforme ispirato alla famosa lettera della Bce del 2011,uno shock che possa rendere credibile l’Italia in Europa, favorire gli investimenti, una drastica riduzione delle tasse e fare una reale politica di sinistra».
Destra e sinistra per Renzi sembrano posizionamenti superati. Cos’è per voi la sinistra?
«Una politica di sinistra è quella che dà risposte ai bisogni grandi dei ceti più deboli: anzitutto lavoro, sviluppo, qualità della vita. E senza risanamento economico non è possibile alcuna politica di sviluppo».
Le minoranze chiedono di rivedere l’Italicum appena approvato. Ci sono margini?
«Durante la segreteria Bersani sono stato nel gruppo che ha cercato di cambiare il Porcellum. Non ci siamo riusciti. Abbiamo impiegato un anno a portare a casa l’Italicum: ci penserei molto prima di rimetterci le mani. Nè si può dire che se non lo cambiamo allora può vincere Grillo! Le leggi elettorali non si fanno contro qualcuno».
Corriere 28.6.15
Fassina, il pd e l’eterna scissione della ditta
di Aldo Grasso
S tefano Fassina, dopo non pochi tentennamenti, ha lasciato il Pd di Renzi. Probabile che confluisca nel gruppo «Possibile», insieme con Civati, Cofferati, Landini, Mineo, Monica Gregori e altri duri e puri. «Con loro — ha detto il dissidente — ci ritroveremo per avviare un percorso politico sui territori, plurale, che possa raccogliere le tante energie che sono andate nell’astensionismo».
Per alcuni, lo strappo di Fassina è sacrosanto: non è Fassina che esce dal Pd, è il Pd che esce da Fassina e abbandona con lui i tanti elettori che si erano riconosciuti in un progetto diverso (quello perdente di Bersani?). Il Pd di Renzi sarebbe mutato geneticamente, il puro resta Fassina. Come Alexis Tsipras in Grecia. Che poi la criticata mutazione genetica consisterebbe nell’espressione di una novità radicale nel modo di essere della sinistra di governo in Italia.
Vero è che di genetico c’è solo il vizio del frazionismo, una tara che la sinistra si porta dietro da tempo immemorabile. Senza andare tanto indietro negli anni, basta ricordare Lotta comunista, il Partito Comunista d’Italia, Rifondazione Comunista, Iniziativa Comunista, il Pci Marxista Leninista, la Sinistra Critica, Sel...
Si tratta solo di scommettere chi, fra Fassina, Civati e Cofferati, dal possibile passerà al probabile. Cioè alla nascita di un nuovo gruppo, a sinistra della sinistra, più puro dei puri. Del resto, la scissione è la ragione sociale della «ditta».
Corriere 28.6.15
Renzi e la mediazione sul Senato: alla minoranza qualcosa va concesso
Nessun cambio all’Italicum. L’idea dell’elezione diretta tra i candidati ai consigli regionali
di Maria Teresa Meli
ROMA Matteo Renzi si sta già preparando alla prossima battaglia parlamentare. Quella sulla riforma costituzionale che elimina il bicameralismo perfetto e modifica il Titolo V della Costituzione.
Sa perfettamente che non sarà facile perché i tempi sono strettissimi, per cui questa volta è più che mai necessaria una vera e propria mediazione con la minoranza interna.
«In una settimana — spiega il presidente del Consiglio — abbiamo chiuso la vicenda della scuola, il “caso De Luca”, senza nessuna leggina ad personam, il decreto sulle banche e le deleghe fiscali. Abbiamo rilanciato il tema dell’immigrazione in Europa e ora faremo ripartire L’Unità . Adesso toccherà alla Pubblica amministrazione e alla riforma costituzionale, con buona pace di chi dice che non facciamo niente».
Già, la riforma costituzionale. Per ottenerla il premier non intende fare nessuno scambio con la legge elettorale: «Non cambierò l’Italicum». Su questo punto Renzi sembra veramente inflessibile. Lo ripete ai suoi da giorni: «Non ci sono spazi per modifiche». Però sa anche di non poter essere troppo intransigente sul ddl Boschi e con i collaboratori e i parlamentari a lui più vicini ammette: «Sul fronte della riforma costituzionale comunque qualcosa va concesso».
È indispensabile. Non tanto per una questione di numeri (il presidente del Consiglio continua a sostenere di averli anche a Palazzo Madama), quanto di tempi.
Sì, perché per raggiungere il suo vero obiettivo il premier deve affrettarsi: «Le elezioni amministrative si voteranno lo stesso giorno del referendum consultivo».
Il che vuol dire che il ddl Boschi deve passare nell’aula del Senato assolutamente entro luglio per poi andare a spron battuto alla Camera per una prima lettura conforme a quella di Palazzo Madama. E poi fare la seconda navetta nei due rami del Parlamento: di nuovo in Senato a ottobre e a Montecitorio a dicembre. Altrimenti non c’è il tempo sufficiente per indire il referendum consultivo insieme alle Amministrative.
I costituzionalisti vicini al presidente del Consiglio hanno studiato che comprimendo al massimo i tempi ci vogliono cinque mesi e mezzo dall’approvazione del ddl per riuscire in questo tipo di «election day» a cui Renzi tiene tanto. Significa che il patto dovrà essere blindato in contemporanea sia con la minoranza del Senato che con quella della Camera. In modo che ciò che viene fatto a luglio a Palazzo Madama non venga disfatto a settembre a Montecitorio. Sempre per accelerare i tempi è possibile che la Pubblica amministrazione, che avrebbe dovuto precedere il ddl Boschi, passi invece in coda.
La mediazione con la minoranza, in realtà, è già in corso da settimane, proprio perché il presidente del Consiglio ha fretta di terminare questa partita. L’oggetto della trattativa è principalmente il sistema di elezione dei senatori. Il loro nome dovrebbe essere scritto su una scheda, ma sempre nell’ambito del voto per i consiglieri regionali, come in una sorta di listino a parte. Se c’è una certa speranza di riuscire a trovare alla fine una quadra con la minoranza interna, i vertici del Pd ritengono invece che sia impossibile convincere Forza Italia a entrare nella partita. Nei giorni scorsi il premier ha fatto ai suoi collaboratori questo ragionamento: «Credo che alla fine un pezzo di FI “si farà coinvolgere”, ma non ci sarà un accordo pieno, anche se io penso che prima o poi Berlusconi dovrà porsi il problema di non “schiacciarsi” troppo su Salvini e di non farsi sovrastare da lui».
Eppure dicono che all’ex Cavaliere questo patto, finora, stia più che bene e che abbia promesso addirittura al leader della Lega la premiership, quando vi saranno le elezioni politiche, riservando a un esponente di Forza Italia solo il ruolo di numero due di Salvini.
Comunque, Matteo Renzi, che continua a diffondere ottimismo (e a essere sul serio convinto di farcela) sa che la partita della riforma costituzionale non sarà facile. È conscio del fatto che una parte del Pd (ieri la minoranza gliene ha dette di cotte e di crude), che Forza Italia, la Lega e i grillini sarebbero disposti ad allearsi insieme in Parlamento pur di metterlo all’angolo: «So bene che vogliono spianarmi, ma non hanno alternative. Perciò io andrò avanti come ho sempre fatto e accelererò su tutte le riforme».
Il Sole 28.6.15
Dopo il primo ok sulla scuola
Per Renzi il rischio di riforme incoerenti che restano sulla carta
di Paolo Pombeni
Fatta la legge bisogna fare la riforma. Potrebbe sembrare una battuta, ma non lo è, basta avere presente il destino di molte leggi che hanno annunciato riforme presto abortite alla concreta prova della loro messa in opera. Vale anche per la riforma della scuola che Renzi ha caparbiamente voluto portare a conclusione senza arrendersi alla palude parlamentare.
Le ragioni del presidente del Consiglio sono facilmente comprensibili. Nel momento in cui la sua “narrazione” si fonda sull’immagine di quello che le riforme le porta a termine dopo anni di chiacchiere e progetti inconcludenti, non poteva farsi smentire. Bisognerebbe però ragionare su cosa possa significare portare a termine una riforma.
Far passare alle Camere una legge che la contempla è solo un primo passo. La gente poi giudica su quel che vede trasformarsi in cambiamenti quantomeno in itinere. È qui che le cose si complicano e non poco. Innanzitutto perché la maggior parte delle nostre leggi sono fatte male, con l’occhio più all’affermazione di principi più o meno astratti che si pensa possano trovare il consenso di questo o di quello che non alla loro coerenza interna e applicabilità pratica. Aggiungiamoci che nell’inevitabile negoziato parlamentare per parare questa o quella obiezione o opposizione si infilano modifiche lessicali nonché aggiustamenti vari che in genere peggiorano il quadro.
La messa in funzione della riforma diventa quindi un rebus, per di più tenendo conto che in genere è affidata a soggetti che come minimo non la amano quando non la boicottano apertamente. Va tenuto conto che l’Italia è un paese con un’etica pubblica bassa, per cui in genere ci si sente vincolati a rispettare solo le norme che ci trovano concordi, mentre le altre vengono giudicate illegittime e disattese (anche contando sul fatto che sopportare conseguenze per queste “disubbidienze” è abbastanza improbabile).
Questo sarà probabilmente l’amaro destino anche della riforma della scuola, disegnata senza tenere conto che si interviene su un corpaccione sfibrato da anni di incuria e demagogia, per tacere che alla scuola come “motore sociale” credono in realtà in pochi, a cominciare dagli insegnanti, passando per gli studenti e finendo alle famiglie. Gli slogan in circolazione che dicono il contrario sono a metà fra la falsa coscienza e il rifugio nella banalità.
Cosa succederà però se Renzi va alla già prospettata prova della primavera 2016 (elezioni in importanti città più forse un referendum sulla riforma costituzionale) con una scuola che è un tumulto di contestazioni e dove non si raggiungono risultati verificabili? Già averli in meno di un anno sarebbe comunque un miracolo, in questo contesto diventano un incubo.
Imporre la tenuta della maggioranza al Senato è stato complicato, ma contava su un’arma formidabile: la preoccupazione della stragrande maggioranza dei senatori di evitare lo scioglimento anticipato della legislatura, perché di questi tempi un numero limitato può avere qualche sicurezza di rimanere sulla poltrona. Quindi prevale negli oppositori la tendenza a mantenersi il palcoscenico per le loro proteste, che tutto sommato è un’ottima sistemazione.
Riprendere il controllo della fiducia del paese è per il governo molto più complicato. A parte problemi enormi come quello dell’immigrazione, dove però la dimensione stessa del problema può servire da spiegazione di risultati che non possono essere miracolosi (e si può sperare lo capiscano in molti), nelle elezioni amministrative Renzi dovrà poi misurarsi con una molteplicità di situazioni locali piuttosto complesse e con un partito che non è esattamente in situazione di alta credibilità presso la pubblica opinione. Conta evidentemente di superare questo handicap con una richiesta di fiducia personale nelle sue capacità di riformatore. Ma cosa succederà se le riforme non faranno toccare con mano alla gente il famoso “cambio di verso”, ma magari accentueranno la situazione paludosa in cui si sono sinora arenati i tentativi di modernizzazione del paese? Il posto in questo contesto di quella della scuola è centrale, perché tocca una platea assai vasta. A paragone c’è solo l’esito che sarà riscontrabile della riforma del lavoro.
C'è dunque da chiedersi come sarà gestito quanto previsto dalla legge che si appresta ad esser approvata in via definitiva. Lasciare tutto in mano al sistema scolastico così com’è appare quantomeno rischioso per non dire di peggio: insegnanti per lo più demotivati, quando non trasformati in portatori di astratto ribellismo, presidi selezionati con modalità che in moltissimi casi non corrispondono affatto a quella immagine “manageriale” che si vorrebbe introdurre, ragazzi che si aspettano più la continuazione di un tran tran troppo spesso sospeso fra lassismo e anarchia, possono essere i “motori” di una riforma che suppone un orizzonte totalmente mutato? E soprattutto si può pensare che la riforma sia applicabile nella sua versione piuttosto contorta, ricca di contraddizioni interne che danno moltissime opportunità di boicottaggio?
Se era vero che Renzi non poteva rischiare la sconfitta in Senato e dunque il ricorso all’arma finale della fiducia era scontato, non è meno vero che non può arrivare alla prova elettorale del 2016 con riforme che rimarranno in parte sulla carta e in parte creeranno caos e ingestibilità. In quel caso ciò che ha evitato, senza neppure troppa fatica, l’altro ieri, diventerà difficilmente evitabile la prossima primavera.
La Stampa 28.6.15
Madia: “A settembre lo sblocco dei contratti del pubblico impiego”
E su Roma il ministro fa autocritica: “Abbiamo sbagliato”
di Francesca Schianchi
«La sentenza è una ragione in più per andare nella direzione che avevamo già intrapreso», commenta, a tre giorni dalla decisione della Consulta sul blocco dei contratti degli statali (illegittimo, ma non per il passato), il ministro della Pa, Marianna Madia. Che interviene per la prima volta anche sul Pd e sul caso dello scandalo di Roma («abbiamo sbagliato»).
Ministro, a dire il vero la direzione che avete preso è la conferma del blocco anche per il 2015…
«Io ho sempre detto che la dialettica naturale non era il blocco e che avremmo affrontato il tema in settembre, nella prossima legge di stabilità».
Non avreste potuto procedere con lo sblocco già dal 2015?
«No, perché abbiamo valutato che, in un periodo di crisi, fosse più giusto sostenere chi non ha lavoro o rischia di perderlo, con ammortizzatori sociali e decontribuzioni fiscali, e chi è economicamente più debole, con gli 80 euro, che sono andati anche a un lavoratore pubblico su 4. Faccio presente però che ci siamo mossi nel solco non solo delle nostre convinzioni, ma anche di una sentenza della Consulta del 2013, che definì legittimo il blocco purché temporaneo e purché i soldi risparmiati venissero redistribuiti».
Ora come vi muoverete per sbloccare i contratti?
«Faremo quello che già pensavamo: a settembre, quando si discuterà la legge di stabilità, metteremo tra le priorità lo sblocco dei contratti del pubblico impiego».
Quante risorse servono?
«Vedremo quante potremo stanziarne nella legge di stabilità».
Può dare una cifra indicativa?
«No. Il tema è già tra le priorità di Palazzo Chigi, ma le cifre scaturiscono da una decisione collegiale».
I sindacati vi chiedono di aprire le trattative…
«Lo farà l’Aran (agenzia che rappresenta la Pa nelle trattative, ndr.) non appena avremo stanziato una cifra. Ma ricordo che, per riaprire la contrattazione, ferma dal 2010, occorre dare attuazione ad accordi tra le parti previsti dalla legge Brunetta, come portare i comparti da 11 a 4. Aspetto su cui, in questi anni, non si è trovata una mediazione».
Il governo sembra a un tornante complicato. Venerdì avete chiuso il caso De Luca che ha agitato il clima per un bel po’…
«E’ sempre stato chiaro quello che avrebbe fatto il governo: avrebbe seguito la legge. E così abbiamo fatto. Dopodiché, la vicenda De Luca mette in luce alcuni aspetti su cui riflettere».
Quali?
«La legge Severino probabilmente ha dei buchi normativi, visto che presenta margini di interpretazione. Ma penso anche alle primarie».
Su cosa bisogna riflettere?
«Dopo aver fatto le primarie a Roma (nel 2012, per selezionare i candidati in Parlamento, ndr.), e avendole vinte, penso che, fatte così, non siano una buona soluzione per selezionare la classe dirigente».
Vanno eliminate?
«No, penso però che bisogna scegliere quando farle e con quali regole. Devono servire per aprire il partito a energie nuove e non per spartirsi pezzi di territorio».
In quell’occasione lei parlò di «associazioni a delinquere» che si muovevano sul territorio...
«Io non l’ho detto pensando al risvolto penale. La mia era una critica politica: non si può selezionare la classe dirigente in un clima da Far West».
Perché non avete agito prima?
«Abbiamo sbagliato, non siamo arrivati in tempo. Sono garantista e spero che le persone coinvolte possano dimostrarsi innocenti, ma c’è una responsabilità politica che dobbiamo assumere. Il sindaco Marino sconta l’assenza di un partito alle sue spalle, nonostante il grande lavoro che sta facendo Orfini da quando è commissario».
Marino si deve dimettere?
«Non mi sembra utile il dibattito. Noi non dobbiamo portare avanti l’inchiesta, a cui pensa la magistratura, né fare la relazione, a cui pensa il prefetto: io mi sento responsabile come Pd di altro, di dare al sindaco un progetto all’altezza di questa città. Stiamo per ospitare il Giubileo: il partito discuta di come farne l’occasione per dimostrare che Roma è città di tolleranza, dialogo, qualità di vita».
La Stampa 28.6.15
Abusopoli, l’altra Roma tra degrado e povertà
Dopo le minacce a Marino, viaggio tra i venditori irregolari
di Flavia Amabile
Sembra uscita da un film di Alberto Sordi la lettera intimidatoria inviata al sindaco Ignazio Marino. Scritta a mano, italiano sgrammaticato, invita Marino a lasciare «in pace l’antiabusivismo che la gente ha fame», di pensare piuttosto «ai corrotti che hai intorno». Infine, la minaccia: un proiettile 9x21 e questa conclusione: «Funziona bene sennò questo è per te». Mittente, un certo Antonio Cavallo. In realtà è qualcosa di molto più serio, è la fotografia della Roma del profondo degrado. Non sono più i terroristi o i grandi criminali a minacciare le istituzioni ma gli abusivi. Insieme con le speculazioni su rom e immigrati, è questo l’altro grande pozzo nero dei guadagni nella capitale: l’abusivismo in tutte le sue molteplici facce.
L’«Abusopoli»
La più evidente è una vera e propria città cresciuta a dismisura nelle strade di Roma e ribattezzata «Abusopoli». È la città degli ambulanti africani e asiatici, armati di cartoni e lenzuola, rapidissimi a creare un banco per borse, occhiali e altre merci contraffatte, altrettanti veloci nel richiudere tutto e correre via al primo sentore di controlli. «Ma non è più solo questo, ormai», spiega Mario Tredicine, vicepresidente dell’Upvad che all’interno della Confcommercio romana rappresenta i venditori al dettaglio. L’anno scorso l’associazione ha realizzato la più completa analisi degli abusivi nelle strade della capitale, calcolando che il giro d’affari sia ormai pari a circa un quarto del giro d’affari del commercio regolare, con un fatturato di circa 8 miliardi di euro. «Qui il problema non sono più soltanto i banchi di cartone ma quelli quasi stabili con ombrellone e tutto il resto, ce ne sono ovunque a Roma». In totale lo studio dell’Upvad stimava che un anno e mezzo fa ci fossero ogni giorno dai 15 ai 18 mila abusivi. Una cifra che già da sola è impressionante: si tratta di una città grande quanto Urbino o Todi. «Ma credo che sia ancora aumentata», aggiunge Tredicine. Nei momenti di maggiore presenza, nella sola via Ottaviano, a due passi da piazza San Pietro, si contano dai 70 ai 90 «lenzuoli» stesi a terra, si legge nel rapporto dell’Upvad che sottolinea la crescita della vendita abusiva della pelletteria passata dal 44% del 2000 all’ 85% del 2013.
Borse e selfie
Ma gli ambulanti con borse e bastoncini per i selfie sono solo una delle facce dell’abusivismo, e anche una delle più povere. Dopo cinque mesi di ispezioni su 213 bar e negozi da parte della task force di vigili e ispettori Asl, Inps e Aequaroma, istituita un anno fa e diretta dal comandante Raffaele Clemente, si è finalmente appurato che il «tasso di illegalità» tra i commercianti del centro storico è del 40%. Dagli accertamenti è emerso che sono state evasi 11 milioni di euro per multe e tasse non pagate. Finora le ispezioni partite a settembre dello scorso anno hanno riguardato circa un settantesimo del totale dei 15 mila bar e negozi del centro Facendo una proiezione, la Polizia locale di Roma Capitale calcola che l’evasione raggiungerebbe 400 milioni di euro.
