sabato 27 giugno 2015

miscellanea del 27.6.15

il Fatto 27.6.15
Il silenzio (del presidente Mattarella) genera mostri
di Antonio Padellaro

Certe volte (e con molto rispetto) viene da chiedersi: ma dov’è il presidente Mattarella? Nel senso di un sommesso appello: perché resta in silenzio, perché non fa qualcosa? Attenzione, non siamo certo noi a rimpiangere i tempi del Quirinale interventista, quando Giorgio Napolitano faceva, disfaceva, suggeriva, orientava, accompagnato da una sinfonia di moniti. Ma c’è una misura in tutto e pensiamo che il pur flemmatico successore sarà saltato sulla sedia alla lettura del maxi-emendamento sulla Buona Scuola, imposto da Renzi all’approvazione del Senato con l’ennesimo voto di fiducia, prendere o lasciare. Una legge in 25 mila parole, ha scritto Michele Ainis sul Corriere della Sera , denunciando il mostro legislativo in 209 commi e nove deleghe al governo, che in una concentrazione abnorme di poteri fa tutto lui: propone, emenda e approva. Ricordate come si stracciavano le vesti i mandarini di Re Giorgio, di fronte ai maxi eccessi di Prodi, Berlusconi, Monti, Letta? Eppure, forse mai un governo aveva agito con tale prepotenza, umiliando il Parlamento ridotto a bottonificio e su una riforma che suscita timori in milioni di insegnanti, alunni, famiglie. La speranza è che Mattarella si prepari a un gesto forte che la Costituzione gli consente, quando riceverà sul tavolo questo maxisgorbio dopo il previsto sì di Montecitorio. Non lo firmi Presidente, lo rimandi indietro. Il silenzio genera mostri.

Corriere 27.6.15
Sull’emergenza migranti un’Europa senza qualità
di Paolo Valentino

Stretta nel rovello weberiano tra l’etica delle convinzioni e quella della responsabilità, l’Europa sceglie a parole la prima, ma prende a calci la seconda. Accetta il sacrosanto principio che la tragedia dell’immigrazione non sia un affare italiano o greco, bensì una grande emergenza europea. Ma lo nega nei fatti, rifiutando d’imporre agli Stati membri l’assunzione obbligatoria di quote di migranti, senza la quale non c’è vera solidarietà tra i partner dell’Unione.
Difficile seguire il presidente del Consiglio, che pure si è battuto e non le ha mandate a dire in una notte densa di acredine ed egoismi, quando si dichiara soddisfatto del piccolo passo in avanti compiuto dal Consiglio europeo. Del Matteo Renzi della maratona bruxellese preferiamo piuttosto lo scatto d’ira: «Se questa è la vostra idea d’Europa, tenetevela pure».
L’accordo sulla redistribuzione di 40 mila rifugiati, cui se ne dovrebbero aggiungere 20 mila nuovi, non è solo «modesto», Jean-Claude Juncker dixit. Accettando la volontarietà, lascia in aria la certezza della sua piena applicazione. Di più, certifica la morte della méthode communautaire , il metodo comunitario, spogliando la Commissione delle sue prerogative e lasciando nelle mani degli Stati nazionali un dossier europeo per eccellenza come l’immigrazione. Inoltre, esentando Bulgaria e Ungheria, oltre alla Gran Bretagna come d’abitudine, estende la pratica sciagurata dell’opt-out, che consente ad alcuni Paesi di chiamarsi fuori.
Ma l’intesa ha anche una conseguenza non trascurabile per l’Italia, che in cambio di un alleggerimento del carico dei rifugiati, d’ora in avanti difficilmente potrà sottrarsi all’obbligo di registrare e segnalare tutti gli immigrati che approdano sulle nostre coste.
Le conclusioni del Consiglio prevedono infatti anche la presenza di ispettori dei Paesi membri, Frontex ed Europol per assicurare che il lavoro di identificazione venga fatto sistematicamente.

Corriere 27.6.15
L’assedio giudiziario che preoccupa il Pd
Gli effetti delle inchieste e i timori nella maggioranza per una «resa dei conti»
I conti pubblici lo vincolano in economia, il lepenismo europeo lo logora sull’immigrazione, ma è lo stillicidio giudiziario che lo mette a rischio
di Francesco Verderami

I conti pubblici lo vincolano in economia, il lepenismo europeo lo logora sull’immigrazione, ma è lo stillicidio giudiziario che lo mette a rischio.
Così come l’inchiesta della Procura romana su Mafia Capitale ha sottratto voti a Renzi alle Amministrative, le inchieste di altre Procure sul territorio nazionale stanno decimando la sua maggioranza in Parlamento. È un dato numerico e anche politico. L’indagine in Calabria su presunti «rimborsi truffa» alla Regione, risalenti a tre anni fa, si è conclusa ieri con la richiesta di arresto per il senatore Bilardi di Ncd. Come di Ncd è il senatore Azzollini, per il quale la Procura di Trani ha già chiesto lo stesso trattamento. «Non mi sembra un caso», commenta il democristiano Rotondi, che dai banchi dell’opposizione ricompone gli spezzoni di un film a cui ha già assistito ai tempi della Prima e della Seconda Repubblica: «La verità è che la magistratura sta accerchiando Renzi, mirando a quel ramo del Parlamento dove la maggioranza di governo regge per pochi voti. Si chiama golpe, ma non lo si può dire».
È infatti nessuno lo dice, sebbene tutti ci girino attorno con la prudenza che la politica (e il momento) impone. Ma è chiaro a cosa alluda il centrista Cicchitto sostenendo che «sembra di stare come a Dresda, sotto i bombardamenti. E se il Partito democratico non si rende conto che il processo di destrutturazione della maggioranza, pezzo per pezzo, non avviene per dissenso politico ma per inusitati interventi giudiziari, vuol dire che non ha capito la realtà che lo circonda. E chi è davvero nel mirino». Nel Pd l’hanno capito, bastava sentire ieri la confidenza fatta dal responsabile giustizia Ermini a un compagno di partito: «Girano intorno... Ma la cosa davvero intollerabile è il tentativo di associare l’illegalità al governo». Perché i dem di tendenza renziana distinguono tra quei «ladri di democrazia che andrebbero presi a calci nel sedere» e l’uso «esagerato» dello strumento di custodia cautelare. Con tutto ciò che politicamente ne consegue.
Il leader del Pd se lo aspettava, «mi aspetto una reazione», disse infatti ad Alfano tempo addietro, durante un incontro a Palazzo Chigi: «Tenteranno la resa dei conti». E i conti al Nazareno li hanno tenuti: tra sentenze della Consulta, atti dei Tribunali amministrativi e inchieste delle Procure, la lista è così lunga che non viene più indicata sotto la voce «coincidenze». «È partita la caccia al Royal baby», ha scritto sul Foglio Ferrara, riferendosi al premier: «L’aria a questo punto si fa pesante». E non a caso l’«elefantino», dopo essersi soffermato sui nodi economici, ha accennato anche alla necessità di «arginare il partito dei manettari». Perché il clima evoca un passato che in fondo non è mai passato.
Allora come oggi gli umori del Paese si riversano anche nel Palazzo, dove vengono lasciati tracimare in atti «che a mia memoria mai prima di oggi si erano visti in Parlamento, con le tribune del pubblico piene di persone che — ammiccando a senatori in Aula — urlavano insulti gravi e volgari, senza che venisse disposto un loro immediato allontanamento». Sono brani della lettera — riferita dall’Agi — con la quale il capogruppo dei senatori pd Zanda accusa il presidente di Palazzo Madama Grasso di non essere intervenuto per far cessare «le numerose, vistose e intollerabili violazioni del Regolamento» avvenute giovedì nell’emiciclo. E il fatto che gli episodi si siano verificati durante il voto di fiducia sulla riforma della scuola, rappresenta solo un dettaglio.
«Mi aspetto una reazione», disse Renzi, che a sua volta è pronto a reagire. Intanto, per lanciare un segnale al Paese, d’intesa con il ministro dell’Interno ha sospeso subito De Luca — appena eletto presidente della Regione in Campania — senza cambiare le norme della Severino. E siccome le leggi offrono anche gli strumenti per respingere in Parlamento delle richieste di arresto, nessuno in quel caso potrebbe fargli velo. Ma è chiaro che il premier non può giocare solo sulla difensiva. Né pare intenzionato a farlo, da quel che ha anticipato al suo partito: la prossima settimana infatti intende chiedere al Senato di votare la riforma della Costituzione prima della pausa estiva. Se questo fosse il timing, vorrebbe dire che Renzi ha chiuso un patto politico con Alfano, e che i partiti di governo l’anno prossimo si presenterebbero uniti davanti al corpo elettorale per il giudizio sul referendum che cambia il sistema costituzionale. «Aspettiamoci la reazione».

Repubblica 27.6.15
La democrazia del pubblico e le insidie per il leader
In passato il capo non era direttamente colpito dalle sconfitte elettorali
L’idea e la speranza di creare un’«altra sinistra» stanno riemergendo
di Marc Lazar

