martedì 30 giugno 2015

MISCELLANEA DI MARTEDI 30 GIUGNO

Il Sole 30.6.15
Intervista al premier. «Il percorso iniziato di riforme strutturali, l’economia che torna a crescere e l’ombrello Bce ci mettono al riparo dai rischi di un default greco»
Renzi: siamo fuori dalla linea del fuoco, vi spiego perché
intervista di Roberto Napoletano


Presidente Renzi, nel caso di un default greco, i mercati cercheranno di assicurarsi contro i rischi nazionali. In prima linea ci sono il Portogallo, la Spagna e, purtroppo, l’Italia. Ha un’idea su come togliere il nostro Paese dalla linea del fuoco?
L’Italia è già fuori dalla linea del fuoco. Abbiamo iniziato un percorso coraggioso di riforme strutturali, l’economia sta tornando alla crescita e l’ombrello della Bce ci mette al riparo: tre caratteristiche che rendono questa crisi diversa da quella di quattro anni fa. La questione greca è preoccupante perché l’Europa non ha una visione politica di lungo periodo che da tempo manca. E può avere ripercussioni economiche soprattutto per i rischi di contagio con altri Paesi extraeuropei debitori del Fondo monetario internazionale. La mia preoccupazione dunque non è per ciò che potrebbe accadere all’Italia, ma per gli scenari globali di difficoltà che si potrebbero aprire.
Lo scudo degli acquisti della Bce sta garantendo, anche in queste ore, il contenimento degli effetti della crisi sui tassi dei titoli di Stato e sullo spread. Senza quello scudo che cosa sarebbe successo? E, soprattutto, per quanto tempo questo strumento potrà fare argine, è possibile difendersi solo con la leva della Bce?
L’anomalia era il passato, non il presente. La cosa strana era affrontare crisi come queste senza l’ombrello di una Banca centrale. Adesso che grazie all'azione intelligente di Mario Draghi finalmente abbiamo un margine d'azione per la Bce, lo spread non è più il problema drammatico di qualche anno fa. E il Qe sarà utilizzato per tutto il tempo necessario.
Il caso Grecia dimostra che l’Europa degli Stati nazionali e della moneta, come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, non basta più. Quando si tratta di discutere della Grecia, vanno Hollande e la Merkel, mi scusi, ma lei dov’è? E l’Italia?
Francia e Germania hanno una consolidata relazione da sempre, dai tempi di Kohl e Mitterrand. I due Paesi procedono insieme ovunque: per la crisi Ucraina, per la Grecia, per il riassetto dell’Eurozona, per l’immigrazione. Che poi queste proposte funzionino o meno lo dirà il tempo.
Noi ce li ricordiamo nel sorrisino di Cannes di Sarkozy quando sul banco degli imputati avevano messo noi. Qual è il nostro posto? Il nostro posto in passato era tra i problemi, adesso è tra quelli che provano a risolvere i problemi. Che l’Europa debba cambiare lo diciamo da mesi e qualcosa sta finalmente accadendo. Ma purtroppo un’organizzazione così burocratica si cambia con la logica dei piccoli passi, non con le rotture. Quanto ai vertici ristretti non ho mai partecipato, nonostante gli inviti a farlo. E non inizierò adesso. I luoghi dove si fanno le trattative non sono quelli a favore di telecamere. Nel merito l’Italia ha tentato fino all’ultimo di riportare buon senso e ragionevolezza, contribuendo all’ultima proposta della Commissione, quella più favorevole alla Grecia. Il no di Alexis e dei suoi mi è sembrato inutilmente ostinato.
Ha condiviso la decisione della Ue di interrompere i negoziati con la Grecia dopo la scelta di Tsipras di affidarsi a un referendum?
I negoziati li ha interrotti Varoufakis, purtroppo. Ma il problema non è su chi ha sbagliato per primo, questo non è l’asilo. Il punto è che la Grecia può ottenere condizioni diverse ma deve rispettare le regole. Altrimenti non c’è più una comunità. Scusi, noi abbiamo fatto la riforma delle pensioni: ma non è che abbiamo tolto le baby pensioni agli italiani per lasciarle ai greci eh! Noi abbiamo fatto la riforma del lavoro, ma non è che con i nostri soldi alcuni armatori greci possono continuare a non pagare le tasse. Potrei continuare. Aggiungo che se c’è il tana libera tutti sulle regole, che succede in Spagna a ottobre? E in Francia tra un anno e mezzo? Una cosa è chiedere flessibilità nel rispetto delle regole. Un’altra è pensare di essere il più furbo di tutti, essere cioè quello che le regole non le rispetta. Noi vogliamo salvare la Grecia. Ma devono volerlo anche i greci. Altrimenti non funziona.