Sgomberi
L’ultimo fronte su cui si sta agendo molto più in profondità rispetto al passato sono le occupazioni. L’ultimo sgombero è stato completato due giorni fa, su un terreno di una decina di ettari da venti anni si erano insediati nomadi, sbandati e senzatetto ma anche un’associazione di pet therapy, campi di calcio, un centro convegni, mostre e concerti e anche la sede dell’associazione legata a Daniele De Santis, rinviato a giudizio il 28 aprile per l’omicidio del tifoso napoletano Ciro Esposito. Tutto abusivo, tutto demolito dalle ruspe davanti agli occhi di Ignazio Marino. Il sindaco non intende mollare: «E’ ovvio che andiamo avanti» su tutto, avverte. E non sarà una lettera con un proiettile a fargli cambiare idea.
La Stampa 28.6.15
“Sì al formaggio senza latte”. Il diktat dell’Europa all’Italia
L’Ue: nei caseifici dovete permettere l’uso di polvere e concentrati
di Luigi Grassia
Uno spettro si aggira per l’Europa: il formaggio senza latte, cioè fatto con la cartina. L’Italia (a differenza di altri Paesi) ha una legge severa che impone di fare tutti i formaggi usando il latte vero, e proibisce l’uso dei succedanei. Ma adesso la Commissione europea ci ha inviato una diffida, per imporre «la fine del divieto di detenzione e utilizzo di latte in polvere, latte concentrato e latte ricostituito nella fabbricazione dei prodotti lattiero-caseari».
In parole povere Bruxelles decide che per adeguarci alle schifezze in uso negli altri Paesi europei dobbiamo permettere anche noi la produzione del formaggio «zero latte». E per raggiungere questo bel risultato la Commissione Ue si è presa il disturbo e la fatica di mandarci una lettera ufficiale di messa in mora per infrazione. Non è così che si aumenta il prestigio e la legittimità delle istituzioni europee.
Del resto Bruxelles ha già dato via libera al cioccolato senza cacao, al vino senza uva e alla carne annacquata. Adesso con il formaggio senza latte «siamo di fronte all’ennesimo diktat di un’Europa che tentenna su emergenze storiche come l’emigrazione» denuncia il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo, «ma poi è pronta ad assecondare le lobby che vogliono costringerci ad abbassare gli standard qualitativi dei nostri prodotti alimentari».
Una legge da abolire
La legge che finora ha blindato la qualità dei formaggi italiani è la numero 138 dell’11 aprile 1974. Vieta ai nostri caseifici l’utilizzo di polvere di latte per produrre formaggi, yogurt e latte alimentare. Ha lo scopo di salvaguardare le aspettative dei consumatori sull’autenticità dei prodotti italiani. Ha garantito anche l’apprezzamento della nostra produzione lattiero-casearia nel mondo (le esportazioni di formaggi italiani sono aumentate del 9,3% nel primo trimestre del 2015 nonostante le difficoltà con la Russia).
La Commissione Ue vede le cose in tutt’altro modo. Ha avviato la procedura d’infrazione perché considera la legge italiana a tutela della qualità come «una restrizione alla libera circolazione delle merci, essendo la polvere di latte e il latte concentrato ampiamente utilizzati in tutta Europa». Perciò ci impone un adeguamento della qualità al ribasso.
Questo avrà almeno tre conseguenze: 1) uno scadimento della qualità media dei formaggi e degli yogurt italiani; 2) un danno alle reputazione del Made in Italy alimentare nel mondo; 3) un flusso d’importazione di polvere di latte e latte concentrato, che ovviamente riguarderà le produzioni più scadenti e a prezzi più bassi, e che diminuirà gli introiti degli allevamenti italiani.
L’Europa ha già attentato alla qualità dei formaggi italiani imponendo la vendita nel nostro Paese di mozzarelle fatte all’estero con semilavorati industriali senza alcuna indicazione sull’etichetta. Una mozzarella su quattro fra quelle oggi vendute in Italia ha questa provenienza e a noi viene proibito di saperlo e di scegliere. Sempre l’Europa ha costretto l’Italia ad aprire il suo mercato al «cioccolato senza cacao», cioè ottenuto con l’aggiunta di grassi vegetali diversi dal burro di cacao.
Come se non bastasse, Bruxelles ha permesso ai Paesi del Nord di aumentare la gradazione del vino attraverso l’aggiunta di zucchero, e addirittura di spacciare come «vino» certi beveroni fatti con dei micidiali wine-kit: si mescola una polverina con dell’acqua, e tanto basta.
Adeguamento al ribasso
L’Unione europea permette anche, per alcune categorie di carne, la possibilità di non indicare in etichetta l’aggiunta d’acqua fino al 5%, e per certi prodotti (wurstel, mortadella) tale indicazione può essere addirittura elusa del tutto. Senza contare che una normativa comunitaria confusa obbliga a indicare la provenienza in etichetta per la carne bovina, ma non per i prosciutti, per l’ortofrutta fresca sì, ma per quella trasformata no, per le uova sì, ma per i formaggi no, per il miele sì, ma per il latte no.
Le nostre tavole di italiani meriterebbero più tutela.
Corriere 28.6.15
La rinascita di Matera, capitale della cultura
La Rai ha dedicato a Matera, capitale europea della cultura 2019, un lungo Speciale TG1 andato in onda il 21 giugno scorso.
di Franco Morganti
Il lungometraggio è stato ricco di storie e protagonisti locali che tuttavia non rendono l’idea del percorso culturale della città, che invece spiega il perché di una designazione così illustre. Matera è una città che proprio grazie alla cultura ha saputo reagire a un passato di declino e di abbandono e rientrare in se stessa con una veste rinnovata, attraverso un restauro rispettoso della storia e del territorio. La denuncia è iniziata con Carlo Levi e il suo «Cristo si è fermato a Eboli». Ma è solo col 1952 che De Gasperi, dopo una visita alla città, decise con un’apposita legge di svuotare i Sassi, fetide grotte scavate nel tufo in cui contadini molto poveri vivevano in simbiosi con gli animali, in condizioni igieniche pietose e di trasferire la popolazione in nuove abitazioni edificate nella città alta. Il processo durò molti anni e i Sassi si svuotarono assumendo l’aspetto di una cavernopoli abbandonata. Poi vennero Adriano Olivetti e l’Istituto italiano di Urbanistica: fu costruito un quartiere modello, la Martella e gli urbanisti cominciarono a ripensare i Sassi come luogo di vita che, conservando il fascino delle antiche costruzioni, li dotassero di servizi civili. La città si risvegliò dal suo letargo, nei Sassi entrarono negozi, alberghi, bed&breakfast, sale di concerti e conferenze; furono valorizzate le tante chiese rupestri e attrezzati percorsi turistici. Oggi la ripa dei Sassi, conservando il fascino antico, è il simbolo di una rinascita possibile: non si era mai vista una città rivivere dopo il suo abbandono.
Purtroppo i problemi sono altri: Matera non dispone né di un’autostrada né di un collegamento ferroviario, dopo l’abbandono della tratta da Matera a Ferrandina che è testimoniata da ponti appesi vuoti sul paesaggio e da stazioni finite e mai frequentate. Ci sono quattro anni scarsi per rimediare, da qui al 2019. Immagina, puoi, dice una nota pubblicità.
Repubblica 28.6.15
Tunisia
La speranza rubata di un paese che sfida il Califfo con la democrazia
di Bernardo Valli
PAUL Klee “scoprì” il colore in Tunisia. Come altri pittori aveva la sensazione che là, in quel privilegiato panorama, avvolgesse uomini e natura con un misto di intensità e dolcezza impareggiabili. Quando il cielo si annuvolava, era come se si spegnesse la luce. Il buio calava sul mare sul deserto, sulle colline verdi e il paese spariva. Senza la sua luminosità mediterranea particolare, la Tunisia perde in effetti quel fascino che ha attirato tanti artisti e sprofonda nella normalità. In queste ore non è tuttavia il sole, la sua luce a mancare sul litorale di fronte alle isole italiane, sull’altra sponda del mare. A svanire è la speranza di veder sopravvivere la transizione democratica: un modello unico nel mondo arabo musulmano. Un dono conquistato, prezioso come la luce di Klee.
Gli umori sono bui. Non il cielo. L’ atmosfera è cupa. I miei amici di Tunisi, ieri mattina, poche ore dopo la strage hanno deciso di raggiungere una spiaggia del golfo di Hammamet, non lontano da quella insanguinata dal giovane assassino ispirato dal Califfato. Se non ci fossero andati, se non si fossero stesi sulla sabbia sfidando i comprensibili timori, si sarebbero considerati dei disertori. Ma le loro voci erano ancora tremanti.
Il Califfato ha allungato il suo braccio per spegnere la nuova democrazia tunisina. Per i tagliatori di teste, cultori degli orrori di un passato remoto, arroccatisi nella valle del Tigri e dell’Eufrate, è una sfida insopportabile quella lanciata dai tunisini. Da cancellare al più presto. Da soffocare. È una bestemmia. Il Califfato ha designato tanti nemici nel mondo musulmano e nell’Occidente infedele. Il comportamento della piccola, indifesa Tunisia, priva di un grande esercito e senza petrodollari, quindi con pochi amici, è un affronto intollerabile. Là è cominciata la primavera araba e sempre là è stato formato un governo in cui convivono i liberali del partito Nidaa Tounes e gli islamisti di Ennahda, nel quadro di una Costituzione che dà uguali diritti a uomini e donne, e garantisce le libertà individuali.
È un plateale insulto alla Sharia, ai principi coranici e ai dogmi annessi cosi come li intendono gli integralisti più rigorosi. Nello spazio di poco più di tre mesi ci sono stati due attacchi alla Tunisia indisciplinata. Prima i ventidue morti del 18 marzo, al Museo del Bardo, alle porte di Tunisi; e due giorni fa, il 26 giugno, altri trentanove morti a El Kantaoui, sulla costa orientale, a quindici chilometri da Susa (o Sousse), in un albergo per turisti, l’ Imperial Marhaba.
I sopravvissuti alla strage dicono che Seifeddine Rezgui (chiamato dal califfato Abu Yahya al-Kairouani), studente di Kairouan, la città dove è conservato un pelo della barba del Profeta, voleva ammazzare gli stranieri. Ai tunisini diceva di scansarsi. Non ce l’aveva con loro ma con gli infedeli, con i peccatori in vacanza. In realtà col kalashnikov falciava chi veniva a tiro. Ma soprattutto infliggeva una profonda ferita alla Tunisia democratica, la cui risorsa economica è soprattutto il turismo. Che occupa mezzo milione di persone, il quindici per cento della popolazione attiva, e contribuisce al Pil per circa l’otto per cento. La precipitosa fuga dei turisti inglesi, belgi, tedeschi con i voli speciali mandati in gran fretta dai loro rispettivi governi, è uno spettacolo che in queste ore annuncia una stagione estiva con le spiagge semivuote. E quindi una devastante crisi economica destinata a minacciare, a rendere incerta quella transizione democratica tanto fastidiosa per il Califfato. L’aumento brutale della disoccupazione e l’azione più incalzante di gendarmi e polizia non contribuiranno ad aumentare la popolarità del governo. Cosi come la prevista chiusura di ottanta moschee in cui si predica la violenza, annunciata da Beji Caid Essebsi, il presidente della Repubblica, e da Habib Essid, il primo ministro, irriterà gli islamisti incerti nelle loro convinzioni democratiche.
Non è stato facile, un anno fa, convincere il partito islamico, Ennahda, ad accettare il principio dell’alternanza, vale a dire rispettare il risultato elettorale. Era insediato al potere e non voleva cederlo. L’aveva conquistato con il libero voto grazie alla “primavera araba” che aveva cacciato Ben Ali, il raìs fuggito nell’Arabia saudita, ma era riluttante ad affidarsi ancora al verdetto delle urne che si annunciava sfavorevole. Rashid Ghannushi, il leader islamista, ammorbidito dalla sorte toccata al Cairo ai Fratelli musulmani suoi alleati, imprigionati e massacrati dai militari del maresciallo Al Sisi, ha finito col convertirsi seriamente alla democrazia. E nelle ultime ore ha ribadito le convinzioni democratiche e il sostegno al governo, a cui partecipa del resto il suo partito.
Rashid Ghannushi è un devoto sunnita e al tempo stesso un democratico: una specie di musulmano detestato dal Califfato, e non sempre apprezzato dagli occidentali piuttosto scettici sull’esistenza di un Islam moderato. L’atteggiamento dei jihadisti è chiaro; quello diffuso tra gli occidentali lo è meno. Perché ignora la natura del conflitto che con molte varianti investe il Medio Oriente e non risparmia il Maghreb. Il conflitto mette a confronto sunniti integralisti e sunniti moderati. È in sostanza una guerra tra di loro, sia pure affiancata da quella tra sciiti e sunniti. Charles de Gaulle, allora giovane capitano in partenza per la Siria, scriveva nelle sue memorie che andava nell’Oriente complicato con idee semplici. È un esempio da seguire. A noi la semplicità invita a vedere il musulmano e democratico Ghannushi come il vero obiettivo degli attacchi del Califfato. La guerra è tra di loro. Noi subiamo le ricadute, ma dobbiamo sapere chi sono i nostri amici. E dobbiamo aiutarli.
Repubblica 28.6.15
Gli assassini traditori dell’Islam
di Tahar Ben Jelloun
I QUATTRO attentati terroristici di venerdì 26 giugno miravano a colpire più che mai le coscienze del mondo civile europeo o musulmano. Perché si tratta di massacri deliberati di innocenti: all’Hotel Riu Imperial di Susa in Tunisia; in una moschea sciita nel Kuwait; in una base della Somalia e infine a Lione, in uno stabilimento industriale dove l’attentatore ha mozzato la testa a un dirigente e, con una macabra messinscena l’ha infilzata su un palo, come ai tempi della rivoluzione francese.
Questi attentati hanno fatto in totale 117 morti (39 in Tunisia, 27 in Kuwait, 50 in Somalia e uno in Francia) oltre a centinaia di feriti. Un colpo durissimo, spettacolare, in pieno mese del Ramadan, che dovrebbe essere consacrato alla preghiera, al raccoglimento, alla riconciliazione e alla pace. Ma di questo mese sacro ai musulmani, i terroristi hanno fatto un mese di morte, massacri e guerra contro quelli che chiamano i “miscredenti”, in totale contraddizione con lo spirito e la lettera dell’Islam.
Per chi si richiama allo Stato islamico, sono miscredenti tutti gli ebrei e i cristiani, ma anche i musulmani non sunniti, e comunque non decisi, come loro, a tornare indietro fino al VII secolo, ai tempi della nascita dell’Islam. Un modo per annullare magicamente quattordici secoli di storia, di evoluzione, di progressi dell’umanità, per un ritorno al passato che già di per sé è un errore. Apparso in un Paese, l’Arabia, in un’epoca precisa, per portare agli uomini i valori di cui mancavano, l’Islam si ispirava alle altre due religioni monoteiste; e ha fatto propri i grandi valori dell’umanesimo, della solidarietà e della fraternità esistenti nei giudaismo e nel cristianesimo.
A quei tempi vi erano tribù beduine che uccidevano le neonate sotterrandole vive. Maometto fu scelto da Dio come suo messaggero per porre fine a una siffatta barbarie, così come aveva vietato l’adorazione di idoli in pietra. Coloro che oggi uccidono, sgozzano, decapitano esseri umani in nome dell’Islam non solo tradiscono questa religione, ma si pongono totalmente al di fuori dei suoi precetti. L’indignazione generale non serve a nulla. Quello che il mondo civile si trova ad affrontare non è un esercito, e neppure un Paese, ma un nemico invisibile, mascherato. La democrazia non basta a proteggere i cittadini. La guerra potrebbe scatenarsi ovunque.
La coalizione di vari Paesi in lotta contro l’Is ha dimostrato la propria inefficacia. Se ne dovranno trarre le conseguenze. Non è dal cielo, ma solo sul terreno che si potrà sconfiggere questo esercito senza volto. Oggi, però, né i Paesi del Golfo né quelli europei sono pronti a un intervento di questo tipo. A ciò si aggiungono le ulteriori difficoltà dovute al fatto che l’Is è ovunque, e assume forme diverse. Il terrorista Yassin Salhi, che ha decapitato il suo dirigente nell’Isère, risiedeva in Francia e faceva parte di quell’esercito dormiente che può passare all’azione in qualunque momento.
Che fare? Oggi più che mai, gli Stati musulmani del mondo dovrebbero mobilitarsi con ogni mezzo ( sono ricchi, acquistano armi in continuazione) per combattere chi tradisce e stravolge l’Islam. All’inizio alcuni di questi Stati hanno finanziato l’Is. Le istanze internazionali dovrebbero aprire un’inchiesta per sapere chi c’è dietro queste orde selvagge. Chi le finanzia? Chi facilita la loro azione? Chi sono i loro compici? Sembra quasi che nessuno voglia saperlo. Se l’Islam normale non si mobilita, se l’Occidente non fa la guerra a questi massacratori, sarà il terrore generalizzato.
Col recente attentato hanno condannato la Tunisia alla povertà e alla miseria, dato che massacrando i turisti si uccide anche l’industria turistica. Con conseguenze che aggraveranno la situazione economica di questo piccolo Paese. Anche in Francia hanno dimostrato di poter agire dove vogliono e quando vogliono, nonostante il sistema Vigipirate, concepito per portare al massimo il livello di vigilanza. Nel Kuwait hanno dimostrato di voler prendere di mira in particolare i musulmani sciiti. Quanto alla Somalia, già da tempo questo Paese è in preda alla violenza. Il terrore continua a diffondersi, e nessun Paese è al riparo. I cittadini musulmani sono nel mirino al pari degli altri. Perché chiunque non la pensa come l’Is è miscredente.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
La Stampa 28.6.15
Polonia
I droni lanciano pillole abortive
Piovono pillole abortive dal cielo della Polonia. Passa da qui la lotta di Woman on Waves, gruppo di attiviste olandesi che si batte contro le severe leggi polacche sull’interruzione di gravidanza e che, armate di drone, hanno organizzato la spedizione aerea delle pillole del giorno dopo. Ad attendere la consegna dall’alto, partita dalla città tedesca di Francoforte sull’Oder e arrivata nella località polacca di confine di Slubice, due donne polacche. Legale durante gli anni del comunismo, l’aborto in Polonia è fuorilegge dal 1993 e consentito solo in caso di stupro, incesto, gravi malformazioni del feto o gravidanza rischiosa per la futura mamma.
Immediato l’intervento della polizia tedesca. «Subito dopo la partenza del drone - si legge in una nota pubblicata sul sito di Woman on Waves - gli agenti hanno cercato di intervenire, ma i piloti dei droni sono stati abili a far atterrare regolarmente i velivoli aldilà del confine». Dopo aver confiscato la strumentazione necessaria a controllare le apparecchiature, «gli agenti hanno insistito per accusare i responsabili ma non è chiaro su quali basi - continua la nota - le medicine erano accompagnate dalla regolare prescrizione di un dottore e sia la Polonia che la Germania aderiscono al trattato di Schengen», sulla libera circolazione delle persone.
Il Sole 28.6.15
Alla vigilia del vertice Ue-Cina
Le offerte cinesi a Bruxelles
Domani le proposte di Pechino tra opportunità e molti rischi
di Rita Fatiguso
La Cina affronta il Forum bilaterale (e il Business Forum organizzato, a latere, dalla Confindustria europea) che apre oggi i battenti a Bruxelles consapevole della propria forza economica, di certo meno fiammante di qualche anno fa, però esaltata dalla visibile fragilità politica dell’Unione europea. L’Europa, d’altro canto, nel bene o nel male, rischia di ricompattarsi di fronte alle lusinghe del gigante asiatico: il riconoscimento come interlocutore privilegiato da parte di Pechino anche rispetto agli Usa non deve essere fuorviante, c’è chi chiama in causa Omero e il timore dei Greci anche se portan doni.