MATTEO Renzi e il Partito Democratico stanno attraversando una fase di grande turbolenza: lo attestano i loro insuccessi alle elezioni regionali e ammini-strative, ma anche la grave crisi del partito a Roma, i cedimenti dell’organizzazione sul territorio, il calo della popolarità del presidente del Consiglio e delle intenzioni di voto per il Pd, le rinnovate tensioni interne e le difficoltà incontrate dal governo per il varo delle sue riforme. Matteo Renzi, che al suo esordio, più di un anno fa, era apparso come una novità, se non addirittura come un modello da seguire per una sinistra europea in crisi, si ritrova dunque a sua volta in difficoltà. Ma vediamo di analizzare la situazione italiana in una prospettiva più ampia, in particolare con riferimento a due principali temi di riflessione.
Il primo riguarda la figura del leader. Se Matteo Renzi ha suscitato un così vivo interesse — ma anche forti opposizioni all’interno del suo stesso partito — è perché ha saputo adattarsi pienamente, al pari di altri responsabili della sinistra europea e forse meglio di loro, grazie al suo temperamento, a quella che Bernard Manin ha definito la «democrazia del pubblico ». La quale, a differenza della democrazia del parlamento nel XIX secolo e di quella dei partiti nel XX, è caratterizzata da una minore influenza delle grandi culture politiche, dal declino dei partiti tradizionali, dalla volatilità elettorale, dal peso crescente dell’opinione pubblica nelle diverse forme in cui si esprime (sondaggi, associazionismo, reti sociali ecc.). Il leader è dunque chiamato a giocare un ruolo determinante per dialogare direttamente coi cittadini, ascoltarli, influenzarli, sedurli — e decidere. In Italia, l’imperativo decisionista è all’origine dell’avvio di riforme della legge elettorale e delle istituzioni, che hanno scatenato e continuano ad alimentare molte polemiche. Il leader deve incarnare la sua politica, comunicare in permanenza, tenersi costantemente in prima linea, rispondere immediatamente (e se possibile anche bene) a qualunque emergenza, data la prodigiosa accelerazione dei tempi della politica. In breve, deve essere forte, come lo sono Matteo Renzi o Manuel Valls in Francia: personaggi che non esitano a farsi forti dell’opinione pubblica contro i propri avversari, compresi quelli interni ai rispettivi partiti. Ma quanto più un leader è forte, tanto più è debole. Un paradosso facile da spiegare: è infatti sovra-esposto, e subisce in prima persona i contraccolpi di qualunque smacco. In passato le sconfitte elettorali colpivano indubbiamente il partito e il suo capo, ma quest’ultimo non ne era direttamente minacciato. Oggi basta il minimo passo falso per indebolire un leader, che quindi è costretto a rilanciare immediatamente una dinamica intorno alla propria figura e ai propri progetti, per non rischiare di vedersi definitivamente destabilizzato. È questa la situazione che affrontano oggi sia Manuel Valls che Matteo Renzi.
Il secondo tema di riflessione riguarda le conseguenze della politica seguita da Renzi e da tutti i responsabili della sinistra europea: una politica che consiste nel risanare la finanze pubbliche, favorire una ripresa della crescita, promuovere la competitività delle imprese, alleviare la pressione fiscale, rendere più flessibile il mercato del lavoro per ridurre la disoccupazione, preservare le tutele sociali, sostenere i più deboli, investire nella scuola e nella formazione ecc. Questi orientamenti, spesso contraddittori tra loro e declinati diversamente a seconda dei Paesi, anche se ispirati a una filosofia comune, hanno tuttavia effetti politici rischiosi, in quanto aggravano i dissensi in seno alla sinistra. Nel Pd le dimissioni si susseguono di continuo. In seno al Ps francese gli oppositori di François Hollande e di Manuel Valls si interrogano sul loro futuro, mentre la sindrome Podemos e Syriza scuote la sinistra europea. L’idea e la speranza di creare un’«altra sinistra », o una «sinistra alternativa », peraltro ricorrenti nella storia, stanno nuovamente emergendo nei circoli più militanti. Resta da vedere se un progetto del genere sia realizzabile, e quale possa essere il suo impatto. Chi lo caldeggia si propone di riconquistare un elettorato popolare in via di dispersione. È questo infatti il secondo effetto delle politiche portate avanti dalle sinistre di governo. Molti dei loro elettori le subiscono con sofferenza, non le comprendono o vi si oppongono. Da qui l’astensionismo, il ricorso al voto di protesta o a quello populista, come si è visto recentemente in Danimarca. I movimenti populisti sono assai diversi l’uno dall’altro, ma tutti criticano la «casta», denunciano la gravità della situazione sociale giocando sulle paure dei ceti meno abbienti, sfruttano il disagio democratico, criticano l’Europa. Inoltre le formazioni di estrema destra, ben più influenti di quelle di estrema sinistra, denunciano l’immigrazione e la «minaccia islamica ». Cosa può fare Matteo Renzi (e come lui gli altri leader della sinistra europea) per recuperare quella parte della popolazione che gli ha voltato le spalle? La comunicazione e l’effetto annuncio non bastano più. Contano solo le azioni concrete, soprattutto per riassorbire la disoccupazione. Ma anche il lavoro sul territorio, in particolare quello dei militanti dei partiti e delle associazioni, che non va assolutamente ignorato o disprezzato. Sarebbe un grave errore: perché nella democrazia del pubblico i partiti, profondamente rinnovati, continuano a svolgere una funzione essenziale.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Repubblica 27.6.15
Speranza rilancia la minoranza dem
“Se parla solo Renzi il Pd va fuorigioco”
intervista di Giovanna Casadio

ROMA. «Bene la velocità, però il Senato deve essere elettivo, l’Italicum va cambiato, la riforma della scuola non va bene ». Roberto Speranza, uno dei leader della sinistra dem, lancia l’offensiva. Oggi riunisce l’assemblea delle minoranze. E a Renzi chiede di sostenere il sindaco Marino oppure di togliere il sostegno al Campidoglio, ma «basta tentennamenti ».
Speranza, il Pd di Renzi perde pezzi tuttavia mette a segno la riforma della scuola, incassa un risultato in Europa, vara l’Italicum infischiandosene dei dissidenti. Quale spazio di manovra ha la sinistra dem?
«Il nostro è il partito-cardine, fuori dal Pd la fotografia è inquietante: Salvini, Grillo, Berlusconi. Però il partito deve profondamente cambiare, negli ultimi mesi sono stati commessi troppi errori».
Quali?
«Dai licenziamenti collettivi inseriti nel Jobs act contro il parere delle commissioni alla legge elettorale per arrivare alla riforma della scuola. Sono tre passaggi in cui abbiamo perso la sintonia con un pezzo fondamentale del nostro mondo».
Pensate di riaprire quelle battaglie?
«Leggo che D’Alimonte, presunto padre dell’Italicum, ha detto che bisogna cambiarlo. Figurarsi io, che su questa legge mi sono dimesso da capogruppo>.
E se ne è pentito?
«Assolutamente no, a 36 anni conta difendere le proprie idee non le proprie poltrone».
La ministra Boschi assicura che si andrà veloci anche sulla riforma costituzionale del Senato. E’ d’accordo?
«Benissimo andare veloci ma nella direzione giusta. Con una legge elettorale che prevede una Camera dominata da un solo partito, e fatta in prevalenza di nominati, è chiaro che c’è bisogno di un Senato di garanzia e di controllo, eletto direttamente dai cittadini».
Una parte di Area riformista, la corrente che lei guidava, si è staccata in polemica con le scelte fatte di contrapposizione e puntando al dialogo.
Lo giudica un errore?
«Questo è il momento di fare emergere un punto di vista realmente autonomo dentro il Pd. Una parte significativa dei nostri elettori se percepisce che l’unica voce nel Pd è quella di Renzi, rischia di non starci più».
Pippo Civati e Stefano Fassina hanno lasciato, voi pensate di avere uno spazio ancora dentro il partito?
«C’è uno spazio enorme dentro il Pd che deve restare il grande partito del centrosinistra. Non un soggetto indistinto, in cui scompaiono i confini tra destra e sinistra e in cui ci può stare dentro tutto e il contrario di tutto. Da domani bisognerà lavorare per tenere uniti tutti quelli che la pensano così».
Fassina e Civati hanno sbagliato ad andarsene?
«Ho molto rispetto per Stefano e Pippo ma restare nel Pd credo sia la scelta giusta».
Per dare la scalata al partito, magari anticipando il congresso?
«Ora si tratta di fare una battaglia delle idee così da riaffermare lo spirito originario del Pd, dopo penseremo al congresso ».
Il “caso Roma”. Il sindaco Marino deve restare o pensate sia meglio un cambio al Campidoglio?
«Penso che Ignazio Marino sia una persona per bene, ma il Pd non può tentennare. O lo si sostiene fino in fondo oppure se ne traggano le conseguenze ».

Corriere 27.6.15
Nebbie romane sul Giubileo
di Sergio Rizzo

È necessaria una svolta per uscire dalle nebbie romane. Ma per raggiungere questo obiettivo non è sufficiente sostituire il timoniere. Servirebbe un’assunzione di responsabilità collettiva della politica.

Il 13 luglio saranno già passati quattro mesi dalla proclamazione del Giubileo straordinario e ne mancheranno meno di cinque all’apertura dell’evento, prevista per l’8 dicembre prossimo. Ma niente di concreto, per quanto è dato sapere, è ancora stato messo a punto. Nessuna decisione, nessun piano, nessuna organizzazione. Chi in questi giorni ha partecipato a qualche riunione con i tecnici comunali conferma un senso di generale disorientamento. Forse comprensibile se si tiene conto dei problemi quotidiani e urgentissimi della città, ma anche delle docce scozzesi alle quali il sindaco Ignazio Marino viene costantemente sottoposto da mesi con le indiscrezioni circa la possibile nomina di un commissario governativo. I giornali riferiscono di screzi continui fra il Campidoglio e Palazzo Chigi, sempre regolarmente smentiti. Che però l’impasse sia totale è un dato di fatto facilmente ricavabile dalle dichiarazioni. Se Ignazio Marino aveva risposto il 13 marzo scorso all’annuncio del pontefice con un rassicurante «Roma è pronta da subito», ecco che il 12 giugno lo stesso sindaco di Roma diceva: «È urgente iniziare le opere visto che mancano pochi mesi all’8 dicembre». Quali opere? «La riparazione delle buche e la sistemazione di quei percorsi pedonali a cui tanto tiene il Papa». Anche perché per il Giubileo si prevede un aumento di almeno dieci milioni di turisti.
Per capirci, lo stesso numero di persone che ogni anno visita il solo museo del Louvre senza che per questo la città di Parigi vada in confusione mentale. Nemmeno dopo che la strage di Charlie Hebdo ha imposto da gennaio misure di sicurezza eccezionali. È stato fatto un piano ed è stato rispettato, con un minimo aumento del disagio che non scoraggia milioni di turisti. Ma lì ci sono trasporti che funzionano, un’amministrazione comunale che funziona, uno Stato che funziona. A Roma, purtroppo, no. E la cosa preoccupante è che nessuno se ne preoccupa.
Ulteriore dimostrazione della sconcertante inconsapevolezza che aleggia sulla capitale la troviamo all’aeroporto intercontinentale di Fiumicino, dove arrivano i turisti di tutto il mondo. A un mese e mezzo dall’incendio divampato (con modalità che ancora non abbiamo ben capito) nel Terminal numero tre, i disagi per i viaggiatori non sono finiti. Riaperto qualche giorno dopo il disastro, quello scalo è stato sequestrato e poi dissequestrato: ma il calvario non è finito. Ora, denuncia il deputato democratico Michele Anzaldi, si è deciso di procedere a ulteriori accertamenti sanitari a cura dell’Asl nell’area dei negozi (ancora chiusa) che richiederanno almeno venti giorni. Dal che è facile dedurre che l’aeroporto non tornerà alla normalità prima della metà di luglio. Anche in questo caso il fatto di essere in piena stagione turistica non preoccupa nessuno. Ma a chi toccherebbe?
Ovviamente alla politica, nella fattispecie quella che ha le responsabilità del governo nazionale, regionale e locale: tutte coincidenti nello stesso schieramento. Se però ogni energia più che essere concentrata sulla soluzione rapida dei problemi non fosse assorbita da una insensata guerra fratricida interna al Partito democratico. Da una parte i renziani che considerano Marino inadatto a guidare Roma e manovrano neppure troppo nell’ombra per metterlo sempre più in difficoltà, sperando che si decida prima o poi a fare le valigie. Dall’altra il sindaco che gioca perennemente in difesa. Il risultato è che la svolta di cui la capitale d’Italia avrebbe un disperato bisogno non si vede.
A Marino questo giornale non ha mai risparmiato le critiche. Il problema principale sta nella mancanza di autorevolezza e questa carenza si riflette in modo palpabile sul governo di una città che sembra non governata affatto. Ma chi invoca da sinistra le sue dimissioni dovrebbe ripensare a come si è arrivati a questa scelta degli elettori e agli errori gravissimi di cui si è reso responsabile il gruppo dirigente del Pd. Chi le pretende da destra, invece, farebbe meglio ad arrossire per le rovine materiali e le devastazioni morali di cui in cinque anni ha disseminato Roma: non bisogna aggiungere altro.
È fuori di dubbio che sia necessario un cambio radicale di passo nella gestione di una città che versa in condizioni inaccettabili per una capitale. Per raggiungere questo obiettivo, tuttavia, non è sufficiente sostituire il timoniere. Servirebbe un’assunzione di responsabilità collettiva della politica nei confronti dei cittadini. Che però è impossibile senza una rigenerazione dei partiti, negli ultimi anni sempre più somiglianti a comitati d’affari ripiegati su bassi interessi personali e di bottega. La destra è in macerie. Mentre il gruppo dirigente del Pd romano è in rotta: il compito di dipanare le nebbie che per troppo tempo l’hanno avvolto, affidato al commissario Matteo Orfini, è da far tremare le vene ai polsi. A lui i migliori auguri di successo. Diversamente, il dibattito su Marino rischia di essere soltanto l’ennesimo falso problema.