Le responsabilità del governo greco sono sotto gli occhi di tutti, ma da parte dell’Unione europea non si poteva fare di più e meglio per non arrivare a questo punto? C’è una responsabilità della Germania e di Angela Merkel in particolare?
Rispetto ad Angela Merkel ho una visione diversa sugli ultimi dieci anni di storia europea. Considero un fallimento aver basato tutto sull’austerity e sul rigore. Sono stato il primo ad aver combattuto una battaglia dentro il Consiglio Europeo per tornare a parlare di crescita e investimenti. E domani a Berlino tornerò a discutere con lei sul futuro del nostro continente. Ma dare la colpa alla Germania di ciò che sta avvenendo in Grecia è un comodo alibi che non corrisponde alla realtà. Dare sempre la colpa ai tedeschi non può essere una politica. Può tirare su il morale, ma non tira su l’economia. La Merkel ha provato davvero a trovare una soluzione. Credo che la mossa del referendum l’abbia spiazzata. Lei era in prima fila in Germania per fare un accordo anche contro la sua opinione pubblica. Ma adesso il rischio è che il referendum si trasformi in Merkel contro Tsipras. Sarebbe un errore ed è quello che vuole Alexis. Che non a caso ha vinto le elezioni parlando più contro la Merkel che per la Grecia. Ecco perché credo che abbia sbagliato il mio amico Juncker a lanciare la campagna elettorale del «sì». Questo non è un referendum tra leader europei. Questo è un ballottaggio: euro o dracma. I greci non devono dire se amano più il loro premier o il presidente della commissione europea. Ma se vogliono restare nella moneta unica o no.
Che cosa succederà se vinceranno i no?
Se vincono i no, a mio giudizio, la Grecia va verso l’abbandono dell’euro. Torna alla dracma. E sarebbe un dramma innanzitutto per i greci. Ma a questo punto devono decidere loro: i leader europei rispettino il volere di Atene, senza impicciarsi. Vogliono andarsene? Deciderà il loro popolo. Democrazia è una parola inventata ad Atene: Bruxelles la deve rispettare. Dal canto loro i greci devono avere chiare le conseguenze della loro scelta.
Anche nel rapporto dei cinque presidenti si procede a piccoli passi. Avanti sull’Europa bancaria, passetti sulla politica di bilancio comune, ma perché non si può avere un’Europa con una vera, unica, politica fiscale e di bilancio? Perché non si può avere un'Europa che gestisca una difesa comune?
Manca una dimensione più politica dell’Europa. Ecco perché abbiamo fatto una battaglia sull’immigrazione, sulla banda larga, sugli investimenti. Ma vedo ancora troppo egoismo nazionale per immaginare la politica di difesa comune.
Il terrorismo è dietro l’angolo, entra nelle case dei cittadini europei, la risposta interroga la politica e le coscienze, ma perché l’Europa non può avere nemmeno un’unica agenzia antiterrorismo come quella americana?
Il problema del terrorismo è epocale, non si risolve certo con una agenzia antiterrorismo. L’11 settembre c’è stato nonostante la Cia. E non è l’intelligence comune che metterà fine a uno scontro epocale che vede oggi l’intero pianeta in guerra contro il terrorismo. L’Europa ha molti limiti, ma se un cittadino francese decide di farsi saltare in aria che facciamo? Diamo la colpa a Bruxelles? È in corso un’offensiva senza precedenti di una parte del mondo estremista contro l’Occidente, i suoi valori, i suoi musei, le sue scuole, le sue sinagoghe. La risposta è molto più ampia di una intelligence comune. Dobbiamo convivere con la minaccia globale, ma non rinunciare ai nostri valori e alla nostra idea di libertà: questo è il compito dell’Europa. Vivere la nostra identità. Poi le agenzie di sicurezza già collaborano, magari fosse questo il punto.
All’inizio le chiedevo se poteva bastare l'intervento della Bce, glielo chiedevo perché sul fronte delle riforme l’Italia resta sotto osservazione. Lei ha portato a casa una buona riforma del mercato del lavoro, accompagnata da un importante alleggerimento fiscale e contributivo sul lavoro, ma la pressione fiscale (43,5%) resta a livelli record e anche sulle semplificazioni i risultati non si sono visti.