È così? Nel negoziato strisciante che caratterizza questo rapporto Bruxelles-Pechino andata e ritorno le diplomazie cinesi mettono sul tavolo tutto ciò che serve loro per aumentare la sfera di influenza globale, mentre l’Europa non fa mistero di voler approfittare del Go global cinese: servono soldi freschi per far ripartire l’Unione e salvarla dalla stagnazione e dalla disgregazione politica. Sin dalla prima formulazione il piano Juncker da oltre 350 miliardi di euro per le infrastrutture in Europa guardava già all’Asia, in particolare alla Cina che, a sua volta, ha cominciato ad accelerare la costituzione dell’Asian infrastructure investment bank, lanciata a partire dalla fine del 2013. «Il timing su questo doppio binario è alquanto evidente», dice Nicola Casarini, responsabile per lo Iai dell’area asiatica, a Pechino in rappresentanza dell’Italia al Quarto Forum mondiale dei think thank, l’altro è lo storico Osservatorio Asia, con Romeo Orlandi.
Proprio oggi, nella Great Hall of People, tra squilli di fanfare e tappeti di velluto rosso, ben 57 Paesi di cui cinque europei siglano la carta costitutiva dell’Aiib, organismo multilaterale da 50 miliardi di dollari nuovo di zecca fortemente voluto dal presidente Xi Jinping come tassello di un più ampio disegno strategico che spazia dalla Cina a tutto il resto del mondo. È la «One belt one road» che si avvale anche del «New silk fund» da 40 miliardi di dollari in private equity e, perfino, delle energie della banca dei Brics di Shanghai. L’Aib partirà realmente con il nuovo anno, ma la governance è già definita, e come ha detto ieri il futuro presidente Jun Liqun nel suo intervento a Forum dei think thank, «l’Aiib non sarà un clone delle altre banche multilaterali, ma sarà un modo per contribuire al progresso dei Paesi in via di sviluppo con infrastrutture che garantiscano la sostenibilità e anche a beneficio di quella del mercato interno cinese».
L’adesione alla nuova banca dei Paesi europei sembra legata anche al piano per le infrastrutture europee sul quale la decisione di Pechino di impegnarsi seriamente sembra un dato acquisito.
Che prezzo l’Europa intende pagare a questo supporto? «Bella domanda», dice Ian Bond, direttore del Centre for european reform, «c’è da considerare la variabile tempo, si calcola che la Germania abbia di fronte solo dieci anni di autonomia, di vantaggio competitivo tecnologico rispetto alla Cina, mentre la Gran Bretagna appoggia qualsiasi investimento anche per poter mettere in campo il proprio expertise finanziario per l’internazionalizzazione del renminbi. Lo scenario è incerto, l’Europa divisa. Poi ci sono gli altri Paesi. E la Cina ha bisogno del mercato europeo».
Tra i punti controversi che contraddistinguono le relazioni bilaterali tra Cina ed Europa c’è l’ipotesi di un «free trade agreement», la Cina ha incassato quello della Corea e dell’Australia, ma l’Europa prende tempo sulla richiesta di aprire un negoziato già fatta da Xi Jinping in persona, si preferisce puntare sul negoziato degli investimenti che, peraltro, sembra perennemente sul punto di essere in dirittura, ma siamo al sesto round e l’ottimismo dei funzionari che ci lavorano tra Bruxellese e Pechino lascia il tempo che trova. C’è la richiesta dell’esenzione dei visti per i diplomatici in un quadro Schenghen che, però, rende difficile l’applicazione “ad personam” per la Cina. E c’è il «Market economy status», la richiesta di Pechino che stando a report confidenziale di fonte Commissione Europea «attualmente soddisfa un solo requisito sui cinque stabiliti dall’Unione Europea, concesso più in un’ottica di incoraggiamento per gli sforzi compiuti che per gli effettivi risultati raggiunti da parte cinese». E, ancora: «Una concessione automatica da parte della UE, senza una previa e prudente strategia di coordinamento con i principali partners internazionali, rischia di causare gravi distorsioni del mercato globale (diversione dei flussi commerciali verso l’Europa) con conseguente invasione del nostro continente di prodotti cinesi, con irrimediabile danno dell’industria europea».
Nessuno dei principali partner commerciali europei - USA, Canada, Giappone, India – riconosce il Mes alla Cina. «Il fatto che non ci siano le condizioni oggettive per riconoscere lo status alla Cina è un dato incontrovertibile – dice il viceministro Carlo Calenda - che non viene messo in discussione da nessuno a livello europeo. La discussione verte piuttosto sul punto, squisitamente legale, se questo riconoscimento debba avvenire comunque ed automaticamente nel 2016 in forza delle clausole di adesione al WTO. Il nostro parere è che tale obbligo non sussista. Pur auspicando che la Cina completi il più rapidamente possibile la transizione ad economia di mercato, una concessione unilaterale renderebbe di fatto inutilizzabili gran parte degli strumenti di difesa commerciale oggi a disposizione dell’Europa, in primis l’antidumping, con enormi ripercussioni anche sulle aziende italiane».
Uno scenario apocalittico: l’antidumping diventerebbe un’arma spuntata, migliaia di altri posti di lavoro andrebbero in fumo, le merci cinesi inonderebbero i mercati. Comparti come la siderurgia, la meccanica, la chimica, la ceramica, la bulloneria, l’industria della carta resterebbero annientati, interi distretti, aziende di calibro, specie nel settore dell'acciaio, andrebbero in sofferenza.
La Cina è la seconda economia più grande e ora anche il più grande potenza commerciale del mondo. L’apertura del WTO le ha permesso di diventare uno dei principali trader globale - il più grande esportatore del mondo nel 2009 e la più grande potenza commerciale del mondo per somma di esportazioni e importazioni nel 2013. Tra Cina e l’Unione europea il fatturato giornaliero è di oltre un miliardo di euro al giorno, qualche anno fa era inesistente. Oggi, Cina e Ue formano il secondo più grande blocco di cooperazione economica sul pianeta, e l’aumento della Cina in Europa sarà sempre più visibile, per investimenti diretti, arrivi di turisti, mentre l’Europa è tra i primi 5 fornitori di investimenti diretti esteri in Cina. «Ecco», dice Daniel Gros – responsabile del Ceps, Centre for European Policy Studies - «non è solo questione di infrastrutture, dopo aver costruito tutto quello che c’è da costruire c’è il vuoto, se le due economie non si integrano, e se non si crea un vero e proprio mercato».
Corriere 28.6.15
Esce il nuovo libro di Giovanni Sartori
«Uno zibaldone ispirato allo spirito di contraddizione»
di Antonio Carioti
Con il solito approccio ironico, Giovanni Sartori definisce il suo nuovo libro La corsa verso il nulla (Mondadori) «uno zibaldone ispirato dal mio atavico spirito di contraddizione». In realtà questi dieci capitoli (del primo anticipiamo qui accanto una sintesi) sono certamente polemici, ma solo in apparenza disorganici, poiché rispecchiano con efficacia i temi più frequentati dal politologo fiorentino nella sua costante battaglia contro il dogmatismo, la superficialità non di rado interessata, gli stereotipi più o meno «progressisti». Sartori prende di mira la società dell’immagine e il mito della rivoluzione violenta, rilancia la sua antica proposta di una legge elettorale maggioritaria a doppio turno, invoca una politica più rigorosa in fatto d’immigrazione, spinge il suo anticlericalismo fino a chiedere che il Vaticano contribuisca a risanare i conti pubblici italiani. E non risparmia neppure l’icona intoccabile di papa Francesco. Tra i punti che più lo assillano spicca il problema islamico. Di fronte agli eventi di questi giorni, viene spontaneo convenire con Sartori sul fatto che quella condotta dai jihadisti è una vera e propria guerra, che bisogna affrontare di conseguenza. E altrettanto fondati appaiono i suo moniti circa la difficoltà di conciliare i principi democratici, che impongono la distinzione tra legge civile e comandamenti religiosi, con la vocazione teocratica che caratterizza il culto musulmano.
Corriere 28.6.15
Poco pensiero, troppe immagini
Ecco perché la democrazia è in affanno
di Giovanni Sartori
Uno zibaldone ispirato allo spirito di contraddizioneNei miei scritti giovanili sulla democrazia usavo ancora le categorie di Immanuel Kant, per il quale i sistemi democratici non potevano esistere senza ideali, senza un «dover essere», intendendo un dover essere irrealizzabile, ma pur sempre alimento essenziale di una democrazia. Più tardi mi sono imbattuto in Isaiah Berlin e ne ho adottato le dizioni: «libertà negativa» e «libertà positiva». Ma nemmeno queste dizioni mi convincevano del tutto, perché la libertà positiva di Berlin sdoganava il «perfezionismo democratico» che avevo sempre combattuto, e il cui inevitabile esito ho sempre ritenuto fosse il fallimento. Così, nei miei scritti più recenti la mia dizione è diventata, da un lato, «democrazia e/o libertà protettiva» o «democrazia e/o libertà difensiva» e, dall’altro, «democrazia e/o libertà distributiva».
Dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476, il suo territorio fu gestito, salvo alcune eccezioni, da vari aggregati di pretoriani. Successivamente, nell’Alto Medioevo, la nostra civiltà si racchiuse nei monasteri fortificati, nei quali tutto il potere era affidato al Superiore. Il Basso Medioevo, tra l’XI e il XV secolo, vide lo sviluppo delle città marinare, fermo restando che anche lì la politica era un dominio riservato.
Fino a quel momento si era sempre dato per scontato che il potere politico fosse interamente e senza alcun vincolo nelle mani dei re e del loro séguito di principi, duchi, marchesi e signorotti. Il sovrano poteva a suo piacimento imprigionare chi voleva. Insomma, la politica era soltanto forza: la forza di chi era o diventava il più forte. Gli Stati passavano di mano in mano con le guerre, con le alleanze tra i potenti del momento e con i matrimoni.
Il punto è, quindi, che solo da una manciata di secoli noi cittadini abbiamo uno Stato che non è semplicemente la forza del più forte. Quando è accaduto? Quando è iniziato lo Stato come lo conosciamo oggi? Direi dalla fine del Seicento con John Locke e ai primi dell’Ottocento con Benjamin Constant. In seguito vi furono le rivoluzioni del 1830, che ebbero come conseguenza gli statuti, le Carte che i vari sovrani furono costretti a concedere. E il testo che segna l’avvento e definisce la struttura dello Stato come noi oggi lo conosciamo fu De la Liberté des Anciens comparée à celle des Modernes , che contiene il celebre discorso pronunciato da Constant nel 1819, nel quale vengono contrapposti due diversi concetti di libertà: una praticata dagli antichi e l’altra presente nelle società moderne.
Insomma, la politica è stata la forza a discrezione del più potente, finché non è stata inventata la liberal-democrazia, che è, ecco il punto, il prodotto di un pensiero astratto che capisce senza vedere, diciamo a occhi chiusi.
L’ homo sapiens deve tutto il suo sapere alla capacità di astrazione. Le parole che articolano il linguaggio umano sono simboli che evocano anche «rappresentazioni», e cioè richiamano alla mente raffigurazioni, immagini di cose visibili e che abbiamo visto. Ma questo accade soltanto con i nomi propri e con le «parole concrete» (dico così per semplicità espositiva), e cioè con parole come casa , letto , tavola , carne , gatto , moglie e simili; il nostro vocabolario, diciamo, pratico.
Altrimenti, quasi tutto il nostro vocabolario conoscitivo e teoretico consiste di «parole astratte», che non hanno nessun preciso corrispettivo in cose visibili e il cui significato non è riconducibile a — né traducibile in — immagini. Città è ancora «visibile», ma nazione , Stato , sovranità , democrazia , rappresentanza , burocrazia non lo sono: sono concetti astratti, che designano entità costruite dalla nostra mente.
I cosiddetti «primitivi» sono tali perché nel loro linguaggio primeggiano (fabulazione a parte) le parole concrete, il che dà comunicazione, ma pochissime capacità scientifico-conoscitive. E, di fatto, i primitivi sono fermi da millenni al piccolo villaggio e all’organizzazione tribale. Per contro, i popoli avanzati sono tali perché hanno acquisito un linguaggio astratto — che è anche un linguaggio a costruzione logica — che consente la conoscenza analitico-scientifica. Intendiamoci, alcune parole astratte (non tutte) sono traducibili in immagini, ma si tratta sempre di traduzioni che sono soltanto un surrogato infedele e impoverito del concetto che cercano di «visibilizzare».
Dunque, e in sintesi: tutto il sapere dell’ homo sapiens si sviluppa nella sfera di un mundus intelligibilis (di concetti, di costrutti mentali) che non è percepito dai sensi. E il punto è questo: la televisione inverte il progredire dal sensibile all’intelligibile e lo rovescia in un ritorno al puro e semplice vedere. La televisione e Internet producono immagini e cancellano i concetti, ma così atrofizzano la capacità di capire.
Ritorniamo alla diade originaria di libertà negativa e libertà positiva, che avevo abbandonato sostituendola con libertà difensiva e libertà distributiva. Quest’ultima, caduta l’ideologia marxista, è attualmente travestita da comodo «globalismo». Per questo, oggi insisto sempre più sulla nozione di «libertà protettiva» o «libertà difensiva».
La partita sarebbe perduta se la libertà protettiva non si fondasse sul principio dell’ habeas corpus , intelligibile anche per l’ homo videns di oggi, visto che l’immagine è trasparente anche in gergo infantile: « Hai diritto al tuo corpo». Il che equivale a dire che nessuno ne può disporre «contro la tua volontà e senza il tuo consenso». È il solo diritto solitario, tutto sommato, di cui disponiamo. La mia libertà è condizionata, in vita, dalla libertà dell’altro e deve rispettare la libertà altrui (e viceversa, s’intende). Ma, in morte, dobbiamo essere liberi di morire come vogliamo.
Dunque, la politica è stata una forza a discrezione del più potente (del momento) finché non è stata inventata la liberaldemocrazia. Che, insisto, è il prodotto del pensiero astratto. La partita non è perduta se sapremo contrapporre all’appetito crescente della democrazia distributiva e alla sempre più gonfiata retorica che l’accompagna la democrazia protettiva dell’ habeas corpus .
La Stampa 28.6.15
Mary de Rachewiltz
“Mio padre Ezra non abita a Casa Pound”
Incontro con la figlia novantenne del poeta americano di cui si è appropriata l’estrema destra
“Travisano le sue idee, sono violenti. Lui sognava l’incontro delle civiltà”
di Andrea Colombo
Mary de Rachewiltz contro Casa Pound. La figlia di uno dei più importanti poeti americani del ’900 non ci sta a vedere accomunato il nome del padre a quelli che si considerano «i fascisti del terzo millennio». Mary compirà 90 anni il 9 luglio, circondata dai massimi esperti di Ezra Pound provenienti da tutto il mondo. Il suo castello di Brunnenburg, un piccolo maniero arroccato sui monti tirolesi sopra Merano, sarà la sede della prestigiosa International Pound Conference, una settimana di conferenze e dibattiti dedicati al Miglior Fabbro, come lo definiva T.S. Eliot.
In ottima forma grazie a una singolare dieta fatta di torte al cioccolato, formaggio e passeggiate su e giù per la ripida stradina che porta al villaggio di Tirol, Mary non nasconde il disappunto per il fatto che il nome del padre venga associato a un movimento di estrema destra. Una ferita aperta che, nonostante le cause legali e i tanti appelli, non è stata ancora rimarginata: «Questi ragazzi non hanno nulla a che fare con noi. Travisano le idee di mio padre. Pound l’aveva già detto chiaramente nella famosa intervista a Pasolini: “Non è il mio sistema quello di scendere in piazza”. Sbandierano parole d’ordine, menano le mani, agiscono con violenza: come si può essere più antipoundiani di così?».
«Sfruttano il suo nome»
Certo il vecchio Ezra, il pacifista fautore dell’incontro tra civiltà e culture, mai avrebbe immaginato che un giorno sarebbe stato strumentalizzato da ragazzi che cercano lo scontro, vogliono innalzare muri, sbraitano contro gli immigrati. «Sono dannosi», ribadisce la Mary de Rachewiltz, «hanno sfruttato il nome di Pound per fare colpo. In questo sta la loro disonestà». Che fare dunque? «La causa legale per ora non va avanti», osserva, «eppure dovrebbe muoversi anche l’ambasciatore americano. Ezra Pound era un cittadino statunitense, si riteneva un patriota anche se fu trattato da traditore per aver trasmesso alcuni discorsi pacifisti da Radio Roma durante la Seconda guerra mondiale. Io ho la doppia cittadinanza, americana e italiana, e la mia famiglia è parte offesa in questa triste storia».
Ma perché stupirsi se le rappresentanze statunitensi non si pronunciano? Basta ricordare come fu trattato dal governo americano il grande poeta, ingabbiato e rinchiuso per 13 anni in un manicomio criminale per aver urlato le sue ragioni contro la guerra, seppure incautamente da una radio nemica, l’Eiar mussoliniana. Un errore pagato caro.
Mary preferisce dimenticare le polemiche dei nostri giorni. «Quella di mio padre è una poetica dell’incontro tra civiltà, lingue, religioni. Nei suoi Cantos troviamo l’antichità cinese, greca, egizia e romana, la luce del Medioevo e del Rinascimento e i drammi della modernità. Inoltre fu un pioniere nella valorizzazione della cultura orientale, soprattutto grazie al richiamo costante agli insegnamenti confuciani».
La sacralità del grano
Il tema della conferenza internazionale è «Pound ecologista», un aspetto poco conosciuto della poetica di questo maestro del modernismo letterario, che pure aveva ideato un’originale filosofia contadina basata sulla sacralità del grano e che già negli Anni 30 parlava di raccolta differenziata dei rifiuti. «Considerava lo spreco un peccato mortale. Indro Montanelli lo prendeva in giro perché insisteva sull’importanza del burro di arachidi e sul valore del mangiare sano. Ora, in tempi di Expo, sappiamo quanto sia importante riflettere sulle disuguaglianze che non permettono di nutrire a sufficienza il pianeta. Un pianeta che va rispettato. Non a caso tra gli eroi dei Cantos troviamo il pagano Apollonio di Tiana e il cristiano san Francesco d’Assisi, due ecologisti ante litteram. Pound tradusse il Cantico del sole di Francesco: lo riteneva un esempio mirabile di poesia e un modello di saggezza».
Alla «Ezuversity»
Mary de Rachewiltz, lei stessa poetessa raffinata, vive per una missione: trasmettere a più persone possibili il pensiero di suo padre. «Già durante la guerra ha cominciato a istruirmi nel suo mestiere, la poesia. “Ho creato la mia traduttrice in italiano”, diceva. E così mi ha instillato questo senso del dovere». Lavorare sui Cantos è un impegno immane, potenzialmente infinito, visti i continui riferimenti ai più diversi personaggi, scritti, eventi che costellano il poema. «La tecnica di mio padre nell’educarmi», conclude Mary, «non contemplava l’università, istituzione verso cui non aveva alcuna considerazione. Alla “Ezuversity”, come la chiamava, era fondamentale interagire con persone interessanti, che potevano darti qualcosa, come i Fitzgerald o Robert Lowell. D’altronde è proprio l’incontro, con scrittori, mondi lontani e personaggi del passato e del presente, il cardine della sua visione del mondo».
La Stampa 28.6.15
Vide in Mussolini un nuovo Confucio, ma poi riconobbe il proprio errore
di Claudio Gorlier
«Una lotta manichea tra l’ordine e il disordine»: così un autorevole studioso americano ha definito la visione ideologica del giovane Pound - e in parte anche dell’amico e sodale T. S. Eliot - a partire già dai primi Anni Venti. Il disordine è la vera e propria dittatura del potere economico, in particolare delle grandi banche, e Pound lo vede già affermarsi dal Medioevo, il che spiega anche il suo antisemitismo (tutto esplode nel cuore stesso dei Cantos), che non ha nulla a che fare con la crociata nazista ma affonda le sue radici nei secoli passati. Non stupisce, allora, che l’organo dei comunisti americani lo approvi.