Corriere 27.6.15
Quei 30 milioni taciuti al Papa
Versaldi accusato di malversazione
di Ilaria Sacchettoni

ROMA Tentata malversazione ai danni dello Stato. Con questa ipotesi di reato la Procura di Roma ha iscritto sul registro degli indagati monsignor Giuseppe Versaldi. Per lo stesso reato è indagato anche l’ex numero uno del Bambino Gesù, Giuseppe Profiti, ora nel consiglio d’amministrazione dell’Idi, l’Istituto dermopatico italiano.
Tutto ruota attorno a quei trenta milioni di euro stanziati dala commissione Bilancio del Senato destinati alle casse dell’ospedale pediatrico, che sarebbero stati illegalmente destinati al risanamento dei bilanci dell’Idi. È l’ipotesi affiorata dalle intercettazioni telefoniche dei magistrati di Trani durante gli approfondimenti sulla bancarotta della Divina Provvidenza (poi sfociati nella richiesta di arresto del senatore ncd Antonio Azzolini). In particolare quanto Versaldi disse proprio a Profiti: «Devi tacere (al Papa, ndr) di questi trenta milioni». La Procura di Trani ha trasmesso le carte ai colleghi di Roma proprio pochi giorni fa, segnalando la notizia del reato.
Le nuove indagini coordinate dal procuratore aggiunto Nello Rossi e affidate al pubblico ministero Giuseppe Cascini dovranno stabilire se fossero a tutti gli effetti fondi pubblici. In parallelo si approfondirà il ruolo giocato dall’ex segretario di Stato Tarcisio Bertone visto che, dalle intercettazioni di Trani, risulterebbe costantemente informato sul progetto d’acquisto dell’Idi dal fidato Versaldi. Era stato proprio Bertone ad affidargli la guida della Congregazione dei padri Concezionisti, pesantemente coinvolti nel crac dell’Idi, a febbraio 2013. Nei giorni scorsi, Profiti ha dichiarato: «Si parlava di tacere al Papa su quei soldi perché si sapeva già che il finanziamento non era una strada percorribile» .

Repubblica 27.6.15
“Abusi,processate Don Mercedes”
Mauro Inzoli, già esponente di spicco di Comunione e Liberazione
di Matteo Pucciarelli

MILANO Il procuratore della Repubblica di Cremona Roberto Di Martino chiederà il rinvio a giudizio per don Mauro Inzoli, già esponente di spicco di Comunione e Liberazione. L’accusa: violenza sessuale con abuso di autorità e violenza sessuale aggravata per abuso di minore di 12 anni. Almeno cinque le vittime, secondo le carte in mano al magistrato. Don Inzoli, soprannominato “don Mercedes” per la sua passione verso le auto di lusso, è stato presidente del Banco Alimentare e rischia una pena fino a 12 anni. Era stato già sospeso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, che aveva accertato abusi su minori. Da lì, dopo un esposto presentato dal deputato di Sel Franco Bordo, era partita l’inchiesta della magistratura italiana. E questo nonostante il Vaticano avesse poi deciso di non trasmettere alla Procura gli atti inerenti alla
vicenda.

Corriere 27.6.15
Teoria sul gender a scuola buon senso (non ideologia)
di Giuseppe Fioroni
Deputato Pd

Caro direttore, a distanza di giorni il family day continua ad alimentare il dibattito. Il problema però non è essere a favore o contro: ognuno può coltivare un suo legittimo punto di vista. È necessario tuttavia che la politica si interroghi sul significato di tanta spontanea e vasta partecipazione. Non basta tenere sottotono il messaggio di quella piazza, occorre interpretarlo e capirlo in maniera corretta. A San Giovanni è risuonata la critica alla radicalizzazione ideologica che porta a dare per scontato il superamento del dato naturale della distinzione sessuale. La teoria del gender necessita una profonda riflessione perché suscita allarme non solo tra i cattolici, né tra gli uomini e le donne che seguono una religione diversa, ma anche tra quanti avvertono la necessità di difendere l’integrità di una visione umanista.
Non si può sottovalutare l’allarme diffuso, forte in tante pieghe della società, che l’insegnamento gender nelle scuole è cosa diversa dalla lotta alla discriminazione e ad ogni forma di intolleranza. Si rischia di fare scelte che vanno oltre la soglia del buonsenso condiviso nel Paese. Le famiglie sono disorientate, iniziano a esprimere un profondo disagio: un conto è garantire la tutela dei diritti, altra cosa l’esasperazione ideologica. Raccogliere questa istanza che ha in sé il rispetto della natura umana — il rispetto medesimo che il Papa invoca per la natura in quanto tale — vale come argine alle contrapposizioni ideologiche che rischiano di cancellare la cultura del dialogo e della mediazione alta. Dobbiamo sforzarci affinché, anche in questo passaggio parlamentare sulla codificazione dei diritti delle unioni civili, si parli il linguaggio del confronto sereno e responsabile senza introdurre elementi ingiustificati di divisione e di conflitto. Sono fiducioso che il buono — ed è molto — racchiuso nella manifestazione di sabato possa trovare accoglienza nel lavoro di sintesi che spetta anzitutto a una forza a vocazione e impianto popolare come il Partito democratico. Se non facessimo tutto ciò, non potremmo mai perdonarci di aver regalato quella moltitudine di donne e di uomini ad una destra che solo strumentalmente finge di sostenerla.

Repubblica 27.6.15
Musei, se la riforma genera caos
di Tomaso Montanari

IL GOVERNO del patrimonio culturale italiano versa oggi in uno stato confusionale. Come in molti avevano previsto, l’applicazione della riforma Franceschini (pur non priva di moventi condivisibili) rischia di dare il colpo di grazia al corpo, già provatissimo, delle soprintendenze e dei musei italiani.
Il punto più critico riguarda la rigida e meccanica «separazione della funzione di tutela da quella di fruizione/valorizzazione» (così l’ultima circolare della Direzione Mibact per l’Organizzazione): che è come la separazione tra la circolazione sanguigna e i muscoli di un corpo. Gli effetti più gravi di questo ideologico smembramento riguardano il destino dei musei confluiti nei Poli regionali: cioè di tutti tranne che dei venti supermusei, i quali peraltro aspettano ancora i superdirettori che avrebbero dovuto essere nominati entro maggio.
La ratio della riforma, come fu pensata dalla commissione Bray (della quale faceva parte anche chi scrive), era quella di consentire una vera autonomia, in primo luogo culturale e dunque anche ammi-nistrativa, ad alcuni grandi musei: per farli diventare veri istituti di ricerca e di redistribuzione della conoscenza. Ma la creazione parallela dei Poli museali regionali ha invece generato il caos. Questi contenitori omnibus tengono insieme musei di rilevanza mondiale (si pensi alla Pinacoteca Nazionale di Siena) con piccolissimi siti (come il Castello di Lerici), e mescolano musei storico-artistici a musei di antichità, staccando questi ultimi dalle soprintendenze archeologiche. L’unico criterio seguito è quello, brutalmente burocratico, della bigliettazione: se si paga è «valorizzazione», e dunque si va nel calderone dei Poli, se non si paga è tutela, e dunque si rimane nelle soprintendenze. Prendiamo il caso cruciale dell’archeologia: a chi devono essere assegnate, per esempio, le cassette colme di materiali di scavo non ancora studiati e inventariati? Devono rimanere alle soprintendenze, come vorrebbe il buon senso, o confluire in piccolissimi siti museali spesso senza personale archeologico?
Ma anche i supermusei si troveranno alle prese con l’assurdo divorzio tra tutela e valorizzazione. Il futuro direttore degli Uffizi — pur essendo uno storico dell’arte (sempre che alla fine non sia scelto tra i “manager” collegati alla politica: ipotesi che per ora va ricacciata nel novero degli incubi) — non potrà decidere né il restauro né il prestito di un suo dipinto senza il benestare della Soprintendente di Firenze: che è una architetto. Né potrà usare come meglio crede il personale del proprio museo, farcito di custodi col dottorato di ricerca, cui però è proibito alzarsi dalla obsoleta sedia di sorveglianza. E dunque, nonostante tutto, non sarà ancora un vero direttore.
Si aggiunga il fatto che passano di mano «gli immobili e i mobili», ma non li segue il personale: le risorse umane vengono assegnate ai Poli museali in via transitoria e provvisoria. E per le fondamentali strutture (come i laboratori fotografici e quelli di restauro) si resta in attesa di un «piano di razionalizzazione »: che è difficile da partorire perché se è arduo smembrare (o accorpare: come nel caso delle nuove soprintendenze miste, che infatti non decollano) organismi complessi, è davvero impossibile farlo a costo zero. Caratteristica, questa ultima, che è l’irredimibile peccato originale della riforma.
Si sta rivelando critico anche il rapporto tra i nuovi segretariati regionali e i soprintendenti: perché i primi tendono a intendere il proprio ruolo come quello dei vecchi direttori regionali, e dunque a intervenire nelle autonome scelte dei secondi. E questi ultimi, già privati della valorizzazione, rischiano di essere di fatto svuotati da ogni funzione. Certo, potrebbero dedicarsi finalmente alla tutela del territorio: difendendolo, per esempio, dalla cementificazione selvaggia. Ma lo Sblocca Italia, e ora la riforma Madia della Pubblica Amministrazione, che in questi giorni approda in commissione, impongono il silenzio- assenso, togliendo di fatto l’ultimo compito alle morenti soprintendenze. Sarà un caso, ma è stato Matteo Renzi a scrivere che «sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia».