Abbiamo anche su questo una visione molto diversa. L’Italia è sotto osservazione per la sua bellezza, forse. E anche per i cambiamenti così rapidi, ai quali nessuno credeva un anno fa, neanche lei se ricordo i suoi editoriali. Fino alla settimana scorsa la Borsa di Milano ha registrato la migliore performance dall’inizio anno rispetto alle concorrenti. Le principali crisi occupazionali sono state risolte. Il mercato del lavoro è ripartito anche se avrà ancora alti e bassi per tutto l’anno, ma è stabilmente col segno più. Lo scontro sull’articolo 18 ormai è alle spalle. In un anno il Parlamento ha licenziato una legge elettorale, norme più dure contro la corruzione, l’operazione 80 euro che la Banca d’Italia certifica decisivi per il rilancio dei consumi, come senz’altro lei sa avendo ascoltato la relazione del Governatore Visco. Siamo in fase di approvazione finale su scuola, pubblica amministrazione e riforma costituzionale. Si stanno riducendo i tempi del processo civile e quando guardo gli inserti economici del lunedì sui quotidiani è un fiorire di buone notizie per l’economia reale, trainata dall’export nonostante i rallentamenti di Oriente, Russia e Sud America. L’Italia c’è. Forse se smettessimo di parlarne male per primi noi che ci autoflagelliamo e ci definiamo costantemente un Paese sotto osservazione saremmo anche più credibili all’estero. Una parte dei problemi dell’Italia, caro direttore, è anche il racconto che offre di lei la sua classe dirigente. O presunta tale.
Nessuna autoflagellazione, solo il coraggio di dire la verità. Questo è il dovere dell’informazione. Mi scusi, presidente, ma lei come giudicherebbe un Paese che tassa gli impianti che le imprese comprano per produrre e dare lavoro? Questo Paese è il suo, il nostro, può prendere l’impegno di abolire la tassa sugli imbullonati?
La tassa sugli imbullonati è stupida e abbiamo già detto che la cambieremo dal prossimo anno. La pressione sugli immobili è troppo alta. Dopo di che lei sta parlando con il primo ministro di un Governo che ha tolto la tassa più stupida in assoluta: la componente Irap sul costo del lavoro. Ancora più stupida degli imbullonati. Una promessa che tutti i Governi hanno fatto agli imprenditori, ma che solo un Governo ha mantenuto. E siamo partiti di lì, non dalle tasse sulla casa. Siamo partiti dal reddito dei lavoratori dipendenti perché agevolare il loro potere d’acquisto è giusto. E utile dal punto di vista dei consumi. Che non a caso sono tornati a crescere. Poco, ma hanno invertito la rotta. Siamo il primo Governo che abbassa le tasse: dovevamo partire dalla casa? Forse. Ma io preferisco abbassare le tasse sul lavoro.
In questo Paese la mafia non è più presente solo al Sud, ma anche al Nord e al Centro, e la tassa occulta di reputazione e di molto altro la pagano le imprese sane, quelle che vivono di mercato e lottano ogni giorno nel mondo per vendere il made in Italy. Lotta alla corruzione e certezza del diritto: dovete fare molto di più e, soprattutto, molto meglio, non crede?
Fare di più? Abbiamo introdotto regole più dure contro la corruzione, allungato i termini di prescrizione, indurito il falso in bilancio e introdotto l’autoriciclaggio. Abbiamo anche introdotto il reato ambientale. E poi responsabilità civile dei magistrati e nuova norma sulla custodia cautelare. Fare di più mi sembra difficile, specie in un anno. Poi certo ci sarà sempre chi ruba. L’importante è che chi ruba paghi tutto fino all’ultimo centesimo, fino all'ultimo giorno. Mai più patteggiamenti vecchio stile.
La riforma del catasto è stata rinviata, la casa resta tassata pesantemente – anche la prima casa -, le imprese possono dedurre solo in piccola parte l'imposta pagata sui capannoni. Come si fa a rilanciare la fiducia con questi macigni sulle spalle degli italiani?
Ho personalmente bloccato la riforma del catasto perché era una buona norma in teoria ma non potevo garantire gli effetti fiscali. Per cui le ho già risposto. No, non ero in grado di assicurarlo e dunque l’ho bloccata.
Il settore dell’edilizia resta cruciale per la ripresa. Non pensa che queste zavorre fiscali siano un freno di troppo?