Ma Pound si spinge assai oltre, e tra il 52° e il 61° dei Cantos raffigura in Confucio l’emblema positivo dell’ordine contro lo squallore corretto della scena contemporanea. È qui che si colloca una svolta decisiva, da filosofica - il confucianesimo - a risolutamente politica. Se le forze del disordine sono il potere bancario e la dittatura capitalistica, Pound, con un balzo insieme ideologico e fantastico, identifica l’incarnazione del confucianesimo in Benito Mussolini e nel fascismo. Lo farà al punto di schierarsi con il duce e di parlare alla radio della Repubblica Sociale, con le drammatiche conseguenze (il processo, la condanna, il ricovero nella clinica per malattie mentali). Ma attenzione: negli anni del fascismo e del nazismo l’atteggiamento di larga parte dell’intellettualità inglese risulta alquanto ambiguo: basti pensare addirittura a una inquietante, e certo ambigua, privata ma non troppo, valutazione di Hitler da parte di Orwell.
I Pisan Cantos, scaturiti dal periodo trascorso in campo di concentramento, rimettono tutto in gioco, e inducono a riflettere prima di definire sbrigativamente il fascismo di Pound, colui - si ricordi - che Mussolini si degnò di incontrare una sola volta. No, Mussolini non era stato - Pound lo scoprì troppo tardi - il Grande Imperatore, anche se nel Canto quarantunesimo rievoca l’occasione. Ma in seguito, negli anni estremi, non mancò di riconoscere i propri errori, a partire da quello politico. Ebbe il tempo, pensate un po’, in una confidenza fatta a Allen Ginsberg, che questi però non volle mai confermare, di parlare di «stupidità» e di «ignoranza» nella sua opera. Proprio alla luce di una sorta di confessione simile costituisce un’offesa postuma farne oggi un idolo politico lucido e determinato. Meglio rifarsi sempre e soltanto alla sua poesia, ai suoi saggi penetranti. Non credo proprio che Casa Pound si rifaccia al Canto centoventesimo, il finale, che invece vale quale estrema epigrafe autobiografica: «Chi ho amato cerchi di perdonare / quello che ho costruito».
La Stampa 28.6.15
Così nel 1938 a Trieste il duce annunciò le leggi razziali: recuperato il filmato
L’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza (Ancr) ha riportato alla luce la versione integrale del documentario sulla visita di Benito Mussolini a Trieste del 18 settembre 1938, durante la quale il dittatore pronunciò pubblicamente, per la prima volta, la decisione di adottare una legislazione razziale tale da espellere dalla società gli ebrei. Un documento storico di drammatica importanza per il nostro Paese, che sarà visibile per la prima volta in versione integrale domani, al Festival «Il cinema ritrovato» di Bologna, alle 17,30. Nei quaranta minuti del filmato sono evocati gli spettri di un contesto europeo complesso e la possibilità della guerra, un discorso nel quale cui emerge la tensione populista del duce. Il documentario sulla visita di Mussolini a Trieste, di cui l’Archivio della Resistenza conservava una copia unica, sarà presto restaurato in collaborazione con Istituto Luce Cinecittà.
Corriere 28.6.15
Joseph E. Davies
Un diplomatico americano Alla corte di Stalin
risponde Sergio Romano
Ormai l’Urss non esiste più e non costituisce più un pericolo o almeno non dovrebbe costituirlo. In considerazione di ciò il giudizio su di esso deve essere doverosamente obiettivo e non fazioso. Mi riferisco ad un suo collega che la precedette con l’incarico di ambasciatore, Joseph E. Davies, che vi si trattenne negli anni 1937-1938 e lasciò le memorie «Missione a Mosca». Poca pubblicità viene data in Italia al fatto che, a differenza del giudizio severo che da noi veniva dato nei confronti dei famosi processi, egli riconosce le colpe di Bucharin peraltro confessate da quest’ultimo. Mentre in Occidente si vuole sostenere che i processi fossero un pretesto creato da Stalin per eliminare ogni dissidenza ed aumentare il suo potere dittatoriale, Davies riconosce il ruolo distruttivo contro il sistema sovietico esercitato tra gli altri da Bucharin e ne giustifica la sentenza. Potrebbe esporre qual è la sua opinione?
Filippo Ferreti
Caro Ferreti,
Davies, nel corso della sua vita, fu un ibrido molto americano di politica e affari. Fece una brillante carriera professionale come esperto di diritto societario, ma fu anche un altrettanto brillante organizzatore di campagne elettorali per il Partito democratico. Divenne amico di Woodrow Wilson, da cui ebbe incarichi pubblici dopo l’ingresso degli Stati Uniti nella Grande guerra; presiedette la Federal Trade Commission (una sorta di Autorità federale per la Concorrenza) e stabilì con Franklin D. Roosevelt rapporti altrettanto cordiali. Fu la sua competenza nelle questioni industriali, probabilmente, che indusse il presidente del New Deal a sceglierlo nel 1936 per dirigere l’Ambasciata degli Stati Uniti a Mosca, aperta tre anni prima, dopo lo stabilimento dei rapporti diplomatici fra i due Paesi. A Davies Roosevelt chiese di valutare la potenza industriale dell’Unione Sovietica e, in particolare, l’efficacia del suo apparato militare. La curiosità era comprensibile. L’Urss aveva completato da poco il primo Piano quinquennale e aveva in alcuni settori una industria moderna. Quale peso avrebbe avuto in un conflitto? Con chi si sarebbe schierata?
A queste domande Davies dette risposte entusiastiche. Fu molto favorevolmente colpito dai progressi della società russa, credette a tutte le promesse del regime, non ebbe mai dubbi sulle motivazioni ideali dei suoi dirigenti. Persino le grandi purghe, nei due anni del suo soggiorno moscovita, gli sembrarono la legittima reazione dello Stato sovietico a complotti orditi da Trotzkij con l’aiuto della Germania di Hitler e del Giappone.
La sua ambasciata a Mosca durò sino al 1938, quando il clima politico internazionale cominciò a peggiorare di giorno in giorno. Ma ebbe un coda cinematografica nel 1943 quando le sue memorie moscovite («Mission to Moscow») pubblicate nel 1941, diventarono un film diretto da Michael Curtiz (il regista di «Casablanca») con Walter Huston nella parte di Davies e uno stuolo di attori nei panni di Stalin, Churchill, Kalinin, Molotov, Hailé Selassié, Ribbentrop, Vyshinskij, Bucharin e Tukhachevskij. Era un periodo in cui Hollywood simpatizzava per l’Urss e aveva l’obbligo morale, oltre che l’interesse, di sostenerla nella sua guerra contro la Germania nazista. Pochi anni dopo, in un clima politico dominato dalla Guerra fredda, un senatore del partito democratico, Joseph McCarthy, decise di chiedere conto agli artisti di Hollywood delle loro simpatie sovietiche. Come spesso accade nei momenti particolarmente agitati, il pendolo della storia, quando comincia a oscillare, passa da un estremo all’altro.
Corriere Salute 28.6.15
Non solo curare ma prendersi cura
di Alberto Scanni
Recentemente Pierluigi Battista su questo giornale ha affrontato il tema del fine vita. Traeva lo spunto da una preghiera ebraica che la moglie di un illustre personaggio ha voluto trascrivere nel ricordo del marito: «Non lasciare che io muoia mentre sono ancora vivo» e sottolineava come purtroppo anche negli ultimi giorni di vita, la spending review possa farla da padrona tagliando i farmaci antitumorali perché particolarmente costosi e che, se usati, manderebbero in bancarotta del welfare. E diceva : «... c’è il rischio che due o tre anni di vita da vivi siano costretti ad esibire il cartellino con su scritto il prezzo». Riflessione sacrosanta: non si deve guardare alla spesa quando c’è la documentata possibilità che le cure abbiano successo!
Ma quante chemioterapie inutili e costose vengono fatte negli ultimi giorni di vita? Terapie che danno solo modestissimi aumenti di sopravvivenza, magari con effetti collaterali pesanti! Esaminando i dati della letteratura si evince che nell’ultimo mese di vita il 25/30 % dei malati fa ancora una inutile chemioterapia e che il 70% degli oncologi intervistati l’abbia somministrata almeno una volta, il 15% più di una. Viene data con scarsa convinzione, non si ha il coraggio di fermarsi, di dire al malato come stanno le cose e impostare precocemente cure palliative presentandole come comunque utili al governo della malattia. Spesso sono i parenti a spingere il medico a insistere e questi acconsente anche per non essere, a torto, accusato di malpractice .
«Non lasciare che io muoia mentre sono ancora vivo» significa che non si deve morire prima del tempo.
In questo contesto si gioca la grandezza di una medicina umana che non solo “cura” ma “si prende cura” offrendo speranza, compassione e consolazione. Una medicina che cerca di rendere ancora “ piena la vita”, che attiva situazioni di normalità per malato e famiglia, che fa sparire il dolore e soprattutto non fa trattamenti inutili che si configurano come accanimento e per di più tolgono risorse a chi realmente ne ha bisogno.
In oncologia si tende spesso a privilegiare la risposta del tumore, ma non è detto che se questo si riduce o sparisce la qualità della vita migliori, vuoi per il disagio psicologico che la malattia comporta, vuoi per la pesantezza delle cure. Da qui la necessità di prestare attenzione maggiormente al benessere globale del paziente e soprattutto di monitorare questo parametro per tutto il periodo della sua storia clinica.
Corriere La Lettura 28.6.15
Suprematismo
Il mito della «causa perduta» nel Sud e la «pace bianca» sancita dal Nord dopo la Guerra civile americana sono alle origini dell’odio razzista riesploso a Charleston
Ma anche l’Europa non è senza macchia
di Tiziano Bonazzi
L’ideologia più profonda degli Stati Uniti non è il capitalismo, e non è la libertà; è la loro storia. Può sembrare una battuta, ma è una battuta più seria di quanto appaia, perché nella storia complessa — e per nulla breve o lineare — del Paese d’oltre Atlantico, le battaglie politiche sono sempre state combattute su quale sia «il significato dell’America» e si va alla storia per cercarlo, per capire se il presente sia adeguato alle origini americane: la rivoluzione del 1776, la Dichiarazione di indipendenza, la Costituzione, i mitici documenti da cui tutto è partito. Così è anche oggi, dopo il massacro alla Emanuel African Methodist Episcopal Church di Charleston, con il violento dibattito che si sta sviluppando attorno ai simboli, la bandiera confederata, la supremazia bianca, la storia degli afroamericani.
Tutto si aggroviglia ancora intorno alla Guerra civile, ai suoi oltre 600 mila morti, alla sconfitta di un Sud orgoglioso che dopo la guerra costruì il mito della «causa perduta», la causa di una civiltà colta, umana, pacifica, superiore a quella materialista, capitalista e aggressiva del Nord — ma senza che la schiavitù sia menzionata. Il Sud come un Cristo martire. Un mito che ha trovato il proprio simbolo nella bandiera della Confederazione, strappata alla realtà storica e divenuta in tanta parte della cultura popolare, non solo americana, l’emblema di ogni ribelle e del suo sogno di libertà contro tutto e contro tutti.
Dylann Roof ci riporta con i piedi per terra. Il suo gesto di giovane che viveva delle fantasie solitarie dei social media è immediatamente andato oltre il caso personale e ha scoperchiato ferite che riguardano assieme il presente e il passato degli americani. La bandiera confederata, che nei suoi selfie Roof stringe in mano assieme alla pistola, ha cambiato di significato, legata com’è alle sue frasi sulla necessità di una guerra razziale, sulla supremazia bianca da garantire per difendere la civiltà. Di colpo, quella che si agita al vento di fronte al Parlamento statale della South Carolina nella capitale dello Stato, Columbia, è diventata un caso nazionale e la si vuole togliere.
Columbia è a duecento chilometri da Charleston, non c’entra nulla col massacro e la bandiera è lì da sempre. L’ho vista non più di tre anni fa garrire su un pennone a fianco della colonna che regge la statua in memoria del soldato confederato, cinquanta metri più avanti del massiccio edificio del Campidoglio, sulla cui cupola sventola la bandiera statunitense. Forse soltanto folklore, volevo pensare. Ma i colleghi della University of South Carolina sfoggiavano un ghigno inquieto.
Non sappiamo ancora perché Roof, che viveva altrove, sia andato a Charleston per compiere il massacro e non sappiamo ancora, forse un caso, perché lo abbia compiuto alla Emanuel Church. In realtà, la Emanuel Church è una pietra miliare nella storia dei neri americani. Fondata nel 1816 come chiesa nera, quando la Chiesa metodista locale espulse i neri liberi, ebbe fra i suoi fondatori Denmark Vesey, un falegname che nel 1822 pianificò una grande rivolta di schiavi. Scoperto, fu condannato a morte assieme ad altri 35 afroamericani. La Emanuel Church venne bruciata dalla folla. Riaperta dopo la Guerra civile, è rimasta fino a oggi un importante centro religioso e politico per la comunità nera, un simbolo della sua volontà di riscatto nel nome di Vesey.
La danza dei simboli non si ferma qui. Nella prima metà dell’Ottocento la South Carolina è stata la culla del più radicale e raffinato pensiero pro-schiavista, il primo Stato a secedere dall’Unione subito dopo l’elezione di Lincoln, nel dicembre 1860, e da Charleston, il 12 aprile 1861, i confederati aprirono il fuoco su Fort Sumter, il forte della baia ancora nelle mani delle truppe unioniste, dando inizio alla guerra.
Roof ha scatenato una così potente gamma di simboli che le sue teorie suprematiste stanno portando a ridiscutere ancora una volta il passato americano. Il presidente Obama, che ha sempre accuratamente evitato di affrontare la questione razziale, ne ha parlato come di uno dei più grandi, irrisolti problemi degli Stati Uniti. È importante chiedersi perché per tanto tempo ha glissato; ma per parlarne occorre ricordare che una possibile risposta coinvolge anche noi europei. A fine Settecento le grandi potenze, Gran Bretagna e Francia, abolirono la schiavitù. Non fu una battaglia facile; ma fu vittoriosa non perché francesi e inglesi si ritenessero uguali agli africani, bensì perché, con pochi schiavi in patria, poterono emanciparli senza danni e usare il proprio senso di superiorità nella colonizzazione e nello sfruttamento dei popoli di colore. La libertà europea fu costruita anche sul razzismo nei confronti del resto del mondo.
Negli Stati Uniti, invece, gli schiavi erano molti, 4 milioni nel 1860, e indispensabili alla ricchissima agricoltura per l’esportazione che legava gli Usa all’Europa. Il Nord li liberò a inizio Ottocento, perché erano pochi e non servivano alla sua agricoltura cerealicola; ma i neri liberi rimasero soggetti a violente discriminazioni e nessuno, tranne piccoli gruppi abolizionisti, li considerava pari ai bianchi. Né europei, né americani bianchi, quindi, volevano l’uguaglianza razziale; ma i secondi dovettero mettere in pratica la loro supremazia in casa. La Guerra civile portò all’emancipazione degli schiavi; ma non finì con la resa del generale Lee nel 1865, bensì nel 1876, quando il Nord consentì agli Stati del Sud di fare quel che volevano con gli ex schiavi, in cambio del libero accesso alle risorse minerarie e forestali del Sud che il ruggente capitalismo nordista voleva. Fu una «pace bianca», che portò alla segregazione razziale, che consentì al mito della «causa perduta» di fiorire, e mise i neri in disparte anche a Nord.
Gli afroamericani sono stati la colonia interna americana, così come gli imperi in Africa e in Asia erano le colonie esterne europee. In entrambi i casi la supremazia bianca — anche se non era mai certo chi fossero i bianchi puri — doveva essere difesa. Gli afroamericani hanno lottato prima contro la schiavitù, poi contro la segregazione e infine contro la discriminazione, aiutati dai bianchi più avvertiti. Tutti sono riandati alla storia — fin da quando Lincoln impugnò la Dichiarazione di indipendenza e disse che per il documento fondante degli Usa tutti sono nati liberi. Ma dovette lottare con quanti, a Sud e anche a Nord, ribattevano che il tutti della Dichiarazione riguardava solo i bianchi e che, se anche i Padri Fondatori vi avevano ricompreso i neri, libertà non voleva dire uguaglianza.
L’uguaglianza non è un diritto naturale. Lo dicevano anche gli inglesi nella Rhodesia coloniale, una delle fonti di ispirazione per Roof. Questa è stata la vulgata della supremazia bianca in America dal 1865 a oggi e, da allora, a ogni passo avanti della comunità nera ha corrisposto la reazione di una galassia di movimenti bianchi che sostengono non solo l’inferiorità nera, ma il pericolo della presenza nera per la civiltà e la libertà bianche e per il significato storico originario degli Stati Uniti. Tale il Council of Conservative Citizens, la lettura del cui website Roof ha scritto essere stata per lui una «rivelazione».
Roof è un lupo solitario disadattato e i gruppi razzisti sono piccole realtà; ma in America il mito della supremazia bianca è un sottofondo pronto a deflagrare, legato oggi alle questioni di genere attraverso il ritornello della difesa delle «nostre» donne dai neri, nonché a quelle dell’immigrazione e dell’emarginazione crescente di tutti i poveri. Roof ha scoperchiato i problemi aperti della storia, quelli su cui Obama doveva glissare. Ma non accusiamo la falsa libertà americana: gli Stati Uniti ci hanno salvato da noi stessi, dalle nostre tragedie di europei e con loro condividiamo la storia del suprematismo bianco. Conviene volare basso.
Corriere La Lettura 28.6.15
Il tempo è relativo
Il papa ha appena proposto di uniformare le date della Pasqua cattolica e di quella ortodossa
Ecco cos’è successo nei secoli
Giulio Cesare, i rivoluzionari francesi, l’Urss: il calendario è un’invenzione
La natura c’entra poco: oggi prevale il sistema gregoriano, ma non è il solo
di Marco Meriggi
Nel calendario giuliano — utilizzato dalla Chiesa ortodossa a fini liturgici — e in quello gregoriano — che dopo aver fatto i suoi esordi nell’Europa cattolica di età moderna è oggi adottato in gran parte dei Paesi dell’Occidente e dai più importanti organismi internazionali — è molto improbabile che la data di Pasqua coincida. A seconda degli anni la Pasqua gregoriana, ovvero la prima domenica seguente alla prima luna piena di primavera, cade tra il 22 marzo e il 25 aprile; quella ortodossa tra il 4 aprile e l’8 maggio. Ma recentemente, come è noto, è stata avanzata (anche da Papa Francesco) la proposta di concordare un’unificazione stabile della celebrazione di questo evento, così importante per tutto il mondo cristiano.
Il calendario giuliano è quello più antico tra i due ed è suddiviso in 12 mesi da 30 giorni, ai quali ne vanno aggiunti 5 o 6 (negli anni bisestili) a fine anno. A promulgarlo, nel 46 a.C., fu Giulio Cesare. Rispetto alla sua unità di riferimento — l’anno solare, ovvero il tempo necessario per il compimento di una rivoluzione completa della Terra attorno al sole — questo sistema di calcolo del tempo ha il difetto di accumulare circa 20 minuti di ritardo all’anno. E nel 1582, quando venne introdotto il calendario gregoriano, il ritardo era giunto, cumulativamente, a toccare circa i dieci giorni. Iniziava così la storia di un modo di misurare il tempo che pare a noi talmente ovvio da indurci a ritenerlo naturale.
La sua progressiva (ma tutt’altro che interamente compiuta) accettazione planetaria è, al contrario, l’esito di processi storici contrastati e spesso drammatici. Il calendario gregoriano — ricorda in un suo libro sulla trasformazione ottocentesca del mondo lo storico tedesco Jürgen Osterhammel — fu, senza dubbio, uno dei prodotti europei di esportazione ai quali arrise nel mondo intero la miglior fortuna. Ma si trattò di una fortuna tutta figlia dell’espansione coloniale e del violento assoggettamento di altre culture a quella occidentale. La sua applicazione comportava, inoltre, una proposta di misura della profondità storica del tempo. O, quanto meno, implicava l’individuazione di un evento di base a partire dal quale calcolare lo scorrere ulteriore dei giorni, dei mesi, degli anni.