Corriere 27.6.15
Quelle urla del Tsipras «segreto»
Proclami e sacrifici, sei mesi in altalena
di Federico Fubini

DAL NOSTRO INVIATO Atene A sinistra di un negozio cinese di abiti da donna a dieci euro, di fronte a un vespasiano pubblico coperto di graffiti, accanto a un’auto blu un po’ ammaccata, c’è un posto dove il telefono squilla tutte le sere. Dall’altra parte c’è Alexis Tsipras, ovunque si trovi in quel momento. A fine giornata il premier greco ha l’abitudine di chiamare la sede di Syriza per fare il punto con i fedelissimi e in questi giorni lo ha fatto da Bruxelles. A ricevere le sue chiamate ci sono uomini visibilmente consumati dalla tensione, a corto di ore di sonno, consapevoli che, se tutto continua così, lunedì mattina i greci potrebbero formare lunghe code davanti alle filiali delle banche. La parete che separa gli abitanti di Atene dal panico non è mai stata così sottile.
Tsipras invece, almeno in superficie, resta calmo. Non è mai stato emotivo come i militanti che lui chiama tutte le sere, i ragazzi con i quali è cresciuto e ha fatto politica negli ultimi venti anni. «Lui è sempre stato freddo, lucido su quello che vuole, difficile da intimidire. Un giocatore di scacchi», dice ai piani alti del palazzo di Syriza un dirigente che preferisce restare anomimo. Con Tsipras lui ha fatto molta strada in poco tempo, e senza dubbio né l’uno né l’altro avevano previsto di trovarsi qui: potenti in Grecia, ininfluenti in Europa, schiacciati dalla responsabilità di compiere entro poche ore una scelta che può rovinare il Paese per i prossimi vent’anni e l’architettura dell’euro per sempre.
Un altro che non sia Tsipras, forse avrebbe già pubblicamente perso la testa. Specie se quarantenne, senza un mestiere al di fuori dalla politica, privo fino a poco fa di esperienza del mondo esterno al suo Paese. Ma il premier greco no. Il suo coetaneo Andreas Karitzis, un ingegnere che siede nel comitato centrale di Syriza e ha condiviso con lui 18 anni di militanza, sul conto di Tsipras ha poche parole: «È sempre lo stesso vecchio bastardo che ho conosciuto — dice —. Quando è sotto stress per qualche motivo e tu non c’entri niente, finisce che si mette a gridare contro di te. Non ce n’è ragione, sta solo scaricando i nervi».
Nelle ultime settimane di queste urla contro terzi — dicono — se ne sono sentire in dosi allarmanti al Maximos, il palazzo del primo ministro. Tsipras viene da un mondo più semplice di quello dei negoziati monetari ed è rimasto nel suo ambiente d’origine fino ad anni recenti. Ancora nel 2004 era leader del gruppo giovanile di Synaspismos, il piccolo cartello di sigle della sinistra radicale predecessore di Syriza, e a quel tempo gestiva in tutto non più di 150 iscritti. Prima ancora, si era buttato in politica negli anni del liceo sotto casa. L’edificio scolastico oggi è un po’ male in arnese: si trova a Ampelokipi, un quartiere abitato da un ceto medio che mostra i segni di degrado di una recessione durata già sette anni. Lì è cresciuto Tsipras, fra strade strette e silenziose, case piccole, piccoli caffè, gli amici di sempre.
E da lì l’ascesa è stata rapida, senza mai incontrare ostacoli insormontabili. «È stato abile e fortunato», nota il compagno di militanza Andreas Karitzis. Nel 2006 viene candidato dal leader di Syriza Alekos Alavanos come sindaco di Atene, e lui raddoppia i voti. Nel 2009 ha già scalzato Alavanos — che da anni non gli parla più — poi arriva la Grande Recessione e fa il resto. «In questi anni Tsipras è stato il solo volto nuovo, non compromesso, dunque la sua ascesa è stata fulminea», ammette un compagno.
Di quegli anni di formazione Tsipras a portato con sé nel palazzo presidenziale l’abitudine di circondarsi solo degli amici fidati. Oggi sono Alekos Flabouraris, un partner d’affari del padre di Tsipras nel settore dei piccoli appalti pubblici, l’avvocato dell’élite degli oligarchi greci Spiros Sagas, e Nikos Pappas: quest’ultimo, coetaneo di Tsipras, erede di una dinastia di combattenti comunisti. Sono Flabouraris (che i figli del premier chiamano «nonno»), Sagas e Pappas a schermare il premier dagli urti del mondo esterno, capaci di farsi ascoltare da lui più di qualunque ministro greco o leader europeo.
Dal mondo della militanza, Tsipras però dev’essersi portato nel Maximos anche un altro retaggio: la fiducia che tutto per lui procederà sempre bene. «Alexis pensa in positivo — dice Karitzis — anche di fronte ai burocrati neoliberisti di Bruxelles». Non aveva però fatto i conti con Angela Merkel, impermeabile a minacce da assemblea studentesca come la richiesta alla Germania di indennizzi per la guerra. Né aveva previsto la fuga dei risparmi dei greci dalle banche, per un numero di miliardi (35) che si avvicina ai punti di gradimento di Syriza nei sondaggi (40).
In queste sere, i compagni aspettano ancora la telefonata del premier nella sede di Syriza. Ma neanche loro possono escludere che saranno solo urla.

Corriere 27.6.15
«Grecia umiliata, referendum sulle misure Ue»
Atene, l’annuncio del premier: l’ultimatum dei creditori contro i principi europei, votiamo il 5 luglio
di Ivo Caizzi

BRUXELLES «Le proposte dell’eurogruppo vogliono umiliare un intero popolo» per questo il premier greco Alexis Tsipras ha chiesto di convocare un referendum, domenica 5 luglio, per chiedere ai cittadini ellenici di esprimersi sulle richieste di Bruxelles. L’iniziativa del leader di Atene dopo che era aumentata la pressione per accettare tra oggi e domani le misure di austerità proposte dai creditori, in cambio dello sblocco dei prestiti necessari per evitare l’insolvenza. La cancelliera Angela Merkel, in un incontro a tre insieme al presidente francese Francois Hollande a margine del summit dei capi di Stato e di governo, lo ha esortato a dire sì nel quinto Eurogruppo in dieci giorni, che è stato convocato d’urgenza oggi a Bruxelles.
Merkel ha parlato di «offerta estremamente generosa» dei rappresentanti dei creditori (Commissione europea, Bce e Fondo monetario di Washington). Ha sottolineato l’importanza di risolvere il caso Grecia prima di lunedì, quando riaprono i mercati finanziari, che potrebbero penalizzare la zona euro a causa delle incertezze sulla solvibilità di Atene. Ma Tsipras ha replicato accusando le istituzioni dei creditori di non rispettare i principi dell’Ue «di solidarietà, comprensione, e rispetto reciproco» per attuare il «ricatto» e gli «ultimatum». Il presidente del Consiglio Ue, il polacco Donald Tusk, vicino a Merkel, ha ammesso che «obiettivamente la pressione c’è, ma è il tempo a crearla, non è un ricatto politico ricordare che siamo vicini alla fine della partita».
La Grecia non sembra in grado di rimborsare circa 1,6 miliardi del debito con il Fmi, se non ottiene i prestiti di salvataggio nell’Eurogruppo di oggi (eventualmente estendibile fino a domani). Rischia perfino una clamorosa uscita dalla zona euro con conseguenze imprevedibili per gli Stati della moneta unica. «La Grecia deve restare nell’euro — ha detto Renzi al summit —. Non lo faccio come atto politico da italiano, ma come europeo. Non temo ripercussioni per l’Italia. Sarebbe una grave sconfitta per l’Europa».
Ultimamente le posizioni di Grecia e Germania sembravano essersi avvicinate al punto di poter arrivare a un accordo di compromesso. Poi, alla vigilia del summit europeo, il direttore francese del Fmi Christine Lagarde e Merkel avrebbero chiesto più misure di austerità. «Nei giorni scorsi il governo greco ha fatto concessioni continuamente — ha dichiarato il ministro delle Finanze ellenico Yanis Varoufakis —. Sfortunatamente ogni volta le istituzioni fanno l’opposto e induriscono il loro atteggiamento».
Ad Atene sospettano un tentativo di far saltare Tsipras imponendogli aumenti dell’Iva e tagli alle pensioni improponibili per settori di Syriza.
Merkel ha escluso di avere un piano B in caso di fallimento del negoziato all’Eurogruppo. Ma Renzi, al summit, ha segnalato che «molti Paesi, non solo la Germania» non escludono «l’uscita della Grecia dall’eurozona».

La Stampa 27.6.15
La grande offensiva dell’Isis
Trasformare il Ramadan “nell’inferno degli infedeli”
Gli attacchi in contemporanea di ieri danno il via all’offensiva
Gli estremisti sunniti aprono un nuovo fronte in Kuwait
di Maurizio Molinari

Attacchi, terrore e kamikaze dal Maghreb al Corno d’Africa, dal Golfo all’Europa: inizia Ramadan e la galassia jihadista mantiene la promessa di trasformarlo in una «calamità per gli infedeli» come il portavoce del Califfo aveva preannunciato 96 ore fa.
Piano di battaglia
«Mi appello ai musulmani affinché trasformino il mese sacro di Ramadan in una devastazione per infedeli, sciiti e apostati». È Abu Muhammad al-Adnani, portavoce del Califfo dello Stato Islamico (Isis) Abu Bakr al-Baghdadi, a diffondere online nella giornata di martedì un audio di 28 minuti con l’invito a lanciare attacchi. Il linguaggio di al-Adnani somma riferimenti coranici e un’impostazione militare che disegna il campo di battaglia. «I musulmani devono essere pronti a conquistare ed a scegliere il martirio» afferma il fedelissimo del Califfo, rivolgendosi ai «sunniti in Giordania, Libano ed Arabia Saudita affinché si sollevino contro i tiranni» e «combattano contro gli oppressori sciiti in Iraq e Siria». È una maniera per incitare su due fronti: estensione degli attacchi a nuovi Paesi e maggiori violenze sui fronti già aperti. Per incoraggiare a colpire al-Adnani parla dei «sunniti uniti dietro ai jihadisti» e, in uno sfoggio di forza, minaccia il presidente Usa Obama: «Non temiamo né lui né la coalizione, se ci attaccherà gli risponderemo».
Il mese delle stragi
Il messaggio di Isis evoca il discorso di guerra sul Ramadan 2005 di Abu Musab Al-Zarqawi, allora leader di Al Qaeda in Iraq, l’ispiratore del Califfo. In quell’occasione l’appello a «uccidere chi crede negli idoli» innescò uno dei mesi più sanguinosi, obbligando l’esercito Usa a prendere sul serio lo scenario della guerra civile. Il nono mese del calendario lunare islamico - durante il quale i musulmani credono che il Corano venne rivelato a Maometto - era stato già sfruttato negli Anni Novanta come «mese della guerra» dai gruppi algerini e indonesiani. Al Qaeda lo aveva usato per attaccare il Parlamento indiano nel 2001, un hotel di turisti israeliani in Kenya nel 2002 e la Croce Rossa a Baghdad nel 2003. Come riassume il «Barnaba Fund» britannico «Ramadan è il periodo in cui i cristiani subiscono un aumento di attacchi nel mondo musulmano» perché gli estremisti lo usano per colpire. Senza contare che lo scorso anno, proprio alla vigilia di Ramadan, al-Baghdadi proclamò dalla moschea di Mosul la nascita del Califfato. È questa lettura violenta di Ramadan che probabilmente ha spinto il salafita francese Yassine Salhi a decapitare il proprio datore di lavoro, nei pressi di Lione, per poi lanciarsi con l’auto su una fabbrica chimica di un’azienda Usa, completando il blitz con l’affissione di due drappi jihadisti sui cancelli.
I nuovi vulcani
Quanto avvenuto sulla spiaggia tunisina di Sousse e nella moschea kuwaitiana di Imam Sadiq Mosque lascia intendere che i due «nuovi fronti» di attacco di Isis sono in questi Paesi. A cento giorni dalla strage al museo Bardo di Tunisi, l’uccisione di almeno 37 turisti nel resort mediterraneo implica un rafforzamento operativo: sparare con i kalashnikov sui bagnanti significa disporre di manovalanza addestrata ma soprattutto di registi intenzionati a demolire il Paese dei Gelsomini dall’interno. «Esplodete come vulcani sotto i nostri nemici» aveva auspicato al-Baghdadi in novembre e in Tunisia eseguire tale ordine significa far franare i due pilastri della nazione: il turismo come fonte di entrate economiche e il governo fra islamici moderati e nazionalisti come modello di coesistenza. Per i jihadisti, già all’offensiva in Libia, significa essere riusciti a creare un network di cellule dalla Cirenaica ad Hammamet. Corre lungo il Mediterraneo come in Mesopotamia lungo i fiumi. Non si può però escludere che la strage di Sousse abbia un coinvolgimento di Al Qaeda in Maghreb, il cui leader Mokhtar Belmokhtar, è di recente sfuggito ad un raid Usa in Libia e cerca una rapida rivincita.
Kuwait, sfida agli sceicchi
In Kuwait si tratta del primo attentato di Isis con un bilancio, ancora parziale, di 25 morti e 202 feriti, ed è avvenuto nei quartieri orientali della capitale con modalità simili ai recenti attacchi in Arabia Saudita: kamikaze contro moschee sciite nell’ora della preghiera. E’ la tattica di Al-Zarqawi contro gli sciiti in Iraq e, come dice il premier kuwaitiano Jaber al-Sabah, «minaccia l’unità nazionale». A rivendicare il blitz sono i jihadisti del «Wilayat Najd», fedeli a Isis e già autori degli attentati sauditi, intenzionati a innescare anche qui la faida tribale sunniti-sciiti per delegittimare monarchi e sceicchi.
Somalia, bliz degli Shabaab
A Leego, a Nord-Ovest di Mogadiscio, gli Al-Shabaab somali mettono a segno un’operazione di tutto rispetto. L’obiettivo è una base della missione dell’Unione Africana gestita da circa 100 soldati del Burundi. I jihadisti si infiltrano nel perimetro e poi fanno fuoco, con mitra e lancia-granate, causando almeno 50 vittime. «È stato un attacco ben organizzato» ammette Mohammed Haji, ufficiale del contingente africano di 20.000 uomini. Il segno della vittoria jihadista è il drappo nero del Califfato - a cui gli Al-Shabaab hanno giurato fedeltà - issato sulla base. «Abbiamo preso tutte le loro armi» fa sapere Mohamed Abu Yahya, comandante Al-Shabaab, ripetendo lo schema di Isis in Iraq e Siria: svaligiare gli arsenali degli avversari per combatterli con le loro stesse armi.
Massacro a Kobane
Ramadan di sangue anche a Kobane, uno dei fronti aperti di guerra. Nel piccolo centro curdo ai confini con la Turchia i miliziani di Isis hanno ucciso 120 civili confermando l’intento di far leva sul terrore per riconquistarlo in fretta.

Repubblica 27.6.15
Gilles Kepel
“Ormai hanno superato una linea rossa Ma la nostra vita quotidiana resta sicura”
“Europei contro musulmani questo per l’Is è l’unico obiettivo”
intervista di Alessandra Baduel

«ORA hanno superato una linea rossa che non dovevano varcare. Oggi ero in una importante moschea di Tolosa: l’imam ha condannato con forza l’episodio di Grenoble ». Questo teneva ieri a dire Gilles Kepel, politologo, accademico e grande esperto del mondo arabo. Che avvisa: «Non mi stupirei se ci fossero presto altri episodi».
Professor Kepel, abbiamo visto colpire in spiaggia, in una fabbrica, nell’auto di un uomo ucciso dal proprio dipendente. C’è un’immagine di grande fragilità.
«La nostra vita quotidiana resta ugualmente sicura. Però la fragilità è la rappresentazione mediatica che emerge. E l’Is vuole proprio questo, creare paura in Europa e mobilitare gli europei contro i musulmani, per provocare radicalizzazione fra i musulmani, una loro reazione e infine una guerra civile, come spiegava già nel 2004 l’”Appello alla resistenza islamica globale” che il portavoce di Bin Laden, nome di guerra Abu Mussab Al Suri, pubblicò su internet. Lì si teorizzava l’uso della minoranza di musulmani europei “non assimilabili” alla cultura occidentale. Mi lasci però dire che questi attentati sono nell’anniversario della nascita del Califfato e dimostrano sia la volontà di festeggiarlo che quella di farsi vedere capaci di colpire ovunque, in un momento nel quale hanno vari problemi».
Sta dicendo che si tratta anche di un segnale di paura?
«Hanno bisogno di non mostrarsi indeboliti. Il cosiddetto califfo Abu Bakr al Baghdadi e il suo portavoce Abu Mohammad al Adnani hanno detto più volte che avrebbero festeggiato in tutto il mondo. Volevano dimostrare la loro capacità competitiva fra le varie potenze sunnite. Dall’altro lato ci sono Arabia Saudita, Qatar, Turchia, che finanziano i gruppi di Jesh al Fatah contro Assad e mai vorrebbero che l’Is arrivasse a Damasco. Ma l’Is adesso è ferma a Palmira, mentre sul retro ha perso il controllo della frontiera turca, quindi molti guadagni del contrabbando. E i raid aerei hanno successo. Li guidano i microchip piazzati da spie che due giorni fa, in un video diffuso solo in arabo, venivano punite con immersioni in gabbia sottacqua o mozzando loro la testa con l’elettricità. E ora, oltre all’attacco sulla spiaggia tunisina, siamo davanti a una moschea sciita colpita in Kuwait- e alla prima decapitazione in Europa».
Con quale meccanismo si scatenano questi episodi?
«Questa organizzazione non è piramidale: non c’è una decisione presa dall’alto. Si tratta di un meccanismo che parte dal basso, autonomo. Un modo del tutto nuovo di essere da parte di quella che è la terza generazione di jihadisti. Facilmente indottrinabili, poco identificabili, mobilitati via social network a migliaia e con un terreno di guerra raggiungibile con un volo low cost via Istanbul».
C’è una componente sociale, di sentimenti di emarginazione?
«Anche, ma i 1600 francesi coinvolti con il jihadismo non sono certo tutti emarginati. Diciamo che al posto delle vecchie visioni alternative, di destra o sinistra, ora c’è l’islamismo radicale ».
Quale ruolo possono avere gli altri musulmani?
«Sono a Tolosa, il posto dove Mohammed Merah compì la strage della scuola ebraica. Oggi ero in una delle moschee più importanti della città, punto di riferimento dei salafiti. L’imam era sconvolto. Ha definito i fatti di Grenoble come “particolarmente orrendi” perché compiuti durante il Ramadan. Si è detto “offeso” da quel che è accaduto: credo che l’Is ha passato un confine che non doveva superare.
E la grande sfida è stare tutti uniti, come nella manifestazione dopo gli attentati di Parigi».
Oltre a questo e ad aumentare la sicurezza, cos’altro si può fare?
«La cosa principale è essere in grado capire il fenomeno. Ma gli studiosi specializzati sono pochissimi e i servizi segreti sono incapaci di esaminare questo nuovo terrorismo, che è una vera rivoluzione culturale, fatta dall’effetto dei social media combinato con quello di un terreno di battaglia molto vicino».