Come già per quello giuliano nella sua versione cristianizzata, per il calendario gregoriano quel punto di partenza, come ben sappiamo, coincideva con l’anno presunto della nascita di Cristo. Ma altri calendari avevano individuato — e avrebbero individuato in seguito — altri punti di riferimento. In quello ebraico, per esempio, l’anno 1 cominciava con la supposta data della creazione, secondo le indicazioni ricavabili dalla Bibbia, ovvero da quello che è per noi il 3761 a. C. Il calendario islamico, a sua volta, assume come punto di partenza il ( nostro) 16 luglio 622, ovvero il giorno dell’Egira di Maometto (il trasferimento dalla Mecca a Medina), ed è un calendario lunare. La sua diffusione è coincisa con l’espansione islamica, a partire da quella data.
Calendarizzare significa anche periodizzare. E ha scritto, ancora, Osterhammel che nel 1800, l’anno che nella periodizzazione occidentale insieme all’inizio del nuovo secolo segna anche il confine simbolico tra l’età moderna e quella contemporanea, in gran parte del mondo nessuno si accorse che un secolo (e tanto meno un’epoca) era giunto al termine. Secondo la periodizzazione islamica, infatti, il 1° gennaio 1801 equivaleva a un giorno dell’ottavo mese dell’anno 1215; mentre nei Paesi di cultura dominante buddhista ci si trovava nell’anno 2343 e, ancora, secondo il calendario ebraico, nel 5561. Nell’immensa Cina, d’altro canto, dove il calcolo del tempo ricominciava a ogni avvicendarsi di governo imperiale, quello era l’anno 5 del governo dell’imperatore Jiaqing.
Ma anche in Europa, nel frattempo, qualcuno aveva lanciato il guanto della sfida al calendario gregoriano. Nutrendo l’ambizione di far ripartire la storia da capo, e di lasciarsi così alle spalle un passato percepito come avvilente epoca di ignoranza, di crudeltà e di sudditanza, i rivoluzionari francesi avevano infatti azzerato il vecchio computo del tempo, costruendone uno tutto laico e secolarizzato. Al mondo nuovo sognato dai rivoluzionari corrispose un calendario rivoluzionario anch’esso, elaborato da alcuni degli scienziati più brillanti presenti allora sulla piazza parigina: Romme, Lagrange, Monge, Lalande, Laplace. Entrò in vigore, una volta abbattuta la monarchia, il 24 ottobre 1793, ovvero in un anno I che coincideva con l’avvento della repubblica. Ogni anno venne suddiviso in 12 mesi tutti di 30 giorni, con l’aggiunta di 5 o 6 giorni ulteriori per riallinearsi all’anno solare. Non si contava più a settimane, bensì a decadi — un omaggio alla coeva introduzione generalizzata del sistema metrico decimale — e a ogni mese venne abbinato un richiamo a elementi di ordine climatico o un riferimento alle attività del lavoro agricolo. Ed ecco, così, in autunno: Vendemmiaio, Brumaio, Frimaio; in inverno, la sequenza formata da Nevoso, Piovoso, Ventoso; in primavera Germinale, Fiorile, Pratile; l’estate, infine, era scandita da Messidoro, Termidoro, Fruttidoro.
Ha scritto, in proposito, Lynn Hunt: «La settimana di sette giorni sarebbe stata sostituita da una decade, invariata di mese in mese. Al posto dei nomi dell’era volgare, mesi e giorni avrebbero avuto i nomi che riflettevano la natura e la ragione. Germinale, Fiorile e Pratile, per esempio, facevano pensare ai boccioli e ai fiori della primavera, mentre primidì, duodì ecc. ordinavano razionalmente i giorni senza bisogno di nomi di santi». Il nuovo tempo del calendario rivoluzionario implicava, dunque, il contestuale ripudio dei simboli e delle pratiche di derivazione cristiana. Ma il 22 Fruttidoro dell’anno XII (cioè il 9 settembre 1805) segnò la condanna a morte del nuovo calendario, la cui assimilazione da parte della popolazione era risultata del resto negli anni precedenti molto faticosa. Un decreto emanato da Napoleone stabilì che il successivo 1° gennaio 1806 sarebbe tornato in vigore il calendario gregoriano, con i suoi mesi, le sue settimane, i suoi giorni e i suoi santi.
A riproporre un calendario diverso sarebbe stato, nel 1849, il filosofo positivista Auguste Comte, che suggerì di coniugare ai mesi i nomi di illustri benefattori dell’umanità, ecumenicamente attinti da un po’ tutte le epoche: da Mosè ad Archimede, da Carlo Magno a Dante a Shakespeare. Ma non se ne fece nulla. A far conoscere, però, una nuova effimera stagione di vita al calendario rivoluzionario fu, per poche settimane, nel 1871, il governo che assunse le redini della Comune di Parigi.
Anche nel Novecento, peraltro, si provò a rimettere mano al calcolo del tempo. In Italia entrò in vigore il 29 ottobre 1927 l’obbligo di accostare un numero romano — a partire, retroattivamente, dalla data del 28 ottobre 1922, giorno della mussoliniana marcia su Roma — a quello dell’anno corrispondente della cosiddetta «era volgare». Così definita, l’era fascista finì con l’anno XXI (1943), salvo sopravvivere nella repubblica di Salò fino al 25 aprile 1945.
Ma fu nell’Unione Sovietica che venne realizzata, negli stessi anni, una riforma del tempo ben più radicale. Introdotto nel 1917 il calendario gregoriano al posto di quello giuliano, nel 1929 ne venne introdotta una versione modificata, ritenuta adatta ai nuovi valori della società sovietica: 12 mesi da 30 giorni e, come sempre in questi casi, 5 oppure 6 aggiuntivi, proposti, però, ora come feste: quella di Lenin (dopo il 30 gennaio), quella del lavoro (2 giorni dopo il 30 aprile), quella dell’industria (2 giorni dopo il 7 novembre) e, negli anni bisestili, anche il giorno successivo al 30 febbraio. I mesi vennero suddivisi in 6 sequenze da 5 giorni, in uno dei quali uno dei cinque gruppi in cui erano stati a loro volta suddivisi i lavoratori godeva di un giorno di riposo. Si mirava a far sì che la produzione non si interrompesse mai, visto che quello che era stato in passato il giorno di riposo per tutti — la domenica — era stato abolito. Ma, sebbene questo meccanismo avesse prodotto un lieve aumento dei giorni non lavorativi, risultò evidente che esso rendeva di fatto impraticabili le usuali relazioni sociali, lacerando consuetudini, congelando amicizie, disturbando passioni. Nel 1940 si tornò al vecchio calendario e al vecchio tempo. E il calendario gregoriano riprese, anche in Unione Sovietica, il suo cammino, che l’avrebbe portato a rafforzare ulteriormente la propria posizione nell’attuale mondo globalizzato.
Una marcia trionfale? Forse è meglio, a questo proposito, un atteggiamento ispirato alla cautela. Accade oggi, come un tempo, che, in qualsiasi parte del mondo essi si trovino, i cinesi festeggino l’anno nuovo, come prescrive il loro calendario lunare, in un qualche giorno variabile di febbraio. Nel mondo continuano a coesistere calendari e tempi diversi.
Repubblica 28.6.15
I signori del tempo
Martedì 30 vivremo un secondo in più. In un ufficio parigino ci siamo fatti spiegare il perché
Ora resta soltanto da capire cosa mai potremmo farcene
di Valerio Millefoglie
PARIGI “BOLLETTINO C 49. Alle autorità responsabili della misurazione e della distribuzione del tempo. Nella notte fra il 30 giugno e l’1 luglio 2015 inseriremo il secondo intercalare. L’esatta sequenza di dati sarà la seguente: 23h 59m 59s, 23h 59m 60s, 0h 0m 0s”. Daniel Gambis è il direttore dell’istituto che controlla il tempo ufficiale del mondo. Dirama la circolare dall’Osservatorio di Parigi a tutti gli altri osservatori del pianeta. Grazie a lui il 30 giugno ci sarà concesso un secondo di vita in più. Il fatto è che la rotazione terrestre ha una velocità irregolare a causa delle forze di marea, dei terremoti e di altri eventi naturali che ne rallentano o accelerano il corso. Mentre gli orologi atomici, che segnano il tempo coordinato universale, hanno una cadenza fissa e precisa. Le due rotazioni, della Terra e delle lancette, prendono così direzioni diverse. Il secondo intercalare le riavvicina, portandoci nella stessa dimensione. Dal 1972 a oggi ne sono stati inseriti venticinque. Cosa ne abbiamo fatto di questo tempo in più? Quanto dura davvero un secondo e come può cambiare la vita? Per rispondere a queste domande ho visitato gli uffici in cui si decidono le nostre ore. La rotazione terrestre e la rotazione dell’umanità. Questo è il mio bollettino dall’Osservatorio di Parigi, secondo per secondo.
Daniel Gambis, dicevamo. È in ritardo di 29m 08,51s. Mi soffermo ad ascoltare la musica classica in filodiffusione nell’ascensore. Al quinto piano c’è l’Istituto di Meccanica Celeste e di Calcolo delle Effemeridi, all’ottavo piano il Laboratorio di Studi sulle Radiazioni della Materia in Astrofisica, al quarto il Sistema di Riferimento Spazio Tempo, che fa parte dell’International Earth Rotation and Reference System. È qui che sono diretto.
Le porte si aprono su un corridoio buio e stretto. Accanto alla macchinetta del caffè ci sono dei calici e una bottiglia di rosso del 2011, quell’anno il secondo intercalare non è stato aggiunto. Leggo il titolo di un articolo appuntato in bacheca, Les maîtres du temps , due “padroni del tempo” mi indicano l’ufficio del direttore.
Daniel Gambis ha un sorriso gentile, una sessantina d’anni, un completo marrone, una scarpa slacciata, un ciuffo slacciato anche lui dai capelli, un tono di voce calmo e rilassato e mi dice che ha tardato perché alcuni pedoni camminavano sui binari e il tram procedeva lento. Lavora all’Osservatorio di Parigi dal 1978. Il 16 settembre di quell’anno, alle 9h 05m 55s ore locali di Tabasi, Iran, un terremoto causò la morte di più di diecimila persone. La Terra, scossa, aumentò la rotazione e così il 31 dicembre venne aggiunto un secondo intercalare. Sulla sua scrivania sono accumulati fogli, bigliettini, cartoline, una lettera dell’istituto di navigazione e un apparecchio radio anni Novanta. Mi fa venire in mente una puntata del telefilm Ai confini della realtà in cui un vecchio apparecchio radio si sintonizza sulle frequenze del passato e il protagonista, un anziano in un ospizio, ascoltando le trasmissioni ringiovanisce. Gambis ascolta musica jazz. Sulla parete alle sue spalle ci sono alcuni poster di conferenze scientifiche e la locandina del concerto di un trio jazz. Lui è uno del trio, sax tenore: «Ho studiato in Brasile, lì avevo degli amici che suonavano bossa nova e appena li ho visti suonare per la prima volta mi sono detto “Farò questo nella vita!”, ma non l’ho fatto, quindi la mia scelta di un secondo è stata una scelta mancata».
Suo padre era il contabile del circo Medrano. Gambis andava a vedere lo spettacolo ogni tre settimane. Il suo numero preferito era quello del clown Grock, figlio di un orologiaio, divenuto uno dei più popolari pagliacci di quel periodo. Da adolescente ascoltava il Tour de France alla radio e appuntava su un quaderno tutti i ritardi dei ciclisti. Oggi capita che sua moglie gli chieda che tempo fa e lui le risponda con l’esatta temperatura, «19°C, per lo più soleggiato, umidità al 44 per cento». Il suo proverbio è “È urgente non fare niente”. Mi spiega che se la durata di un secondo sulla Terra è impercettibile, nello Spazio assume un’importanza enorme e che se la rotazione terrestre non andasse di pari passo con il tempo convenzionale, in un lontano futuro l’uomo potrebbe ritrovarsi a pranzare a mezzanotte. Cene a lume di candela alle otto di mattina, appuntamenti nello stesso momento ma senza riuscire a incontrarsi, riunioni di lavoro in vacanza. Solo un team di controllori potrebbe riportare l’ordine, vigilando sulla popolazione affinché nessun cittadino perda tempo nella propria vita. Gambis mi mostra due libri di science-fiction, Il giorno che la terra ha smesso di ruotare su se stessa di Jean-Marc Auclair e Il bizzarro incidente del tempo rubato , di Rachel Joyce, titolo originale Deux secondes des trop , ambientato nel 1972: nel romanzo i due secondi intercalari riportano un bambino a vivere due secondi in un’altra epoca. Nel prologo c’è un ringraziamento a Gambis. Lo ringrazio anch’io prima di dirigermi nella stanza dell’Orologio Parlante dove incontro l’addetto alle sequenze temporali. È un ingegnere italiano che lavora qui da venticinque anni. Un albero piantato, con una grande barba bianca a coprirgli metà volto, un paio di occhialini in bilico sulla punta del naso, i capelli lunghissimi che scendono su una maglia a maniche corte bianca e che s’intrecciano ai fili e agli spinotti dei terminali. Un mago, un hippie, un naufrago nella sala del tempo. Mi mostra un cavo collegato a un calcolatore e mi dice, «Il tempo è qui. Se mi sposto di trenta centimetri nello Spazio, mi sposto di un nanosecondo. Il tempo è una dimensione fisica».
Al polso non ha orologi dall’età di dieci anni, da quando giocando a battaglia di pietre nel suo paese, in Piemonte, venne colpito al polso e il quadrante andò in frantumi. «Poi se lavori con il laser dell’orologio atomico non devi avere nulla perché prima o poi metti la mano nel fascio. Infatti ho un sacco di magliette piene di buchi».
Mi racconta che nel 1676 l’astronomo danese Ole Rømer scoprì proprio qui la propagazione della velocità della luce, mentre era in visita per incontrare l’allora direttore dell’Osservatorio, Giovanni Cassini, «Io in Italia abitavo in via Giovanni Cassini». Martedì 30 giugno a mezzanotte non sarà in questa sala. Il secondo intercalare sarà inserito automaticamente, ma alle due del mattino un suo giovane collega chiamerà l’Orologio Parlante per accertarsi che tutto sia andato a buon fine. Allora dal sottofondo di aria condizionata che soffia rumorosa e feroce nelle tubature sopra il soffitto, si leverà una voce che pronuncerà l’ora esatta. Azioniamo la levetta “ Parlateur ” e le voci di un uomo e di una donna annunciano la data, le ore, i minuti e i secondi precisi, “Fra quattro rintocchi saranno le...”, seguono quindi quattro suoni acuti e arriva l’ora annunciata. Sono le 11h 52m 32s eppure fuori dalla mensa si è già formata la coda. Gli impiegati del tempo si siedono ai tavoli, guardano il parco fuori dalle finestre. Si fermano per un attimo. Io esco dall’Osservatorio alle 14h 17m 06s.Camminando mi ritrovo in una grande casa d’aste. Tre piani, sedici sale, e come Gambis con il suo quaderno dei ritardi del Tour de France, inauguro un quaderno per scoprire quanto valgono in denaro i secondi. Una coppia di cristalli di Boemia, prezzo di partenza 700 euro, raggiunge in 1m 39,79s la cifra di 4.700 euro. Un uomo srotola delicatamente un’antica pergamena giapponese impiegandoci 29,80s e 50mila euro. Una raccolta di lettere originali di Alexander Dumas in 36,41s arriva a 700 euro. Una veste da sacerdote in 13,32s trova chi la indosserà.
Per un’ora rimango affascinato dal rito della vendita. Penso al tempo infinito che può starci in un secondo.
Il 30 giugno del 1985 viene aggiunto un secondo intercalare e il giorno successivo, a Padova, un uomo spara alla madre con un fucile da caccia. Senza quel secondo in più si sarebbe fermato all’idea del delitto e non avrebbe avuto il tempo di premere il grilletto. Il 30 dicembre del 1990 viene inserito un secondo intercalare. La sera dopo gli abitanti di Berlino hanno così voglia di guardare avanti che l’orologio della città segna la mezzanotte in anticipo, ingannando il secondo in più.
Il 2 ottobre del 1959 (in quei giorni lontani l’essere umano per misurare la rotazione del pianeta Terra guarda ancora su in alto, al cielo) va in onda negli Stati Uniti d’America la puntata La barriera della solitudine del telefilm Ai confini della realtà . L’episodio si conclude con questa voce fuori campo, “Lassù c’è l’immensità dello Spazio, il senso dell’infinito. Lassù c’è un nemico che si chiama solitudine. Se ne sta lì con le stelle e aspetta, aspetta con la pazienza dell’eternità, impassibile, ai confini della realtà”.
Corriere La Lettura 28.6.15
Le figlie di Enrico VIII: due regine, due Inghilterre
Lo scontro religioso, politico e personale tra Maria e Elisabetta
di Amedeo Feniello
Che mondo, quello dei Tudor. Di una dinastia che — con la sua vicenda, dal 1485 al 1603 — segna i destini inglesi cambiandone in profondità i connotati. L’Inghilterra: una nazione che, sul finire del medioevo, balbettava, gravata da trent’anni di guerre civili, si ritrova, alla morte di Elisabetta, energica, dinamica, prospera. In linea con le nazioni più sviluppate del tempo. Consapevole di avere la forza di potersi confrontare, da pari a pari, con le principali potenze europee. E ciò fu possibile, certo, grazie a una somma di fattori. Ma contò, e molto, chi era al comando. E al comando c’erano loro, i Tudor, ora celebrati in una mostra al Musée du Luxembourg di Parigi.
La storia della famiglia è epica. Dentro c’è di tutto: intrighi, amori, congiure, assassini, passioni. Ma anche senso dello Stato e volontà di governo. Decisionismo e autorevolezza. Visione politica e senso di una narrazione ideologica che fu uno degli ingredienti principali della «età dell’oro» elisabettiana. Le origini si perdono nella caligine. Nel loro Pantheon c’è un capostipite. Un gallese. Owen Tudor. Si sa poco di lui. Fu cortigiano. Guardarobiere. Ma fece fortuna perché amante (e, forse, sposo) di Caterina di Valois, vedova di re Enrico V d’Inghilterra. Leggenda vuole che la regina si innamorasse di lui: presa da passione, osservandolo mentre danzava. Insieme, fecero sei figli. Da qui si diparte una linea, che ha un eroe, Enrico VII. È lui che batte Riccardo III a Bosworth nel 1485. È lui che instaura un lungo periodo di pace e pone fine alla guerra delle Due rose, tra York e Lancaster.
Ma in questo Pantheon c’è una figura che giganteggia. Un Urano, che tutto divora intorno a sé: mogli, figli e figlie, collaboratori, amici. Che fu amato dal popolo, perché incarnava lo spirito della cortesia e del potere sovrano. E, soprattutto, della pace ormai raggiunta: Enrico VIII. Il suo successo si fondò proprio sulla pace: sia all’interno sia verso l’esterno, tanto che il suo regno si atteggiò da mediatore tra le grandi potenze del tempo nei loro conflitti. Si guarda all’impero spagnolo, con il matrimonio dello stesso Enrico con Caterina d’Aragona. Si guarda alla Francia, con il trattato di Noyon del 1516.
Il Paese pacificato comincia a muoversi. Le energie si proiettano altrove. Il mare attrae sempre di più per le sue risorse. Davanti all’Inghilterra c’è un mondo nuovo: da scoprire, colonizzare. E la Corona incarna questi nuovi impulsi. Li incanala, cercando di smussare eccessi ed estremismi. Ma la mentalità inglese stessa si sta trasformando. Sull’isola si infrangono le ondate della nuova tensione religiosa che sta invadendo l’Europa. La tradizione scolastica non convince più. È il tempo di un umanesimo cristiano che trova in Erasmo un propagatore eccezionale. E c’è tensione: contro le istituzioni ecclesiastiche e gli ordini mendicanti. Percepiti come sanguisughe. Baluardi di un ordine non solo spirituale ma economico e politico che ha il suo epicentro non a Londra ma a Roma.