La Stampa 27.6.15
Ma l’America questa volta è indifferente
di Maurizio Molinari

Arrivare a New York da Gerusalemme significa scoprire che l’America si sente lontana, estranea, alla guerra in atto contro l’Isis del Califfo al-Baghdadi, che si svolge nel mondo arabo e investe l’Europa. Nei diner di Midtown non si discute dei jihadisti, i radio talk show di Queens e Brooklyn non parlano di Isis, nelle stazioni della metro di Times Square non ci sono in bella vista le squadre anti-terrorismo, nelle cene fra amici si discute dell’Internet super-veloce «5G» e di «Via» - la nuova application per il carsharing che fa concorrenza a Uber - e il riferimento più frequente alla guerra al terrorismo è l’orgoglio dilagante per la riapertura di Greenwich Street, l’ultimo lembo dell’ex Ground Zero riaperto al traffico.
Nella città che l’11 settembre 2001 venne attaccata da Al Qaeda innescando la risposta militare dell’Occidente contro i jihadisti di Osama bin Laden, i tagliateste del Califfo del terrore sono pressoché degli sconosciuti. Per chi viene dal Medio Oriente significa immergersi d’improvviso in un mondo freddo, distante, distratto. Se 14 anni fa New York era la frontiera più avanzata della risposta ai terroristi, ora è una lontanissima retrovia. Nella Hamra di Beirut il timore per l’arrivo dei jihadisti è incombente, nello shuk del Cairo la polizia ispeziona ogni sospetto - oggetto o persona - ad Amman le bandiere del Califfo si affacciano in periferia, a Gaza i leader di Hamas devono difendersi dalla competizione salafita, a Rabat si istruiscono imam anti-Isis e i soldati israeliani sono, sul Golan, a 30 metri dalle bandiere nere di Al-Nusra, emanazione di Al Qaeda. Ma nei think thank di New York prevale l’attenzione per le aggressioni strategiche di Vladimir Putin e gli interessi globali di Pechino, sui grandi media si discute svogliatamente di Hillary e Jeb Bush in vista del 2016, nei salotti di Central Park West il protagonista è il ceo di Alibaba, Jack Ma, che ha investito 23 milioni di dollari sulle montagne newyorkesi dell’Adirondacks, e i reporter arabi accreditati all’Onu chiedono notizie sui propri Paesi di provenienza come se si trattasse di un altro Pianeta. Quando ci si imbatte in analisti ed esperti di terrorismo che affrontano la questione del Califfo partendo dalla disputa sulla scrittura dell’acronimo «Isis o Isil» si tasta con mano la distanza siderale da un mondo distante meno di 10 ore di aereo dove tutti sanno che il nome dei barbari è «Daesh» e la discussione è su cosa fare: difendersi, sottomettersi o fuggire. Ciò che conta per i newyorkesi sono le polemiche sul sindaco Bill de Blasio, la rinascita di Roosevelt Island, i gioielli digitali e una nuova stagione di diritti dell’individuo, dalla legalizzazione delle nozze gay alla lotta senza quartiere ai residui del segregazionismo. Ecco perché l’America non sente proprio il conflitto con i jihadisti, a differenza non solo del Medio Oriente e del Maghreb dove è in corso ma anche dell’Europa, divenuta la nuova frontiera sulla guerra.
Ciò che più impressiona è Times Square. Paragonandola a Piazza San Pietro, Trafalgar Square o Place de la Republique dà il segno di un rovesciamento della Storia rispetto all’11 settembre. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle, per oltre dieci anni, il cuore di Manhattan è stato la cartina tornasole della difesa collettiva dal terrorismo: cartelli con avvisi «se vedi qualcosa, dì qualcosa», i super-poliziotti «Hercules» con speciali blindature, agenti ovunque e soprattutto i passanti, le persone comuni, protagoniste di un’allerta costante nell’intento di scorgere possibili minacce. Ora tutto ciò sembra archiviato, con il ritorno ad un’apparente normalità mentre è divenuto vero nelle piazze delle maggiori città europee, dove prevale allarme e timore per i jihadisti di Isis che operano, reclutano, si aggirano e progettano stragi efferate. Tali minacce restano vere anche per gli Stati Uniti, come i jihadisti del Minnesota dimostrano, ma è un tema per gruppi ristretti di super-esperti. Il risultato è un Occidente a parti invertite rispetto all’11 settembre: se contro Osama bin Laden era l’America a sentirsi in prima linea contro Al Qaeda, ora lo è l’Europa contro il Califfo. Nulla da sorprendersi dunque se Casa Bianca e Pentagono sono protagoniste di scelte oscillanti e contradditorie contro Isis: rappresentano ed esprimono un Paese che non percepisce la guerra. Tocca dunque ai leader europei assumersi la responsabilità di guidare l’Occidente in questa nuova fase di sfida ai jihadisti.

Corriere 27.6.15
L’analista Ian Bremmer
«Con quattro Stati in crisi il proselitismo dilaga
La Ue e i governi sunniti non stanno facendo nulla»
intervista di Massimo Gaggi

«Quello che è accaduto in poche ore in tre continenti — Europa, Africa, Medio Oriente — è orrendo, lo so, ma è una realtà alla quale, purtroppo, dovremo abituarci. Probabilmente le cose in futuro andranno ancora peggio perché nell’area del mondo che genera questa violenza terrorista ci sono quattro Stati falliti — Siria, Yemen, Iraq e Libia — stremati dalla violenza endemica e dalla disoccupazione di massa che spingono i giovani nelle braccia dei jihadisti. E i governi delle nazioni sunnite non stanno facendo nulla di veramente efficace per arrestare questo massiccio proselitismo». È cupa l’analisi di Ian Bremmer, fondatore di Eurasia, il maggiore centro di analisi dei rischi e delle situazioni internazionali di crisi, sulle prospettive della lotta a un terrorismo che sta diventando sempre più globale.
Colpa degli Stati Uniti che, dopo aver condotto una guerra sbagliata in Iraq che ha lasciato il Paese allo sbando, ora, secondo l’«Economist», si stanno ritirando dal Medio Oriente?
«L’America non si sta ritirando. Semplicemente è cambiata la sua strategia: non fa più il gendarme del mondo, ma si limita a perseguire i suoi interessi. Nella lotta contro il terrore come in diplomazia. Promuove l’accordo nucleare con l’Iran che, comprensibilmente, non piace a Israele e ai sauditi, ma che è conforme agli interessi di Washington che non è minacciata direttamente da Teheran. Gli americani sperano che l’Iran alla fine assuma un ruolo di potenza regionale capace di avere una funzione di riequilibrio in Medio Oriente. E guardano con interesse all’Iran anche come mercato e come produttore di idrocarburi che può contribuire a tenere bassi i prezzi mondiali dell’energia. Quanto all’Isis e alle altre organizzazioni terroriste, i droni americani attaccano continuamente le cellule e i leader considerati più pericolosi per la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Ma non sono più il poliziotto universale e questo ha delle conseguenze».
Perché, se l’offensiva aerea è così efficace?
«Perché i droni servono a eliminare le minacce peggiori, quelle più imminenti o quelle che vengono dalle organizzazioni più pericolose. Ma dietro la vecchia leadership di Al Qaeda ha preso forma una massa crescente di giovani che, spinti da una vita che non sembra loro offrire speranze, sobillati dagli imam estremisti e con l’effetto moltiplicatore del web e dei “social media” — un fatto nuovo per la nostra epoca — vengono reclutati da nuove organizzazioni come l’Isis. O si trasformano in “cani sciolti” o in piccole cellule del terrore. E qui non ci sono droni che tengano. Gli attacchi terroristi sono destinati a moltiplicarsi in questi Paesi e io sospetto che anche la Russia, con le sue minoranze musulmane, avrà grossi problemi. Mentre non credo che ci saranno grosse conseguenze per l’Asia e anche l’emisfero occidentale dovrebbe essere abbastanza al riparo da questa nuova ondata di violenza, pericolosa soprattutto localmente».
Insomma, gli Stati Uniti si tirano almeno parzialmente indietro anche perché non sono più direttamente nel mirino. E l’Europa? La Francia è nella tempesta e il flusso dei disperati in fuga dalle guerre civili africane e mediorientali è diventato imponente.
«È vero, gli Stati non si sentono più nell’occhio del ciclone. L’Europa rischia di più, non c’è dubbio: non ha saputo integrare le minoranze musulmane come ha fatto l’America e non sa affrontare con efficacia le migrazioni bibliche alle quali stiamo assistendo. Non si tratta solo di sostituire, o integrare, gli Usa nei ruoli di polizia internazionale. Qui sono soprattutto i governi arabi che dovrebbero fare di più. Ma, a parte Al Sisi in Egitto che ha i suoi conti interni da regolare con la Fratellanza musulmana, nel mondo sunnita nessuno si muove. Quanto alla Ue, non si occupa dei milioni di profughi prodotti dalle guerre civili che infiammano aree non lontane dall’Europa. Lascia alla Turchia oltre il 90% del peso dei profughi della guerra civile in Siria, lascia Italia e Grecia sole davanti all’ondata di migranti che attraversano il Mediterraneo. Bruxelles non è stata neanche capace di trovare un accordo sulla cosa più elementare: un sistema di quote per chi arriva chiedendo asilo dopo essere fuggito dalle regioni del mondo in fiamme».

Corriere 27.6.15
La scrittrice Frida Dahmani
«La nostra emergenza è di tutto il Mediterraneo Aiutateci o ci trasformeremo nell’Algeria degli Anni 90»
intervista di Giuseppe Sarcina

L a Tunisia ora si gioca tutto, a cominciare dalla democrazia. «O ci date una mano o tra non molto diventeremo come l’Algeria degli anni Novanta». La strage sulla spiaggia di Sousse, tre mesi dopo i morti del museo del Bardo. Ancora un attacco ai turisti, gli stranieri più inermi. «Il nostro governo in questi mesi non ha ottenuto niente. Sì, certo, tante parole». Frida Dahmani è una giornalista e scrittrice di Tunisi. Ha 57 anni, fa parte della generazione cresciuta nel mito di Habib Bourguiba, il padre dell’indipendenza, ma poi vissuta sotto la cappa del presidente-dittatore Ben Ali. È corrispondente per Jeune Afrique e ha scritto il libro La Tunisia oggi , pubblicato dopo la Rivoluzione dei Gelsomini del 2011.
La Tunisia si trova di nuovo a contare le vittime del terrorismo islamico. Il Paese rischia di essere travolto?
«Stiamo vivendo in un clima di emergenza continua. Il ministero degli Interni annuncia quasi ogni giorno almeno un arresto di sospetti terroristi. Gli scontri tra polizia ed estremisti sono continui. Eppure questo attentato ci ha colto di sorpresa. È un trauma pari a quello del Bardo, perché il giovane che ha sparato con il kalashnikov ha agito con una calma glaciale e si è potuto muovere indisturbato».
Dove vuole arrivare?
«Semplice. Voglio dire che la Tunisia non riesce a difendersi da sola. Ci sono troppe pressioni che rischiano di schiacciarla. Dalla Libia sono arrivati gruppi di estremisti islamici pericolosissimi. Ci sono soggetti che fanno parte di trame internazionali ben identificabili, con esperienze di guerriglia in Afghanistan, rapporti in Turchia e in Qatar. Dopo la caduta di Ben Ali sono tornati a Tunisi fondamentalisti radicali e violenti che si erano rifugiati nelle periferie di Parigi o Lione. E sa qual è la conseguenza? Che i tunisini cominciano a dire ad alta voce quello che prima veniva solo mormorato. Ossia: fuori tutti i libici dal Paese e chiudiamo i confini».
Le sembra la soluzione?
«Certo che no. Dopo la rivoluzione libica del 2011 qui è arrivato un milione di fuoriusciti. Oggi sono pari al 10 per cento della popolazione. Comincia a essere tanto. Ma non è solo questo. C’è un sentimento ancora peggiore che si sta facendo largo: la nostalgia per Ben Ali, per la dittatura che reprime tutto».
Sta dicendo che la Tunisia si sta giocando la democrazia?
«La Tunisia non ha ancora raggiunto gli standard di uno Stato democratico, ma si è incamminata su questa strada. Ora il punto è che se l’Europa non ci dà una mano tra non molto diventeremo come l’Algeria degli anni Novanta, un Paese dilaniato dal terrorismo e che, per sopravvivere, ha cancellato la democrazia dal suo orizzonte».
Ma che cosa vi serve?
«Innanzitutto una reazione comune, quella che avevamo sperato ci sarebbe stata dopo il Bardo. Invece non è successo nulla. Cominciamo, per esempio, a creare un codice condiviso di misure antiterrorismo. E poi l’Italia, la Francia, gli altri Paesi europei ci mandino mezzi per il controllo, la sorveglianza. Droni, aerei, elicotteri, navi. Non ce li vogliono regalare? Almeno ce li prestino per tre-quattro mesi».
Ma anche il vostro governo aveva promesso un ruolo più attivo nel Mediterraneo...
«Guardi il nostro presidente Beji Caji Essebsi è andato a Parigi, è andato a Washington. Ma non ha ottenuto nulla di concreto. Tre mesi buttati. Lei parla di Mediterraneo. Bene allora osserviamo quello che la comunità internazionale ha fatto nello stesso periodo con l’Egitto, altra nazione sotto attacco. Due conferenze politico-economiche importanti a Sharm el Sheik, per esempio. Ora è vero che l’Egitto ha 80 milioni di abitanti e non 11. È vero che ha il Canale di Suez e controlla il passaggio del petrolio, mentre noi non abbiamo nulla di tutto ciò. Però credo che ai terroristi dell’Isis la Tunisia possa interessare sia come piattaforma per penetrare in Libia, sia come base per lanciare incursioni in Europa. Quindi, nel Mediterraneo, abbiamo un problema in comune, ma noi non siamo in grado di affrontarlo da soli».