Le ostilità aumentano. Enrico e la sua corte le avvertono. Ma per il re comincia un’avventura personale, che è simmetrica con quanto accade in Inghilterra. Lui è stanco di Caterina, che non gli dà il desiderato erede. Vuole altro. Si invaghisce di una dama di corte, Anna Bolena. Una passione che cambierà le sorti inglesi — ed europee. Con una scelta di campo rivoluzionaria: il 23 maggio 1533 l’arcivescovo di Canterbury annulla il matrimonio con Caterina. Cinque giorni dopo viene sancita la nuova unione con Anna. Inizia l’avventura dei sovrani inglesi come capi supremi dell’autocefala Chiesa anglicana.
È un ribaltamento di fronte epocale. Che ha un risvolto singolare nella vicenda della famiglia. Perché è come se, da questo momento in poi, vi sia un unico maschio, immenso, che domina su tutto. Cioè Enrico. E un universo al femminile che subisce le sue violente decisioni ma, nello stesso tempo, se lo contende, lotta per averlo o cerca di distaccarsene. Una fascinazione dalle chiavi psicologiche complesse, che riguarda non solo le sue mogli, ma anche il destino delle figlie di Enrico — la cattolica Maria e l’anglicana Elisabetta —, che si disputeranno il trono una volta venuto a mancare il legittimo erede maschio. Il figlio della terza moglie di Enrico, Jane Seymour, il tanto amato e protetto Edoardo VI. Re che salì al trono giovanissimo, a neanche dieci anni, nel 1547; ma che morì poco dopo, nel 1553.
Maria e Elisabetta. Due donne e due caratteri che assorbono il modello paterno ma, d’altro canto, lo rifiutano. E ne riproducono l’energia in uno scontro, tra loro, che è ideologico e politico, ma, al contempo, personale. Quando Maria arriva al trono nel luglio 1553, a 37 anni, si capisce quanto forte sia il suo desiderio, per dirla in termini freudiani, di «uccidere il padre», di annullarne le decisioni, soprattutto in campo religioso. E così fa. Ripristina il cattolicesimo. Guarda al Concilio di Trento. Si sposa con Filippo II, per rinsaldare i legami con la cattolicissima Spagna. Reprime i protestanti: e, nel farlo, fa imprigionare la rivale, la sorellastra Elisabetta. Chiusa, per non nuocere, nella Torre di Londra.
Il destino di Maria fu terribile. Voleva un erede, per continuare la dinastia. Un giorno, l’illusione: il ventre è grosso. Il ciclo interrotto. Si spera, si prega. Ma non è l’erede sognato. È un tumore. In mancanza di un figlio, tutti sapevano che, morta lei, la restaurazione del cattolicesimo sarebbe naufragata. E così fu.
Comincia una nuova era. Davvero al femminile. L’era di Elisabetta. Di Astrea. Della dea-lunare Diana, cantata da Ben Jonson come «regina e cacciatrice, casta e bella». La Vergine-Regina: per tutto il suo regno, che fu lungo, dal 1558 al 1603, la verginità della regina si usa come potente arma politica. Elisabetta civetta con tutti, gioca con uno o l’altro pretendente. Ma non si sposa mai. Come scriveva Frances A. Yates nel saggio Astrea (Einaudi) «di qualunque genere fossero le frecce scagliate da Amore, la vestale imperiale passava oltre, immensa, in verginale meditazione». Elisabetta: eterna, mitologica e sola. Incarnazione di un potere che ormai ruggisce sul mare. Che esprime la generazione degli Shakespeare, dei Drake, dei Raleigh, degli Hawkins. Combattiva. Avventurosa. Che vede dischiudersi nuove opportunità e sa profittarne. E lancia l’Inghilterra verso i Saturna regna . Verso il futuro. Là dove si sarebbe compiuto il ciclo di Astrea.
Repubblica 28.6.15
Adriano Prosperi
“Io ci provo, ma quello degli storici sta diventando un mestiere inutile”
colloquio con Antonio Gnoli
Nella casa dove sono cresciuto c’erano ancora gli attrezzi da lavoro che sono scolpiti sulle cattedrali medievali. Allora i nostri nonni invecchiavano come alberi. C’era una fraternità che non esiste più
Mio nonno mezzadro. Mio padre piccolissimo proprietario. Mai avrei immaginato di farcela. La Normale mi cambiò la vita. I miei ideali sociali erano in provincia: cercavo un riscatto a chilometro zero
Con Adriano Prosperi ci incontriamo a Roma dove, ogni tanto, arriva da Pisa. È un viaggio solo un po’ più complicato di altri itinerari ferroviari. Ci viene volentieri. Grato a questa città di cui conosce il sostrato inquietante e l’eco che arriva da antichi secoli. Quando sacro e profano sembravano una mistura politica di una qualche efficacia. Prosperi svolge meravigliosamente il lavoro di storico, scavando nella prima modernità. In quel mondo, tra il Cinque e il Seicento, su cui la Chiesa stava per prendere il sopravvento. Senza mai riuscirci veramente. Gli chiedo che Italia ne sarebbe scaturita. Mi guarda. Rilassato, avvolto da un’eleganza asciutta, lievemente demodé: «Chi lo sa, certo un’Italia diversa da quella che abbiamo di fronte. Su questo mi pare inappellabile il giudizio di Machiavelli».
Cosa disse Machiavelli?
«Che la Chiesa non possedeva sufficiente forza per unificare, ma aveva il potere spirituale per impedire ad altri di farlo. È un filo che tirandolo fino ad oggi spiega molte cose interessanti della nostra tragica debolezza di fronte agli altri Stati. È una tesi che mi ha portato numerose critiche sia da destra che da sinistra. Ogni tanto penso che avrei dovuto fare un mestiere diverso dallo storico».
Si fa quello per cui ci si sente portati.
«In teoria è vero. Ma prenda me. Vengo dal mondo contadino. Mio nonno mezzadro. Mio padre piccolissimo proprietario. Mai avrei immaginato di farcela. La vita, però, può farti dei regali incredibili. Concorsi a una borsa alla Normale di Pisa che mi avrebbe garantito vitto, alloggio ed esenzione dalle tasse. Mutò la mia esistenza. Fino ad allora, i miei ideali sociali erano radicati nella piccola provincia: il maestro o, se proprio andava bene, il medico condotto in qualche paesino. Riscatto sociale a chilometro zero».
Invece arriva a Pisa. Che ambiente trova?
«Fertile. La città aveva per me la stessa attrazione che avrebbe avuto Las Vegas per un giocatore di roulette. Fu incredibile. A 18 anni la vita è incerta e si può davvero riuscire a prendere il meglio o il peggio. Ho avuto fortuna».
Non dà proprio l’idea di un Rastignac a Parigi.
«Molta timidezza ma anche determinazione. L’ostinata determinazione contadina».
Che figure erano i suoi genitori.
«Una mamma molto cattolica e un padre comunista. Lo ricordo quando, giacca sulla spalla, partiva fischiettando diretto alla casa del popolo. Se non lavorava era lì che si faceva trovare. Infinite discussioni sull’Unione Sovietica annegate in un bicchiere di Chianti e una partita a carte. Poi, per degli episodi di stalinismo locale, uscì dal partito».
Sarebbe interessante rileggere il consenso politico attraverso quei luoghi.
«Le due grandi istituzioni in Italia furono la Chiesa e le case del popolo. In mezzo non c’era molto altro».
C’era la Normale di Pisa.
«Il mio ingresso fu in un mondo totalmente diverso».
Chi furono i suoi insegnanti?
«Diciamo che la mia attenzione si rivolse soprattutto verso i colleghi più bravi. Il più importante dei quali — anche per l’amicizia che ci ha legato e ci lega — è Carlo Ginzburg. Poi c’era Claudio Baiocchi. Un matematico molto dotato che passava il tempo a giocare a poker. A un certo punto ricordo che comparve Francesco Orlando. Aveva qualche anno più di noi».
Cosa faceva?
«Il lettore di francese. A un certo punto ci stupì leggendoci un suo lungo ricordo di Tomasi di Lampedusa. Aveva un forte accento siciliano e sembrava davvero spingerci a forza dentro a quel capolavoro di cui cominciammo ad avvertire gli echi di una terra che ci sembrò straordinaria».
Quando dice “ci sembrò” a chi si riferisce?
«C’era Carlo Ginzburg che divenne molto amico di Orlando stimandone le grandi doti intellettuali e specialistiche. C’era Sebastiano Timpanaro, il maestro senza cattedra. Si sedeva in fondo all’aula ad ascoltare».
Cosa stima di Carlo Ginzburg?
«È un grande storico, forse il più grande e non solo della nostra generazione. È uno sperimentale capace di muoversi con agilità ai margini delle discipline più diverse. La nostra amicizia si è riempita a tal punto di discussioni intellettuali, da farmi sentire spesso sotto osservazione. “Cosa stai facendo ora?”, era una sua frase ricorrente e lievemente inquisitoria».
Cantimori fu maestro di entrambi.
«Non solo di noi due. C’era anche Adriano Sofri. Attendevamo i suoi seminari con religioso timore. Non era neppure sessantenne. Ma sembrava già un vecchio con il pizzo e gli occhiali. Cappello in testa, cravatta nera da anarchico. Giacca a mezza gamba. Scendeva dalla carrozza del fiaccheraio con due borse cariche di libri e lentamente si avviava verso l’aula. Pochi gli studenti. Un anno — dopo aver abbandonato il Pci — decise di fare un seminario su Nietzsche e alla fine annunciò che avrebbe messo ai voti due possibili corsi: uno dedicato al modo in cui lavorava Marx e l’altro su di un trattato scritto in latino e dedicato all’istituzione del cardinalato. Inaspettatamente prevalse quest’ultimo. Ricordo che Adriano Sofri rinunciò al seminario».
Sa perché?
«No, ma suppongo ci fosse in quel momento un interesse più per Marx che per i principi della Chiesa».
Cantimori aveva tradotto insieme alla moglie alcune parti del “Capitale”. È singolare per uno che aveva subito un certo fascino del nazionalsocialismo. «Passò da quel mondo agli interessi per il comunismo».
Perché respinse la cultura liberale?
«Non l’amava. Per lui era la cultura delle anime belle. Cantimori era interessato al realismo della politica e ai rapporti di forza. La vaporosa idealità gli era estranea. Citava la moglie. Fu Emma Mezzomonti, che sposò in seconde nozze, ad avvicinarlo al Pci. Emma fu un membro importante del partito durante la clandestinità. Germanista. Resta una delle figure più misteriose del Novecento».
Cantimori le parlò mai del suo passato?
«No, non amava parlare di sé. Ma era un uomo tormentato dai suoi errori. Come pure tormentate erano le sue lezioni. Parlava a voce bassissima e spesso si mangiava le parole. Ma aveva la vocazione autentica dello studioso. Anche nei suoi scritti sul nazismo, passati al setaccio, c’era la volontà di capire».
Beh, la voce nel “Dizionario di politica” dedicata alla parola “Onore” non era solo un desiderio di capire.
«Prevale un’impressione di neutralità, e il bisogno di tenere a bada il “furibondo cavallo ideologico”».
Ritiene che il suo etlismo facesse parte di quel tormento cui accennava?
«Sinceramente non lo so. Era un alcolista che non si ubriacava. Al bar poteva cominciare al mattino con una razione abbondante di whisky o di gin. A volte gli capitava di addormentarsi durante la lezione. Nessuno osava svegliarlo».
Ho insistito molto su Cantimori perché in fondo fu lui a orientarla negli studi sull’inquisizione.
«È stato un maestro imprescindibile. Quanto a me credo di aver dimostrato che l’inquisizione in Italia sia stata diversa da quella spagnola».
Diversa in che senso?
«Più blanda quella romana. Pensi all’istituto della confessione. Spesso bastava che l’eretico si pentisse perché fosse perdonato o pagasse un prezzo molto basso. È un tratto che diverrà tipico della storia italiana».
Che vantaggio ne traeva la Chiesa?
«La confessione quasi sempre si trasformava in delazione. L’inquisizione poteva così conoscere la realtà
ereticale. Controllarla e debellarla».
Immagino abbia letto Dostoevskij?
«Sono stato un precoce esegeta dei suoi romanzi».
La figura del Grande Inquisitore che tratteggia?
«Credo che avesse il compito di tenere il Cristo lontano dalle coscienze. Del resto, tutto il processo della Controriforma fu il progressivo rompersi del rapporto tra le coscienze dei credenti e la Bibbia. Fino agli anni Cinquanta dello scorso secolo occorreva chiedere il permesso al vescovo per leggere il testo sacro».
Oggi sembrerebbe assurdo un vincolo del genere.
«La storia della Chiesa è piena di divieti. Pensi all’Anima. Per tutto il Quattrocento la si irrise. Pomponazzi si spinse fino a parlarne in termini di mortalità. Poi, nel 1513, il papa decretò, contro gli averroisti, la sua immortalità. Finì così la libertà dei poeti e dei filosofi».
Che cosa è la verità storica?
«C’è una verità di fatto. Una certa cosa è avvenuta un certo giorno».
Una verità minima.
«La storiografia dell’800 ha inseguito la verità massima. Cercare i documenti e in virtù di essi raccontare la Storia. Nel ’900 si affaccia la scienza del falso».
Ossia?
«Il falso diventa il centro di una storia possibile. Marc Bloch analizzò a fondo il fenomeno, in particolare in quel libro meraviglioso dedicato ai Re taumaturghi. Erano i sovrani di Francia che praticavano il rito della guarigione dalle scrofole degli ammalati».
Il potere faceva miracoli.
«Appunto. I nostri Savoia impararono da quel modello quando favorirono la devozione per la Sacra Sindone».
E dopo il falso?
«Si è passati al finto. Si è passati alla storia delle rappresentazioni mentali».
Si spieghi.
«Prima ancora che nella realtà la storia, a volte, nasce nella nostra testa. Solo successivamente diviene un fatto storico. Le leggi razziali furono la conseguenza storica, dunque reale, di un paradigma immaginario: che l’ebreo fosse per natura un essere infido e il suo sangue marcio».
Fu un modo impietoso di guardare alla storia di un popolo.
«Il cristianesimo, e in particolare il cattolicesimo, non ha mai conosciuto la compassione».
Ne è sicuro?
«La compassione è la piena accettazione dell’altro. Anche del diverso. Il cattolicesimo conosce solo la pietà che è un gesto di condiscendenza, un rapporto tra diseguali».
Ha sofferto la diseguaglianza?
«Sì, e ho cercato di combatterla. Sono nato su una collina della Toscana, a Lazzeretto, non lontano da Livorno. Il nome è emblematico. In origine era il luogo dove venivano seppelliti i morti per la peste del 1630. Se vuole tutto ha origine da quella emarginazione. È curioso».
Cosa?
«Che al mio paese si festeggi la liberazione non il 25 aprile del 1945 ma il 2 settembre del 1944. Perché grazie agli alleati ci liberammo in anticipo dalla presenza dei tedeschi. La notte prima nessuno del paese dormì. C’era forte inquietudine. Ero bambino e ricordo la nonna e la mamma agitarsi su un giaciglio di fortuna in cantina. Mio padre con il fucile a fare la guardia. Qualche giorno prima una banda ubriaca di SS aveva rastrellato e catturato in paese un po’ di gente. Tra cui mio padre. Alcuni furono fucilati. Pochi, e mio padre tra essi, miracolosamente si salvarono. E ora era lì con il fucile a difendere le nostre vite. Fu così che uscimmo dall’ombra e dalla dittatura».
Chi è lo storico?
«Per lungo tempo, almeno in una certa tradizione, era colui che legittimava il potere».
Forse oggi deve delegittimarlo?
«Non lo so. Qui forse le ragioni non dico di una sconfitta ma di un disorientamento. Si è aperta la stagione di un mestiere inutile che rivela tuttavia una residua possibilità».
Quale?
«Impedire allo sguardo sul presente di essere troppo povero».
Riesce in questo compito?
«Ci provo, ma è sempre più difficile scendere in profondità. Tutto spinge verso la superficie. Ho 76 anni. Le forze digradano. E la vecchiaia incombe».
Come se la immagina?
«C’è poco da immaginare. Si aggira e annusa l’aria. Oggi ne ho un’idea diversa rispetto al mondo da cui provengo. Del mio passato non è sopravvissuto quasi nulla. Nella casa dove sono cresciuto c’erano ancora gli attrezzi da lavoro che sono scolpiti sulle cattedrali medievali. Un altro mondo. Penso che allora la vecchiaia si iscrivesse in un processo naturale. I nostri nonni invecchiavano come alberi. E c’era una fraternità tra gli uomini che non c’è più».
Davvero non resta più nulla?
«Per dirla ironicamente la vecchiaia oggi arriva a nostra insaputa. Non si distingue dalle altre età. La camuffiamo. La allontaniamo. La rimuoviamo. Inseguiamo un’idea di immortalità. Dimenticando il numero dei nostri anni. Poi di colpo arriva la decadenza. Quella parola, che avevamo cancellato, come una raffica di vento spazza via il presente. È l’immagine di un cappello che non riusciamo più ad afferrare. Vola. Vola. Vola. Forse è il momento di lasciarlo andare».
Repubblica 28.6.15
Inconscio digitale
Nell’era della trasparenza e dei Big Data, le emozioni online orientano in modo nuovo la lettura della realtà quotidiana
I social network costituiscono un sistema integrato di pulsioni, desideri e frustrazioni che circolano alla velocità della luce modificando le percezioni e aggiornando la definizione di Freud
di Derrick De Kerckhove
Il sociologo e teorico della comunicazione Derrick de Kerckhove sarà protagonista martedì alle 18 a Milano, nello spazio espositivo The Waterstone di Intesa Sanpaolo, Official Global Partner di Expo Milano 2015, del quarto appuntamento del ciclo Sharing the World a cura di Giulia Cogoli Il suo intervento sarà dedicato al tema “Condivisione on-line e off-line”
Siamo entrati nell’era della trasparenza. Istantanea e onnipresente, la condizione digitale realizza una nuova forma di comunità virtuale molto particolare. I nostri smartphone ci rendono nodi di un ipertesto globale. L’essere costantemente connessi riduce il sentimento della solitudine perché tutti diventiamo sempre e ovunque raggiungibili. Siamo completamente trasparenti: un uomo connesso non è un uomo indipendente. Si tratta di un cambiamento di civiltà. Questa mutazione nasce da un nuovo matrimonio del linguaggio con l’elettricità. Ogni volta che il linguaggio umano cambia di medium cambia anche l’etica.
Nell’Occidente, superando il concetto di privacy, la gente sta perdendo il controllo della sua intimità. La società in cui viviamo divide la realtà in due spazi opposti e non sa ancora bene come integrarli tra loro: lo spazio “privato” e lo spazio che potremmo definire “invaso”. Si pensa generalmente che la nostra identità, il senso che abbiamo di noi stessi, sia una cosa privata, dove non si può entrare senza permesso. Ma nello “spazio invaso”, il “privato” si riduce notevolmente. Vivere concentrati su uno schermo per quasi tutto il nostro tempo porta a un rovesciamento dell’orientamento mentale. Invece di interiorizzare un’informazione nel silenzio della lettura, di meditarla dentro di noi, la pubblichiamo su Facebook e su Twitter. Lo spazio della Rete è essenzialmente relazionale: sposta l’attenzione e la comunicazione all’esterno di noi. Nei social media l’identità si costituisce come proiezione e distribuzione del sé fuori dal luogo del corpo.
In tanti ormai siamo consapevoli di essere tracciati completamente, però forse sottovalutiamo ancora che questa “invasione” va molto oltre lo sfruttamento dei dettagli personali inseriti su Facebook e su Twitter. La nostra vita diventa via via più trasparente nel moltiplicarsi di dati e di reti personali, attraverso social network e sistemi automatizzati che registrano le nostre attività sociali, economiche e culturali. I dati di tutti i nostri movimenti e azioni on e off-line — e tra non molto tempo, anche i nostri pensieri e sentimenti — vengono continuamente archiviati nelle banche dati del mondo. Al tempo dei Big Data, basta sviluppare un programma che sceglie configurazioni di dati pertinenti per estrarre un’informazione che può servire a chiunque. Questa presenza di dati potenzialmente estraibili su ciascuno di noi è quello che chiamo l’“inconscio digitale”.
Il sapere della Rete veicola le forme del nostro inconscio digitale. Appare dunque interessante interrogarsi sulle sue modalità di definizione e di sviluppo, alla luce delle tensioni tra l’emisfero “razionale” e quello “intuitivo” del web, tra la funzione di analisi e quella di “cattura emozionale”. L’inconscio digitale prende forma e si sviluppa attraverso le diverse forme di sapere e di informazione che circolano nella Rete. Orienta la definizione della realtà quotidiana di ciascuno di noi e del mondo sociale in un processo connettivo che si nutre delle modalità di interazione tra gli individui. Rappresenta l’informazione — e la forma delle associazioni tra le informazioni — alla base dei nostri processi mentali e delle nostre azioni.
Con Freud, la psicoanalisi fonda la teoria della mente a partire dal concetto di inconscio. La dimensione inconscia è caratterizzata da istinti e desideri che non si manifestano a livello razionale e che, pertanto, non sono immediatamente controllabili. Tuttavia, tale dimensione guida e indirizza i comportamenti individuali. L’inconscio digitale si caratterizza per la sua portata globale, per la straordinaria velocità attraverso cui consente l’accesso alle informazioni, per la possibilità istantanea di raccogliere e far emergere a livello cosciente una considerevole collezione di dati, correlati in diverse configurazioni in tempo quasi reale. Il problema principale non è legato all’uso etico delle tecnologie, benché questo sia senza dubbio preoccupante. Il problema fondamentale è che, come al solito, la tecnologia cambia l’etica personale. Attraverso le tecnologie, l’etica della persona “individuale” diviene quella della persona “sociale”. Dobbiamo essere preparati, ricevere una corretta educazione e alfabetizzazione perché finora nessuno vieta nulla in Rete. In Rete non c’è un codice di convivenza civile. La mia ambizione è di proporre gli elementi di un’etica di condivisione e di trasparenza ormai indispensabile.
La vita emozionale in Rete è sviluppatissima. La gente sente sempre più il bisogno di condividere dettagli su di sé e sulle sue idee politiche. In Rete manca il senso del pudore. I social media trasportano le emozioni e le fanno condividere. Funzionano come un sistema integrato di pulsioni, desideri, frustrazioni, che circolano alla velocità della luce. I grandi movimenti a partire dalle primavere arabe, passando per Occupy Wall Street e Los Indignados, sono stati emozioni collettive e connettive che hanno attraversato frontiere e culture.
La scintilla che ha scatenato l’incendio è indubbiamente WikiLeaks. Dalla pubblicazione dei dispacci segreti su WikiLeaks alla rivolta in Tunisia c’è un passaggio non di strategie, ma di sentimento inconscio. WikiLeaks è stato un momento di risveglio sull’ipocrisia dei governi. Un’ipocrisia e una doppiezza in un certo senso necessari alla diplomazia, ma a tutto c’è un limite. C’è stata una richiesta di responsabilità nei confronti del potere. I nuovi media non hanno certo creato questo sentimento, tuttavia l’hanno reso visibile a livello locale e globale. Il ragazzo egiziano che vede ribellarsi il ragazzo tunisino si sente chiamato in causa, indipendentemente dalla distanza geografica. Lo stesso vale per tutti gli altri. Come diceva Marshall McLuhan, i linguaggi elettronici hanno fatto del mondo intero l’estensione della nostra pelle.
Nei media collegati alla Rete, si scatenano numerosi eventi cognitivi ed emotivi che passano da persona a persona, motivando alla condivisione di esperienza e all’azione politica. La mappa geopolitica del mondo intero è stata cambiata dall’arrivo sulla scena, attraverso la Rete, di una nuova classe politica, di un nuovo attore: la “massa interattiva”. Non è piu la massa anonima e amorfa del passato, quella della “Silent Majority”, della maggioranza silenziosa. Ora la maggioranza non tace più. La massa interattiva è il tipo di massificazione umana costituito dalle connessioni tra tanti individui che possono rispondere a modo loro a qualsiasi tipo di situazione. È una massa “connettiva”, non banalmente “collettiva”. Possiamo immaginare pure con Manuel Castells che si tratta della collaborazione fra tanti “mass individuals”. Le relazioni che si stabiliscono tra individui connessi sono molto più complesse e articolate di quelle che intercorrono tra singoli che formano una massa anonima. Sono una chiacchierata ininterrotta, una conversazione moltiplicata in un tempo infinito.
Questa nuova condizione di condivisione in tempo reale di informazione e di sentimenti e opinioni di ciascuno richiede un ordine emozionale che chiamo “sistema limbico sociale”. Ci troviamo di fronte a un benchmark , un momento di inizio che nessuno avrebbe potuto prevedere. I giovani e Internet stanno consegnando alla storia quel che ancora rimaneva in piedi del XX secolo. Il potere deve fare i conti con la potenza difficilmente contenibile delle intelligenze connettive messe in moto dal web. Siamo in un momento storico paragonabile a quello della Rivoluzione francese. L’ambiente in cui la persona digitale vuole vivere quale sarà? Esistono segnali evidenti di una richiesta globale di correttezza politica, per una società della condivisione. Non dobbiamo dimenticare a questo punto il transculturalismo, e nello stesso tempo dobbiamo valutare con molta attenzione le resistenze, quasi criminali, di coloro che difendono lo status quo. Lo scenario possibile dunque è una collaborazione interculturale a tutti i livelli, dove l’ambiente sarà l’oggetto della ritrovata unione dell’umanità, e la preoccupazione principale di tutte le culture insieme. La persona digitale non vorrà solo avere risposte sul clima dal suo gadget tecnologico, ma vorrà sapere come sta il mondo. Il futuro è una app che ci tiene informati sulla salute del mondo.
Repubblica 28.6.15
Il viaggio psichedelico che comincia da un filo
Maurizio Bettini e Silvia Romani dipanano gli intrecci secolari che dal tessuto mitologico della storia di Arianna generano infinite varianti
di Nadia Fusini
Anni fa mi innamorai di Fedra, la tragica protagonista dell’ Ippolito di Euripide. Scrissi un libro, La Luminosa , dove investigavo la funesta genealogia che la stringeva alla figlia del Sole Pasifae, sua madre, e alla sorella Arianna; lei, Fedra, la terza della famiglia a fare l’esperienza dell’amore infelice, o meglio sconveniente. Adultero. Incestuoso. Niente, a ben guardare, in confronto alla madre, che s’era innamorata del toro, e s’era fatta costruire da Dedalo la macchina erotica per copulare con l’affascinante animale. Quanto alla sorella, Arianna, anche lei sventurata, per Teseo aveva tradito l’isola patria, e poi dall’eroe libertino era stata abbandonata durante una sosta del viaggio verso Atene...
Ora torno a innamorarmi di quest’ultima, leggendo Il mito di Arianna, che Maurizio Bettini e Silvia Romani firmano insieme per Einaudi. E scopro che aveva assolutamente ragione Karl Kerényi - il tessuto mitologico è privo di orli, si tira un filo e mille altri vengono al pettine. Nel caso di Arianna, il filo è proprio ciò che la nostra eroina tiene in mano, con il filo salva Teseo dal labirinto. Ma non ne avrà la ricompensa dell’amore eterno. Sarà piuttosto piantata in (n)asso, e lì avrà inizio l’erratica avventura del personaggio che l’affabile ricercatrice in Mitologia Classica, Silvia Romani, ricostruisce con acribia filologica e in stile brioso e avvincente, collezionando immagini e racconti dalla Grecia ad oggi. Mentre a mo’ di certificato doc, Maurizio Bettini, illustre accademico studioso del mondo antico, in questo caso in veste di narratore, decora il prezioso artefatto con un suo racconto. A conferma della lampante verità secondo la quale a simbolo risponde simbolo. In effetti, da che mondo è mondo questo è il funzionamento del mito: il mito produce altro mito. Il che ne spiega le infinite varianti.
Nel caso in questione le varianti tutte si dipanano intorno al modo in cui giocano oggetti concreti, quali il gomitolo e il filo, ipnotici attributi della femminilità, e figure astratte come il labirinto, che sono rimaste confitte nel nostro immaginario, producendo altre immagini ancora; servendo, appunto, da filo d’avvio per tramare altre storie; sì che l’isola di Creta ci appare come uno dei grembi meravigliosi ed eterni da cui viene partorito un corpus di favole che popolano a tutt’oggi il nostro mondo interiore.
Con inesausta e contagiosa passione Silvia Romani viaggia da Creta all’Europa, dall’isola di Shakespeare fino alla Russia della Cvetaeva, per rintracciare altre, ulteriori e nuove versioni delle gesta mirabili della principessa cretese, e regina, e dea, e signora del labirinto, in un trip incalzante di peregrinazioni fantastiche, che il lettore non può che seguire incantato, e che alla fine si configurano come un vero e proprio viaggio psichedelico.
IL MITO DI ARIANNA di Maurizio Bettini e Silvia Romani EINAUDI PAGG. 290, EURO 30
Repubblica 28.6.15
Le Corbusier
L’artista che non voleva essere solo un architetto
di Cesare De Seta
Nel Novecento pochi sono gli architetti, anche pittori e scultori la cui opera supera la soglia del dilettantismo ed è divenuta parte essenziale della loro creatività con esiti che non sono impari al ruolo che essi hanno assunto nella loro privilegiata attività. Certamente Peter Behrens, Le Corbusier ed Alvar Aalto appartengono a questa ristretta compagine: per loro pittura e scultura furono processo — sincrono e unitario — all’arte del costruire. Tra chi operò contemporaneamente sul tavolo da disegno e sulla tela, Le Corbusier è certamente il più complesso, il più problematico e il più intelligente costruttore di una nuova via della forma ove si disfa l’antico steccato tra le arti: infatti, a differenza di Behrens, Le Corbusier dipinse fino agli ultimi giorni della sua vita.
L’unità delle arti fu uno dei cardini dell’Avanguardia storica — dal Futurismo a De Stijl, all’Espressionismo — e certamente il giovane Charles-Edouard Jeanneret (1887-1965) di questo clima fu partecipe sia pur con il sussiego della sua personalità scontrosa e poco incline a riconoscere i propri debiti. Ripeterà Le Corbusier, citando Cézanne, «tutto è sfere e cilindri». E di qui bisogna partire per trovare il germe primario del suo fare pittura e del suo fare architettura. Il giovane inizia a dipingere in modo sistematico a partire dal 1918, interrompendo o rallentando solo per ragioni contingenti, perviene ad una formulazione teorica affatto originale: nel 1921, stagione tra le più dense per la qualità dei risultati raggiunti, in un articolo intitolato Le purisme , pubblicato su L’Esprit Nouveau , rivista fondata e diretta con l’amico Amédée Ozenfant, scrive testualmente: «Nous avons conclu... à la nécessité de la peinture architecturée». Con questa dizione, assunto il nome di Le Corbusier, intende una pittura che nasce da una logica formativa che è quella dell’architettura. Una pittura che abbia in sé una sua ragione che sfugge all’arbitrio dell’individualità, che possa esibire una ragione della sua stessa forma.
La grande retrospettiva Le Corbusier. Les Mesures de l’homme , Centre Pompidou (fino al 3 agosto), a cura di Frédéric Migayrou e Olivier Cinqualbre offre, in dieci sezioni tematiche, una splendida selezione di circa 300 pezzi tra disegni, carnet de voyages, dipinti, sculture, modelli, foto e filmati rari che partono dagli esordi per approdare alla maturità. Alla fine della sua vita, nel 1965, con una certa amarezza, Le Corbu- sier scriveva: «Non mi si conosce che come architetto non mi si vuole conoscere come pittore e tuttavia è per il canale della mia pittura che io sono arrivato all’architettura». Le tele del periodo 1918-28 appartengono alla stagione purista di cui con Ozenfant fu protagonista: in mostra i dipinti hanno largo spazio fondatamente, con in testa
Le Bol rouge ( 1919) fino alla serie delle “nature morte” e almeno fino al ’22 l’influenza di Picasso e Juan Gris è molto forte. I curatori hanno avuto l’intelligenza di mettere in luce i tracciati regolatori che sottendono queste tele e, accanto, la facciata di Villa Schwob (1921) da cui si deduce la rilevanza che essi avranno in tutta la sua opera. Un’intenzionalità metodica quasi ossessiva perché lo spazio è costituito da elementi semplici e complessi: l’artista li seleziona, li regolarizza, crea una gerarchia tra essi e li dispone in assemblaggi; allo stesso modo l’architetto organizza il tipo edilizio, la struttura e la tipologia urbana. Dal Dom-Ino (1914-15) — struttura modulare in cemento armato per la produzione in serie di case — alla Maison Ouvrière, dalla Maison Monol alla Citrohan, dalla Ozenfant al quartiere di Pessac la ricerca architettonica sistematica ed organica corre parallela alla pittura: è, propriamente, tutt’uno con la pittura. Dipingere, in effetti, equivale a creare forme in uno spazio piano; le sue tele sono costruite con elementi tipo, di scala maggiore e minore, con un uso perfettamente gerarchizzato del colore il quale non è solo un elemento decorativo, ma la ragione stessa della sua architettura “picta”. Dipingere per Le Corbusier equivale a creare delle costruzioni, composte secondo un principio che è quello della “formation” del tutto opposto a quello della “deformation” cubista. I suoi quadri puristi sono un repertorio di “contenants” (bottiglia, bicchiere, calice, vaso, caraffa, sifone) a cui si aggiungono di volta in volta forme aperte: il violino, la chitarra e la sua ombra autonoma, il libro, il piatto, le pipe, i dadi domino, la scatola di fiammiferi chiusa e aperta.
Dal 1928 in poi principia il tema delle
femmes ove Léger e Picasso sono gli inequivocabili punti di riferimento, così come Juan Gris e Ozenfant restano i dioscuri della più compiuta e convincente produzione purista. Non che poi Le Corbusier non sia più pittore, ma la scultura e la policromia prende il sopravvento e apre le porte ad un altro sentimento della forma che poco ha a che fare con quell’idea di “peinture architecturée” da cui lui stesso si era mosso.
La straordinaria svolta si ha nel 1950 con la Cappella di Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp. E proprio Ronchamp mi pare l’esito più alto e solenne di questa michelangiolesca ambizione di costruire un’opera d’arte totale. Le Corbusier fu deriso e vilipeso per aver trasgredito i principi dei Ciam, i cinque punti dell’architettura da lui stesso istituzionalizzati, lo standard, il Modulor: cioè se stesso. Il maestro svizzero, che dal 1917 aveva eletto a sua patria Parigi, fu un uomo dall’ego smisurato e non esitò a proporre i suoi progetti a Mussolini e a Stalin, né negò la sua infamante collaborazione al regime di Vichy: polemiche ci sono state attorno alla mostra ma sono pretestuose perché non si giudica un artista per le sue gravi cadute. Le Corbu, come l’uccello caro a Baudelaire, ambiziosamente s’illudeva, sbagliando, che se i regimi totalitari avessero accolto le sue proposte queste si sarebbero rivoltate contro di loro. Non avvenne e non poteva avvenire, perché la politica segue leggi del tutto diverse da quelle delle forme.
C’è qualcosa di profondamente drammatico nella vita di Le Corbusier: visse il dramma di una generazione a cavallo di due spaventose guerre e ne visse tutte le contraddizioni, rispondendo con la sua “ricerca paziente”, fedele solo alla logica superiore delle forme dell’arte e a un concetto della natura che l’aveva visto partire dalle Alpi innevate del Giura per chiudere i suoi giorni in un piccolo Cabanon, sulla Costa Azzurra, dinanzi alla distesa del Mediterraneo casa madre di ogni europeo.
Il Sole 28.6.15
Quando l’America si comprò un pezzo dell’impero russo
1867, lo Zar vende l’Alaska agli Stati Uniti: l’affare del secolo (per gli Usa)
di Fabrizio Galimberti
Continuiamo con la geografia economica e con i climi freddi, cosa che non guasta in estate. Le scorse due domeniche abbiamo parlato dell’economia del Polo Nord e del Polo Sud. Questa volta risaliamo dall’Antartide verso l’Artide e parleremo dell’Alaska. Oggi è uno dei 50 Stati americani, ma fino al 29 marzo 1867 l’Alaska era un territorio russo. Fu venduto dallo Zar Alessandro II al governo americano. Perchè fu venduto? Il prezzo era equo? Fu un buon investimento per gli Stati Uniti? E come si determina il prezzo di un pezzo di terra?
Cominciamo col dire che il “pezzo di terra” era molto grande: l’Alaska è vasta come Francia, Germania, Spagna e Portogallo messe assieme. Le ragioni della vendita non sono difficili da scoprire: per la Russia quello era un territorio lontano e difficile da difendere, mentre per gli Stati Uniti era un pezzo del “suo” continente e a Washington ancora sognavano di annettere anche il territorio della British Columbia (era ancora fresco il ricordo della “seconda guerra di indipendenza” contro la Gran Bretagna, nel 1812) e avere una contiguità territoriale lungo l’intera costa del Nord Pacifico.
Passiamo al prezzo. Come si determina il prezzo di un terreno? La risposta dell’economista sarebbe semplice: è il prezzo che si determina nel mercato, con l’incontro della domanda e dell’offerta. Una risposta, questa, che può valere per l’acquisto di un campo di grano nella Pianura padana o per un ranch di bestiame nel Nebraska. In ambedue quei casi il prezzo di mercato dipende dalle prospettive di reddito che dà quel terreno. Ma nel caso dell’Alaska, come ci poteva essere un “prezzo di mercato”? Ci sono beni che sono unici, come un prezioso violino Stradivarius o come, appunto, una distesa gelata di un milione e mezzo di kmq. Questo non vuol dire che le prospettive di reddito non contino. Nel caso dell’Alaska i russi avevano creato un fiorente commercio di pelli di foca, c’era la pesca al largo delle coste e già allora si favoleggiava di giacimenti aurei. Ma naturalmente, quando si parla di un territorio così grande, entrano in gioco anche altre considerazioni, prima fra tutte quelle strategiche e geopolitiche. Fra queste, tuttavia, ce ne sono che hanno anche valenza economica. Lo zar si era indebitato a Londra con la banca dei Rothschild per finanziare l’esproprio dei latifondisti legato all’emancipazione dei servi della gleba, e la situazione finanziaria dell’impero russo non era buona. Aveva bisogno di soldi, e, come farebbe una famiglia indebitata, si risolse a vendere qualche gioiello o qualche terreno.
Così, dopo anni di trattative, alle 4 del mattino del 30 marzo 1867, fu firmato un accordo di cessione dell’Alaska dalla Russia agli Stati Uniti, e il Segretario agli Esteri americano, William Seaward, consegnò all’ambasciatore russo Eduard de Stoeckl, un assegno di 7,2 milioni di dollari (115 milioni in dollari di oggi). Come giudicare questo prezzo?
Un economista americano ha calcolato che quell’acquisto non fu un affare. Anche se il governo americano ha poi tratto profitto (tasse e royalties) dallo sfruttamento delle risorse dell’Alaska, bisogna mettere a fronte di queste entrate le spese per governare il territorio, oltre agli interessi sui 7,2 milioni di dollari spesi per l’acquisto. Secondo voi, è giusto calcolare in questo modo la convenienza di quella maxi-compera? Una prima obiezione potrebbe essere quella sugli interessi. Nell’anno in cui fu fatto l’acquisto il bilancio pubblico americano era in forte avanzo, e poteva facilmente finanziare quella somma. Tuttavia, è ugualmente giusto calcolare gli interessi. L’economia insegna che c’è sempre un “costo di opportunità” nell’impiego di fondi. Se quei 7,2 milioni di dollari non fossero stati spesi per l’Alaska, avrebbero potuto essere investiti o spesi in altro modo, e quindi, impiegandoli per l’Alaska, si rinunciava a quell’utilità – il costo di opportunità, appunto – che avrebbe potuto essere ottenuta altrimenti.