Corriere 27.6.15
L’argine dell’intesa con l’Iran
Le stragi terroristiche di ieri sono un campanello d’allarme assordante e feroce
La trattativa sul nucleare in Iran va chiusa in fretta
di Franco Venturini

Il campanello assordante e feroce delle stragi terroristiche ha invaso ieri le stanze di una Europa ancora divisa su Grecia e migranti, è rimbalzato nell’Ucraina che promette guerra, e inevitabilmente si è imposto sulla volata finale della trattativa nucleare con l’Iran che comincia a Vienna. Tutti dovrebbero trarne un richiamo ultimativo all’intesa, al compromesso foriero di azioni coordinate contro il comune nemico. Ma egoismi e nazionalismi sono duri a morire, anche quando scorre il sangue. A Vienna non è ancora chiaro se la trattativa sul nucleare iraniano dovrà «fermare l’orologio» e proseguire oltre la scadenza del 30 giugno. Ma è chiarissima un’altra cosa: comunque vada a finire, questo negoziato cambierà il mondo e cambierà anche il modo di affrontare il terrorismo.
Se ci sarà accordo dopo quasi quarant’anni di dichiarata inimicizia tra Usa e Iran, per un decennio Teheran non potrà arrivare all’atomica. La progressiva revoca delle sanzioni darà ossigeno all’economia, e influirà sul mercato del petrolio. Israele, il Congresso Usa e le monarchie sunnite del Golfo (compreso il Kuwait colpito ieri dall’Isis in una moschea della minoranza sciita) si diranno insoddisfatti, e ciò peserà sul prossimo Presidente Usa. In Siria l’assediato Assad tirerà un sospiro di sollievo, in Iraq le milizie sciite diventeranno ancor più cruciali nella lotta contro i tagliagole dell’Isis, ma un numero crescente di sunniti potrebbe vedere nelle bandiere nere di al-Baghdadi l’estremo rifugio.
Nulla di cui entusiasmarsi. Ma se il negoziato di Vienna fallirà, il mondo dovrà far fronte a una scossa ancora più forte. L’Iran avrà via libera verso l’atomica perché non ci saranno più ispezioni esterne. Si creerà una situazione inaccettabile per la sicurezza di Israele e l’opzione dell’uso della forza si farà strada. La società e l’economia iraniana pagheranno un prezzo altissimo. Soprattutto, diventerà incontrollabile la spirale della proliferazione atomica volta a bilanciare la bomba iraniana: l’Arabia Saudita ha già cominciato a muoversi, poi potrebbe toccare alla Turchia e all’Egitto (Israele possiede da tempo un arsenale nucleare mai dichiarato o ammesso). L’Italia, già minacciata come il resto d’Europa da uno sconsiderato ritorno al confronto missilistico-nucleare con la Russia (che peraltro tratta con l’Iran a fianco degli Usa e di altri) si troverebbe immersa in una corsa al nucleare a sud e ad est dei suoi confini. L’instabilità internazionale raggiungerebbe nuovi livelli, il terrorismo troverebbe nuovi alimenti.
Il realismo impone dunque un accordo perché è il minore dei mali? Questa è stata sin qui la linea di Obama. Del resto se in queste ore qualcuno è parso voler silurare l’intesa, non si è trattato di un occidentale. Il leader supremo Ali Khamenei ha ritenuto di piantare due paletti che da soli sono in grado di mandare tutto all’aria. Primo tema, le ispezioni: saranno consentite nei centri nucleari oggetto dell’accordo ma non nelle basi militari. Gli ispettori, inoltre, non potranno incontrare scienziati o consultare documenti top secret. E le ricerche in campo nucleare saranno sì interrotte, ma non per dieci anni. Secondo tema, le revoca delle sanzioni: dovranno essere tolte contemporaneamente all’applicazione dell’accordo. Questi due punti rischiano di far naufragare l’intesa-quadro raggiunta in aprile a Losanna. Si stabilì allora che le ispezioni dovevano essere illimitate. Quanto alla sospensione delle ricerche, si era rimasti nel vago ma l’interpretazione occidentale prevedeva un decennio. La revoca delle sanzioni, poi, è legata a previe verifiche sul campo da parte dell’Agenzia Atomica che certifichino l’attuazione degli accordi da parte iraniana.
Perché allora il capo supremo Khamenei ha sparato a mitraglia? Per mantenere la sua abituale ambiguità? No, non questa volta. I suoi divieti sono troppo categorici, troppo precisi. Nel campo iraniano può ancora succedere di tutto, ma l’ipotesi più credibile è che su Khamenei siano intervenuti i militari che coprono le spalle al regime teocratico: le Guardie della rivoluzione, o Pasdaran, che si battono oggi in Iraq contro l’Isis a fianco delle milizie sciite locali. E di fatto si comportano da alleati dell’Occidente.
La complessità della lotta tra sunniti e sciiti e la minaccia dell’Isis peseranno sul negoziato nucleare. Ma una giornata come quella di ieri ci suggerisce con forza che la risposta al terrorismo stragista, sempre più presente in Libia e impegnato a travolgere la Tunisia, meriterebbe ben altre immediate risposte. Soprattutto ora che la prima linea dell’Italia diventa sempre più calda .

La Stampa 27.6.15
Nozze gay legali in tutti gli Stati americani
La sentenza della Corte suprema apre la strada all’approvazione dei matrimoni nell’intero Paese
Un’altra vittoria della Casa Bianca dopo il via libera all’Obamacare: “Ora siamo un’unione migliore”
di Paolo Mastrolilli

Tree Sequoia, 76 anni, era dietro al bancone dello Stonewall Inn di Manhattan, quando il 28 giugno 1969 la polizia assaltò il suo bar perché era un ritrovo di gay: «Tutto è cominciato qui, con quell’atto di violenza. Lo scontro, le nostre proteste, la nascita del movimento per i diritti degli omosessuali. Abbiamo lottato duramente per arrivare dove siamo oggi. Quindi è giusto celebrare qui il riconoscimento della nostra dignità, per noi e per le generazioni future».
Allora persino vestirsi da donna era un reato, mentre da ieri i matrimoni gay sono legali in tutti gli Stati Uniti. Lo ha deciso la Corte Suprema, con una sentenza storica che cambia la società americana. Come era già accaduto per l’aborto nel 1973, caso Roe vs. Wade, anche sulle unioni omosessuali sono stati i giudici a dover dire l’ultima parola.
Ancora vietate in 14 Stati
I matrimoni fra persone dello stesso sesso erano già legali in 36 Stati americani e nel District of Columbia, ma altri 14 continuavano a vietarli e non riconoscerli, soprattutto al sud. Alcune coppie di Kentucky, Michigan, Ohio e Tennessee hanno fatto causa contro il divieto, e la Corte Suprema ha deciso di ascoltarla. Leader dell’iniziativa Jim Obergefell, un agente immobiliare di Cincinnati diventato attivista dei diritti gay, dopo che era stato costretto a sposare il suo compagno John, morente di Asl, sul tarmac dell’aeroporto Marshall di Baltimora-Washington, perché a casa sua in Ohio non poteva.
Ieri la Corte ha emesso la propria sentenza, con 5 giudici favorevoli e 4 contrari. Il voto decisivo è stato quello di Anthony Kennedy, un conservatore nominato dai repubblicani, che però in questo caso si è unito ai 4 colleghi liberal. Spiegando la sua posizione, Kennedy ha scritto che non era più possibile «condannare gli omosessuali a vivere in solitudine, esclusi da una delle istituzioni più antiche della nostra civiltà. Chiedono di avere dignità uguale agli altri davanti alla legge. La Costituzione garantisce loro questo diritto». I 4 giudici conservatori hanno pubblicato quattro risposte diverse, in cui sostengono che decidere la questione dei matrimoni gay non toccava a loro, ma ai politici. Quindi è la democrazia stessa a soffrire, per il meccanismo con cui si è arrivati alla legalizzazione.
Il presidente festeggia
Il presidente Obama all’inizio della sua carriera era scettico sui matrimoni gay, al punto che il vice Biden lo aveva scavalcato e imbarazzato, anticipando che la Casa Bianca li avrebbe appoggiati. Ieri però ha celebrato la sentenza parlando nel Rose Garden della residenza presidenziale: «Gli Stati Uniti sono basati sull’uguaglianza fra i loro cittadini. Grazie a questa decisione, oggi siamo una unione migliore». Poi ha chiamato Obergefell per fargli i complimenti in diretta tv: «Sei stato un esempio per tutti. La tua leadership ha cambiato il Paese».
Secondo i dati della Ucla, negli Stati Uniti ci sono circa 390.000 coppie gay sposate, nei 36 Stati che finora lo consentivano. Le loro unioni però non erano riconosciute negli Stati che le vietavano, e molte migliaia di persone non potevano sposarsi. Alcuni ancora resistono, come il Mississippi, dove il governatore ha definito la sentenza «un’usurpazione dei nostri poteri». Ma ora, ha risposto Obama, «gli omosessuali non sono più cittadini di seconda classe. L’America deve essere orgogliosa di questo passo storico».

Corriere 27.6.15
Cina, la multa (assai odiosa) per i figli non autorizzati
di Guido Santevecchi

Le autorità della pianificazione familiare di Pechino hanno multato una giovane coppia non sposata per aver messo al mondo una bambina. La pena va sotto il nome di «tassa per il mantenimento sociale» e per i due ventenni della capitale è stata fissata in 43 mila yuan, 6 mila euro. Una cifra non indifferente anche per criteri occidentali e che per la Cina è quasi insostenibile: il reddito medio disponibile per una famiglia di città nella Repubblica popolare è di circa 4.300 euro l’anno. Il padre ha raccontato la storia sul web, innescando un dibattito sull’ingerenza dello Stato nella decisione dei cittadini di avere o non avere figli. Lui, 26 anni, ha scritto che «in questa società l’aborto sembra essere la via d’uscita migliore». Ha ricevuto anche critiche, ma in poche ore è cominciata una sottoscrizione per aiutarlo a pagare il debito imposto dallo Stato. E subito le autorità hanno censurato la notizia sui social network.
In Cina, nonostante la grande pubblicità data dopo oltre trent’anni all’allentamento della legge sul figlio unico, per mettere al mondo una creatura serve sempre un permesso di nascita; che si concede solo presentando un certificato di matrimonio. Si deve pagare, o abortire, anche se si è regolarmente sposati e si genera un figlio «di troppo», non previsto dalla pianificazione familiare. La «tassa di mantenimento» è odiosa e odiata ed è fonte di abusi da parte di funzionari locali che spesso fanno scomparire i soldi. Si tratta di un fiume di denaro: 2,8 miliardi di euro l’anno.
Comunque, la revisione della legge sul figlio unico, dovuta non a un ravvedimento umano ma alla crisi demografica che sta riducendo la forza lavoro nella Fabbrica del mondo, non ha dato gli effetti sperati dal governo: nel 2014 hanno avuto un secondo bambino solo 470 mila coppie sugli 11 milioni che ne avrebbero avuto diritto. Così i demografi del partito stanno pensando di imporre alle coppie sposate di produrre un secondo figlio.