Tuttavia, i calcoli di quell’economista non sono giusti. Il governo fa gli interessi della nazione intera, e per la nazione intera l’acquisto dell’Alaska fu un grande affare. In Alaska si trovano grandi giacimenti di carbone, rame, zinco, gas e petrolio, per non parlare di oro e platino. Già nel 1872 furono scoperte grosse vene auree, e nel 1896 partì la famosa corsa all’oro del Klondike. Per la verità, il Klondike è nel Nord-Ovest del Canada, ma la via meno faticosa per arrivarci passa per l’Alaska, e in ogni caso i minatori americani avevano il diritto di sfruttare quei favolosi giacimenti. Si calcola che solo l’oro estratto da allora a oggi valga, ai prezzi attuali, più di 12 miliardi di dollari.
Guardando, quindi, al reddito nazionale americano e non al bilancio pubblico, il giudizio si rovescia. L’acquisto dell’Alaska fu uno dei grandi affari del secolo. Se poi guardiamo alle ragioni strategiche e non solo a quelle economiche, il giudizio positivo si rafforza. Nel 1867 Russia e America erano in buoni rapporti. Nella guerra del 1812 fra Stati Uniti e Gran Bretagna i russi erano stati dalla parte degli americani. Ma poi, con la rivoluzione bolscevica del 1917 ,e la guerra fredda a partire dagli anni Cinquanta, America e Russia eran l’una contro l'altra armate. Sapete che, con la crisi di Cuba del 1962, gli Stati Uniti rifiutavano l’installazione di missili sovietici a Cuba, vicino alle coste americane. Immaginate che spina nel fianco avrebbe potuto essere una Alaska russa nel continente americano, dove i sovietici potevano installare tutti i missili che volevano...
Il Sole 28.6.15
Pionieri. Il commercio di pelli
E i russi si spinsero fino in California: come era lontana la «guerra fredda»
di Claudia Galimberti
Sono due gli uomini che hanno segnato le sorti dell’Alaska, Grigorij Ivanovi? Šhelikhov, che ne intuì le potenzialità economiche, e Nikolaj Petrovi? Rezanov, che allargò l'orizzonte a una più vasta colonizzazione della costa occidentale americana. Prima di allora l’Alaska era solo una terra da esplorare, senza alcun valore economico. Grigorij Ivanovi? Šhelikhov nel 1783 condusse una spedizione diretta alle coste dell’Alaska, allora nota anche come “America russa”, con tre navi: Simeone e Anna, San Michele, Tre Santi. Lo scopo era quello di creare un insediamento permanente per sfruttare l’enorme quantità di animali da pelli che le terre offrivano. Erano 192 gli uomini nelle tre navi, ben equipaggiati e armati. Nel 1784 arrivarono sull'isola Kodiak abitata dal popolo degli Aleutini.
Šhelikhov riuscì nell’intento e fondò nella baia dei Tre Santi la prima colonia permanente russa in terra di Alaska. Ma si macchiò di un crimine odioso. I russi sbarcati sull’isola massacrarono gli abitanti. Una strage nota come l’Awa’uq Massacro. Furono 500 gli Aleutini caduti sotto i colpi dei marinai russi, ma altre fonti parlano di più di duemila morti. Šhelikhov prese in ostaggio anche quattrocento bambini e stabilì così il suo dominio sull’isola. Questa sanguinoso attacco rimase un incidente isolato, ma segnò i difficili rapporti tra russi e Aleutini.
Šhelikhov aveva fondato una società, la “Šhelikhov- Golikov”, per il commercio delle pelli ,ed è attraverso questa società che incontriamo il nostro secondo uomo, Nikolaj Petrovi? Rezanov, un uomo di Stato che serviva nella segretaria privata dell’imperatrice. Aveva conosciuto Šhelikhov e capito come un monopolio delle pelli in quella zona avrebbe fruttato denaro e potere. Entrò nella sua società e alla morte prematura di Šhelikhov, nel 1795, la rilevò fondando nel 1799 la “Compagnia russo-americana delle pelli”, alla quale lo Zar Paolo I° concesse per venti anni il commercio esclusivo in quell’area (da 55 gradi di latitudine nord) .
Rezanov, ricco e potente, concepì un audace piano: colonizzare tutta la costa occidentale dell’America. Partì con la nave Juno alla volta della California per stabilire un primo contatto con gli spagnoli che governavano il territorio. Era il 1806 quando arrivò a San Francisco: Rezanov chiese di stipulare un accordo in base al quale dalla California due volte l’anno sarebbero partite navi cariche di viveri per le basi russe dell’Alaska in cambio di pelli. Le leggi spagnole proibivano di commerciare con potenze straniere, ma l’abilità diplomatica di Reznov permise almeno di far inviare in Spagna una copia del trattato. Questo era in sé poca cosa, ma doveva essere un primo passo per una emigrazione di massa russa verso la costa occidentale dell’America. Il progetto non andò mai in porto: Rezanov morì a soli 43 anni l’8 marzo 1807, pochi mesi dopo la missione californiana. Sessanta anni dopo, il 30 marzo del 1867, lo Zar Alessandro II° vendeva il territorio dell’America Russa agli Usa: quella terra era inospitale e improduttiva e lo Zar voleva concentrare le sue forze nel colonizzare a est la Siberia. Eduard de Stoeckl negoziò l'acquisto da parte della Russia e William Seward lo negoziò da parte degli Stati Uniti: 7.200.000 dollari per terre dove già pochi anni dopo si scoprì l’oro e 100 anni dopo (nel 1967) si scoprì il più grande giacimento di petrolio e gas di tutto il Nord America. Un ottimo affare per gli Stati Uniti.
Il Sole Domenica 28.6.15
Metafisica islamica
Il «logos» in mani arabe
Ai tempi di Averroè l’incontro-scontro tra la grande filosofia greca e gli uomini del Corano ha ispirato vari pensatori islamici
di Maria Bettetini
«No, non è un bene il comando di molti: uno sia il capo, uno il re». Le parole gridate da Ulisse contro Tersite nel secondo libro dell’Iliade chiudono quello della Metafisica dedicato alla prima sostanza. Non era questo l’unico tema dell’opera aristotelica, ma la chiusa del libro Lambda (dodicesimo) porta a comprenderne le ragioni del successo, quando le opere di Aristotele vennero in mano agli studiosi islamici. Con la stessa rapidità con cui il nuovo popolo conquistava le sponde del Mediterraneo, infatti, avveniva l’incontro tra gli uomini del Corano e la cultura precedente, quindi greca, bizantina, siriaca, persiana, infine latina. E mentre proprio l’Europa latina aveva perso il contatto con i testi della grande filosofia greca, a Baghdad il califfato aveva eretto una “Casa della Sapienza”, dove le migliori menti si dedicavano a tradurre testi filosofici e scientifici dal greco e dal siriaco. Fu così che al-Kind? nella prima metà del IX secolo incontrò opere aristoteliche e neoplatoniche, delle quali diede per primo una lettura che trova d’accordo il monoteismo coranico con l’idea di prima sostanza di Aristotele e l’uno, inteso come primo principio, delle Enneadi di Plotino. La filosofia (in arabo falsafa, con calco dal greco) poteva essere solo “prima”, secondo una delle definizioni aristoteliche di metafisica, che diede il titolo proprio a un’opera di al-Kind?. Filosofia prima e insieme anche teologia, non in contraddizione con l’unicità dell’unico Dio. O forse sì?
Questo il dilemma che accompagnò la falsafa nei secoli che le si attribuiscono di vita, quelli che vanno dalla nascita di al-Kind?, nell’801 della nostra era, alla morte nel 1198 di Ibn Rušd, alla latina Averroes, poi Averroè, proprio quello cui Dante concesse un posto nel Limbo, in buona compagnia dell’uzbeko Ibn S?n? o Avicenna e dell’iracheno Saladino. Nessuno ormai ritiene che dal tredicesimo secolo in poi il mondo islamico abbia interrotto l’uso della razionalità, si deve però riconoscere che, per quanto ne sappiamo, Averroè fu l’ultimo importante elemento di contatto tra il mondo islamico e la filosofia “occidentale”, quindi un preciso modo di usare della ragione, del logos. Le vette raggiunte poi dai sapienti iraniani, dai poeti, dai mistici, sono altro. Dunque, nella falsafa, un vivace incontro e scontro tra teologia e filosofia, nella speranza di trovarne l’unità, come cercarono al-Kind?, al-F?r?b?, lo stesso Averroè: si sbaglierebbe però a pensare a una brutta copia dell’insensato opporsi a tutti i costi di fede e ragione, del logos antico e della fides delle Scritture. Innanzitutto, come accennato, il logos che arriva nelle mani arabe, e tramite quelle poi “tornerà” nelle università europee, non è quello che emerge dalle opere di Platone e Aristotele, se pur nella loro spesso contraddittoria ermeneutica. La lettura dei falasifa è infatti sempre trasversale rispetto ad Aristotele e ai suoi commentatori greci e siriani, a Plotino, Proclo, perfino a Platone. La sensibilità islamica, infatti, nel tradurre e commentare tendeva a scegliere ciò che avrebbe potuto portare a una unica grande sapienza, che potesse comprendere la teologia, come la scienza della natura, la medicina e le scienze filosofiche.
Per approfondire questo aspetto, è da poco uscito un testo di grande interesse, si tratta della presentazione di un quasi coetaneo di Averroè e della sua «scienza della metafisica», nonché dei manoscritti che ce l’hanno fatta conoscere. L’autrice, Cecilia Martini Bonadeo, ha collaborato anche a una Storia della Filosofia nell’Islam medievale che può essere utile come introduzione ai temi e all’epoca. Il personaggio è poco noto, si chiama ?Abd al-La??f al-Ba?d?d?, è nato e morto a Baghdad (1162-1231), ma ha trascorso la maggior parte della sua vita in viaggio per il vicino e medio Oriente in cerca di un maestro di filosofia che sapesse rispondere alle sue domande. Abbiamo la fortuna di avere sia una autobiografia sia un resoconto della sua vita all’interno di una raccolta di «notizie sui diversi medici». La seconda parte del volume, certo quella che si legge in maggior scioltezza, è quindi la ricostruzione della vita di ?Abd al-La??f da Baghdad a Mosul, Damasco, Gerusalemme, Cairo, Aleppo, l’Anatolia, poi ancora Baghdad, dove muore mentre sta per partire di nuovo, per un pellegrinaggio alla Mecca. Mancano una trentina d’anni al saccheggio da parte dei Mongoli, alla fine del califfato abbaside e della “Casa della Sapienza”. L’importanza di questo ennesimo commentatore della Metafisica non è tanto nell’originalità o nella genialità, la sua «scienza metafisica» ha sempre debiti verso l’unica scienza che tutto studia. È piuttosto nel rappresentare in maniera più che degna un tempo di libertà e di intensità culturale che, almeno in quelle terre, non è tornato. Il ragazzo studia a casa, poi parte, grazie alla lettura dei commentatori greci capisce che quella di Avicenna non è l’unica filosofia possibile, intanto studia ed esercita come medico, incontra il Saladino che ne fa un suo consigliere e amministratore, insegna molte ore ogni giorno, scrive forse cento, forse duecento opere (dove saranno finiti i manoscritti?), ama la sua religione di cui, come molti, conosce a memoria e sa interpretare gli scritti e le leggi. E però è felice di poter a lungo imparare da e con l’ebreo Mosè Maimonide, al Cairo. Propone un ritorno ai Greci, compresi Ippocrate e Galeno per combattere la superstizione dell’alchimia. E passeggia per deserti e giardini, regge e moschee come a noi piacerebbe tanto poter fare.
Cecilia Martini Bonadeo, ?Abd al-La??f al-Ba?d?d?'s Philosophical Journey: From Aristotle's Metaphysics to the Metaphysical Science, Brill, Leiden,pagg. 378, € 161,00
Da ricordare: Storia della filosofia nell’Islam medievale, a cura di Cristina D’Ancona, Einaudi, Torino, pagg. 882, 2 voll., € 19,50 e € 24,00
al-Farabi, L’armonia delle opinioni dei due sapienti, il divino Platone e Aristotele, a cura di C. Martini Bonadeo, prefazione di G. Endress, Plus, Pisa University Press, Pisa, pagg. 288, € 22,00 (nel 2013 premio The Custodian of the Two Holy Mosques King Abdullah bin Abdulaziz International Award for Translation)
Il Sole Domenica 28.6.15
Eugenetica
A voler essere migliori
Una rigorosa analisi storica mette a nudo distorsioni e luoghi comuni di un concetto che tende a evocare una scienza razzista
di Massimo Bucciantini
Di cosa parliamo quando parliamo di eugenetica? È questa la domanda attorno a cui ruota il nuovo libro di Francesco Cassata. Ed è una questione da analizzare con estrema cautela per i molti strati di senso che la parola contiene. Una parola-tabù, come la definisce, e che come tutte le parole-tabù sono anche parole-calamita, fatte apposta per attirare paure, pregiudizi, inquietudini, pulsioni, le quali avrebbero bisogno di essere districate invece di trovare rifugio e protezione in concetti che – se non vengono anatomizzati a dovere – finiscono per caricarsi ancor più di significati esecrabili.
La risposta di Cassata è convincente perché rigorosa. E lo è per un motivo molto semplice. Perché evitando di scrivere un pamphlet – che avrebbe alimentato solo polemiche senza spostare di una virgola la discussione su un tema così controverso – riesce a scrivere un libro di storia. E la storia – quando è ben documentata – fa la differenza. Perché mette a nudo distorsioni e banalizzazioni troppo spesso scambiate per verità inoppugnabili che, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, si sono venute sovrapponendo tanto da formare una spessa coltre di luoghi comuni: con l’unico scopo di evocare lo spettro dell’eugenetica come scienza reazionaria, razzista e antisemita.
Sì, certo, l’eugenetica è stata anche questo, ma è quell’anche appunto che conta, e che Cassata fa emergere nitidamente dalla conoscenza dei singoli contesti storici.
È sufficiente leggere il primo capitolo «Tutti nazisti, nessun nazista» per rendersene conto. Di fronte a chi ancora oggi sostiene – non solo sul web ma anche su autorevoli quotidiani nazionali – che «l’eugenetica sarebbe uscita tout court dal cappotto di Darwin», e quindi che Charles Darwin e suo cugino, l’antropologo e psicologo Francis Galton, sarebbero i precursori del Terzo Reich, ben venga dunque un libro agile e di qualità che entri nel dibattito sull’uso pubblico di questo concetto e che rompa con simili genealogie immaginarie. Se per Darwin le uniche misure eugenetiche cui accenna nell’Origine dell’uomo riguardano il controllo sanitario del matrimonio tra persone «deboli nel corpo e nella mente» e tra persone consanguinee (argomento che ben “conosceva”, avendo sposato sua cugina Emma, ed essendo morti prima del decimo anno di vita tre dei suoi dieci figli), per Galton, nonostante si pensi esattamente il contrario, l’introduzione di misure selettive di tipo coercitivo erano moralmente inaccettabili. Scriveva nel 1904: «Non possiamo incrociare uomini e donne come ci pare, come se fossero galli e galline, ma potremmo, credo, sviluppare gradualmente qualche programma per realizzare un continuo, seppur lento, miglioramento della razza umana; l’intento dovrebbe essere quello di accrescere l’apporto delle classi più valevoli della popolazione e ridurre quello opposto». Niente di più lontano, quindi, dalla sperimentazione medica che venne praticata durante tutto il Terzo Reich. Prima con la sterilizzazione forzata, e poi, dal 1939, con il progetto che con un eufemismo venne chiamato di eutanasia, la famigerata Azione T4 (così denominata perché la sede centrale degli uffici si trovava al numero 4 di Tiergartenstrasse a Berlino), e che consistette nell’assassinio di adulti e bambini affetti da gravi anomalie fisiche o psichiche (circa 240mila vittime dal 1939 al 1945).
Con questi esempi, Cassata ci ricorda che nella storia non ci sono piani inclinati. Che qualunque forma di riduzionismo diventa un modo rozzo e caricaturale di leggere le vicende storiche, a tal punto che la stessa eugenetica nazista finisce per risultare incomprensibile. Così come ci ricorda che la sua demonizzazione – scolpita nel volto imperturbabile del dottor Josef Mengele – rischia di farci dimenticare quanto «il progetto di nazificazione della ricerca medica non fu il prodotto della follia criminale di pochi esponenti delle SS, del tutto emarginati in ambito accademico, ma un progetto ampiamente condiviso e razionalmente perseguito dai dipartimenti universitari, dall’industria chimico-farmaceutica e dalle strutture di ricerca del Terzo Reich». Non quindi una pseudoscienza coltivata da un manipolo di criminali sadici, bensì un intenso lavoro di programmazione e sperimentazione scientifica che era il frutto di uno stretto legame tra istituzioni accademiche e centri di potere politico-militare.
L’eugenetica come perversa conseguenza della modernità è un altro luogo comune che questo libro contribuisce ad abbattere. E lo fa partendo proprio dalla Germania, dalla Germania della Repubblica di Weimar, soffermandosi sulla costituzione dell’Istituto Kaiser Wilhelm per l’antropologia, l’eugenetica e la genetica umana, che divenne operativo a partire dal 1927. Qui lavorarono antropologi, biologi e medici dalla forte impronta razzista ma anche cultori dell’eugenetica di diverso orientamento come il biologo gesuita Hermann Muckermann. Muckermann, che raggiunse i vertici dell’Istituto assumendo la carica di direttore del Dipartimento di eugenetica, all’indomani dell’ascesa di Hitler al potere venne destituito e le sue opere messe al bando. «Il suo Centro di ricerca per la riforma del matrimonio e della famiglia, finanziato dalla Chiesa cattolica e in particolare dal vescovo di Berlino, Konrad Graf von Preysing, fu costretto a chiudere nel 1937». E questa vicenda sta a testimoniare come «lo spartiacque del 1933 non possa essere rimosso nel nome di una continuità “moderna” dell’eugenetica». Così come analogamente stanno a dimostrare le pagine dedicate alla comparazione tra le leggi sulla sterilizzazione nazista e quelle in uso negli Stati Uniti, nei Paesi scandinavi o in Svizzera. Il caso norvegese, in particolare, ci insegna a diffidare di una logica continuista che nell’opinione pubblica sembra ancora oggi prevalente. Infatti, se già nel 1934 la Norvegia disponeva di una legge che prevedeva la sterilizzazione dei cittadini condannati per reati di natura sessuale o dei pazienti ricoverati in ospedali psichiatrici (a condizione però di ottenere il consenso della persona coinvolta o di un suo tutore), spesso si dimentica di aggiungere che solo dopo il 1940, a seguito dell’invasione tedesca e la nascita di un governo collaborazionista, la legge venne applicata in modo coercitivo.
Bisogna attendere gli anni Sessanta perché l’eugenetica entri in una fase di «ridefinizione semantica»: una riconfigurazione sotto forma di medicina preventiva, in gran parte dovuta alla scoperta di nuove tecnologie genetiche come l’amniocentesi e la villocentesi, ambedue fondate sul rispetto dei principi di autonomia riproduttiva. Come osserva Cassata, «lungi dall’essere considerata come un edificio monolitico, mera espressione del razzismo scientifico novecentesco, l’eugenetica appare oggi come un arcipelago multiforme e variegato, contraddistinto da una molteplicità di varianti politiche, sociali, culturali». E forse proprio per questa ragione ritiene che sarebbe opportuno rinunciare, nel dibattito pubblico, al termine eugenetica. A meno di non specificare a quale modello si fa riferimento, a meno di non dire di quale eugenetica si sta parlando: quella di un Mengele o quella dei genetisti Lionel Penrose e Sheldon Reed, quella della sterilizzazione forzata o quella della prevenzione di patologie genetiche come la fenilchetonuria e la talassemia o quella legata al concetto di consulenza genetica non lesiva della libertà individuale.
Francesco Cassata, Eugenetica senza tabù. Usi e abusi di un concetto, Einaudi, Torino, pagg. 123, € 11,00