La Stampa TuttoLibr 27.6.15
Filosofia
I nodi della secolarizzazione
La cultura disinnesca l’ordigno della religione
Kelsen e Habermas denunciano il rischio di relegarla al foro interiore: così, paradossalmente, la si abbandona a laicismo e fondamentalismo
di Federico Vercellone
Insegna estetica all’Università di Torino

La modernità nascente era sorta nel segno di una meravigliosa ubriacatura messianica, quella primo-romantica, la quale faceva derivare lo spirito del tempo «nuovo» dal carattere inaugurale del cristianesimo. Il mondo secolare moderno sarebbe, da questo punto di vista, l’esito di una sorta di parto messianico, e questo ne fa un universo votato a un progresso indefinito, orientato a un’infinita approssimazione alla meta ultima. A partire dallo storicismo tedesco e dalla teologia liberale protestante le cose vanno modificandosi, e sempre di più il mondo moderno si palesa come un mondo secolare sorto in forza del cristianesimo e liberatosi dall’ipoteca di Dio grazie allo stesso Gesù Cristo, il quale, morendo, ha emancipato questa terra dall’incombente presenza del divino per affidarla alla sola responsabilità umana.
Il problema è che il mondo secolare moderno soffre della propria sobrietà priva di certezze ed è tentato di creare nuove fedi, secolari e non, e comunque di far rientrare nella sfera pubblica quella fede religiosa che si era ritratta nei più intimi recessi dell’animo umano. Il mondo secolarizzato non regge dinanzi agli effetti che esso stesso ha prodotto, e sempre più si rinnova la necessità di ritrovare nuove divinità ideologiche o mass-mediatiche. Su questi temi ci invitano a riflettere Hans Kelsen in Religione secolare, il suo ultimo libro uscito postumo nel 2012, comparso ora in italiano da Cortina e, ben più di recente, Jürgen Habermas in Verbalizzare il sacro pubblicato da Laterza. Il libro di Kelsen ha dietro di sé una lunga e sofferta vicenda. Kelsen giunse persino a sottrarlo alla stampa, nel 1964, dopo averne corretto le bozze, preferendo pagare una salata penale all’editore piuttosto che vedere pubblicate quelle pagine delle quali non era pienamente convinto.
La questione posta da Kelsen è quanto mai attuale. La sua formulazione è tuttavia fortemente condizionata dall’epoca nella quale il libro fu scritto, un’epoca variegatamente dominata da grandi ideologie che assumevano il volto di prospettive totalizzanti, di vere e proprie visioni del mondo. Si va in questo quadro dal mito della tecno-scienza al marxismo. La domanda di Kelsen è quanto mai esigente e precisa: si può parlare di religione nel caso di visioni del mondo onnilaterali le quali tuttavia non si organizzano intorno a un’ipostasi divina trascendente? Si può, in breve, avere religioni senza Dio? La risposta di Kelsen è decisamente negativa. Kelsen polemizza contro coloro, da Ernst Cassirer a Karl Löwith, ma tra questi va annoverato principalmente il suo allievo Erich Voegelin, i quali tendono a interpretare gli esiti delle filosofia illuministica e della secolarizzazione come delle vere e proprie proposte di fedi immanentistiche le quali hanno, per parte loro, una remota radice nella tarda antichità e nel Medioevo. La modernità sarebbe percorsa in quest’ottica da un sotterraneo stream neo-gnostico che costituirebbe una sorta di unico comune denominatore delle spinte secolarizzanti e addirittura di quelle rivoluzionarie del tempo presente. Dalla gnosi antica ad Agostino a Gioacchino da Fiore, vero e proprio padre delle rivoluzioni moderne, avremmo così a che fare con un unico filo rosso che conduce sino a Marx e a Nietzsche, i due grandi pensatori che minano le fondamenta del mondo cristiano-borghese.
La posizione di Kelsen è di estremo significato. Essa è potentemente anticipatoria e, per così dire, ci fa gettare lo sguardo sul nostro tempo, spesso definito come «post-secolare», intriso di sincretismi e di fedi eteroclite. Kelsen ci guida infatti oltre un’idea di secolarizzazione intesa come rinchiudersi della religione nell’ambito dell’intimità individuale a grande distanza dalla sfera pubblica. La questione è del massimo rilievo. Non a caso a riprenderla è il massimo filosofo vivente. E’ infatti Jürgen Habermas, in Verbalizzare il sacro, a metterci in guardia, con eccellenti ragioni, dall’idea che la religione possa essere separata dalla sfera pubblica e dalla cultura e consegnata esclusivamente al foro interiore. Un’ipotesi di questa natura, che recide i legami tra religione e cultura, finisce, tra l’altro, per abbandonare la sfera religiosa, paradossalmente, al laicismo e al fondamentalismo insieme. Abbiamo cioè a che fare con contenuti di fede troppo dogmatici per essere interpretabili i quali, pertanto, possono soltanto o essere esclusi dalla sfera pubblica oppure, volendo far valere nella sfera pubblica il proprio presunto contenuto di verità, entrare in conflitto violento gli uni con gli altri. Questo induce a sottolineare, suggerisce Habermas, il significato della presenza della religione nella cultura: le argomentazioni che derivano dalla sfera della fede possono e debbono essere ammesse nello spazio pubblico e nel dialogo politico, trovando qui un’adeguata collocazione, purché la loro formulazione si sorregga su argomentazioni razionali che si sostengono indipendentemente dai presupposti dogmatici sui quali i diversi mondi religiosi si fondano.

Corriere 27.6.15
La storia della Resistenza / 1
di Vittorio Emiliani

Mi inserisco nella discussione insorta sull’articolo e sul libro di Aldo Cazzullo (Corriere, 23 giugno) per dire che il Pci poté far propria la Resistenza pur essendone stati i comunisti soltanto una componente, certo molto importante, anche perché la Dc, nella contrapposizione frontale successiva alla fine dei governi del Cln, glielo lasciò fare. Pochi furono infatti i democristiani che continuarono a partecipare attivamente alle manifestazioni partigiane: Paolo Emilio Taviani, medaglia d’oro della Resistenza, Benigno Zaccagnini, Giorgio Bo, Enrico Mattei e pochi altri. Mi pare tuttavia che fare della «Resistenza rossa» una «Resistenza comunista» tout court sacrifichi pesantemente il contributo di altre forze di sinistra al movimento partigiano, Due soprattutto: la rosselliana «Giustizia e Libertà» decisamente forte in Piemonte e presente anche in Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana e i socialisti, sia che fossero nelle «Brigate Matteotti» sia che militassero nelle «Garibaldi». Penso a Giuliano Vassalli, autentico eroe della Resistenza romana che con Peppino Gracceva, comandante delle «Matteotti» nell’Italia Centrale, organizzò la fuga da Regina Coeli di Pertini e di Saragat e poi fu ferocemente torturato in via Tasso dalle Ss insieme al futuro grafico e pittore Sergio Ruffolo, fratello di Giorgio. Penso a Italo Pietra, comandante generale delle Brigate partigiane dell’Oltrepò Pavese e al suo ufficiale di collegamento Paolo Murialdi e a tanti altri che, fra l’altro, nel 1947 abbandonarono il Psi frontista.

Corriere 27.6.15
La storia della Resistenza / 2
di Lucio Villari

Mi permetto di aggiungere alle precise osservazioni di Cazzullo due semplici, ma essenziali note al margine. La Resistenza italiana è stata parte attiva e consapevole di una Resistenza europea che ha visto decine di migliaia di patrioti, di ogni credo politico e religioso e di ogni classe sociale, combattere gli occupanti tedeschi e i fascisti locali in nome della libertà e delle sovranità nazionali violate. Si è trattato di una Resistenza che è costata fucilazioni, martirio di patrioti e di partigiani, deportazioni, devastazioni di città, villaggi, campagne, eccidi di migliaia di innocenti in Francia, Olanda, Belgio, Danimarca, Norvegia, Polonia, Ungheria, Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Albania, Grecia, Russia, non dimenticando il sacrificio eroico di ufficiali, studenti, operai, religiosi tedeschi, caduti nel tentativo di abbattere Hitler e il suo regime. Tutto ebbe inizio praticamente con l’inizio della Seconda guerra mondiale. Dunque, 3 anni prima che in Italia e quell’esperienza giovò molto alle formazioni partigiane italiane. Questo riferimento storico alla complessa e affascinante verità oggettiva della Resistenza europea sottolinea cose ormai universalmente accettate e, vorrei aggiungere, conosciute. Ho qualche incertezza (e l’ha soprattutto il quasi mezzo milione di studenti che ha evitato di occuparsene nell’esame di maturità) se lo siano anche in Italia. Dove — lo dico con cognizione di causa perché faccio parte del comitato storico-scientifico presso la presidenza del Consiglio che si occupa anche dei 70 anni della Liberazione — bisogna continuare a spiegare, anche a autorevoli giornalisti e uomini politici e perfino a degli storici quel che è realmente accaduto tra Il 1940 e il 1945 in questa parte del mondo.

Corriere 27.6.15
Ceramiche di Picasso Un’asta da 17 milioni

Prezzo record per la collezione di ceramiche, sculture e piastrelle realizzate tra il 1947 e il 1960 da Pablo Picasso durante il suo soggiorno in Costa Azzurra. L’intera raccolta di 126 pezzi, offerta dalla nipote Marina Picasso, è stata battuta all’asta da Sotheby’s a Londra per 17,3 milioni di euro, il doppio della stima più alta ipotizzata alla vigilia. Le ceramiche erano state realizzate dal pittore spagnolo nell’atelier Madoura a Vallauris, in Francia, dove si recò su invito dei proprietari del laboratorio di ceramica, Georges et Suzanne Ramié. Nel 1947 Picasso cominciò a creare piatti, vasi, statue, caraffe, con colorati disegni di animali, da pesci a cigni, da tori a uccelli, ma anche con stilizzati ed enigmatici volti maschili e femminili. Marina Picasso ha annunciato che userà i soldi per sostenere progetti nel Terzo Mondo.