Il settore costruzioni, come senz’altro non le sfugge, è forse l’unico che ha avuto incentivi fiscali. Strabenedetti peraltro. E tuttavia è fermo, inchiodato, ancora. Mancano soprattutto i cantieri pubblici, mancano i permessi in tempi certi, manca la possibilità di finire i lavori senza che un Tar dia la sospensiva, manca il credito alle piccole imprese in sofferenza. Manca questo. Se parla con qualcuno che conosce il mondo dell'edilizia si renderà conto, caro Direttore, che la zavorra non è fiscale come dice lei, ma burocratica e bancaria. Abbiamo dato una prima, parzialissima risposta con lo Sblocca Italia. Insufficiente, ancora. Adesso il nostro obiettivo è sbloccare venti miliardi di cantieri nei prossimi diciotto mesi lavorando a stretto contatto con Ance. E l’operazione che abbiamo fatto al fine di disincagliare i crediti in sofferenza è fondamentale per liberare risorse di qualità. Certo: se questa cosa l’avessero fatta prima come in altri Paesi sarebbe stato meglio. Ma a differenza di altri sono qui per risolvere i problemi, non per lamentarmi.
Se un imprenditore italiano va negli Stati Uniti c’è la gara tra i governatori a offrire le migliori condizioni per conquistare l’investimento. Qui, se tutto va bene, si aspettano anni. Non crede che la soluzione di tale problema dovrebbe essere il primo impegno di chi ha la responsabilità di governare questo Paese?
Lei mi ha intervistato – o se preferisce, visto il tono che continua a usare, interrogato – un anno fa. Le cito alcuni luoghi, che sono in Italia, non negli Stati Uniti. A Bologna Philip Morris ha fatto un investimento straordinario strappandolo alla Turchia. Restando in Emilia Romagna, l’Audi ha investito con il nuovo Suv qui e non a Bratislava dove pure spendeva meno. A Taranto l’Ilva ha ripreso il cammino, a Reggio Calabria i giapponesi continueranno a investire con Ansaldo Breda, a Gela l’occupazione si è rimessa in moto. A Melfi, Cassino, Grugliasco, Pomigliano l’intelligenza e la visione strategica di Sergio Marchionne consentono nuovi investimenti, aiutati anche dal Jobs Act. Carinaro non chiuderà e sembrava impossibile solo un mese fa. Piombino è ripartita, Terni è salva, i distretti del Nord sono ripartiti quasi ovunque, Olbia ha finalmente sbloccato l’investimento qatarino e puntiamo a risolvere velocemente la Meridiana. Potrei dirle di Electrolux, di Alitalia, della cantieristica ligure che finalmente ha un futuro grazie alla legge navale, di decine di aziende che dovevano chiudere e stanno ripartendo. Lei può citare i governatori americani che offrono incentivi, noi abbiamo dato il sangue per non chiudere le aziende. Adesso che finalmente la macchina si è rimessa in moto, valuteremo come attrarre investimenti. Ma temo che non sia chiaro nemmeno al Sole 24 Ore come l’impegno di quest’anno per salvare i posti di lavoro sia stato un’autentica rivoluzione per l’Italia. Mentre in tutte le città e nei talk venivo contestato dalla Fiom, il nostro giro d’Italia ha visto qualche risultato significativo, nonostante i tanti gran premi della montagna.
Tra due mesi dovrà fare una manovra che parte da circa 20 miliardi, tra clasuola di salvaguardia sull’Iva (16 miliardi), adeguamento delle pensioni (5-600 milioni), reverse charge (800 milioni), rinnovo del contratto del pubblico impiego (1,6 miliardi). Dove troverete queste risorse? E come potrete liberarne altre per ridurre le tasse?
Le clausole di salvaguardia non scatteranno. Certo, non sarà semplice. Ma noi siamo quelli che le tasse le abbassano, non le alzano. Nel 2016 scommetto su una ulteriore riduzione del carico fiscale. Ma ancora è presto per discuterne. Ne parleremo a settembre.
Di certo non si fa sviluppo creando una nuova Iri e facendo pasticci sulle nomine. Ci spiega finalmente perché avete cambiato i vertici della Cassa depositi e prestiti prima della scadenza assembleare? Qual è il mandato che hanno i nuovi amministratori? La Cdp diventerà una banca pubblica per lo sviluppo? Che cosa diventerà?
La missione di Cdp non cambia. Rimane la stessa con attori nuovi. Il che non mi sembra un dramma dopo cinque anni. Lo hanno spiegato molto bene Franco Bassanini e Giovanni Gorno Tempini, cui va la mia gratitudine per il loro lavoro. Se qualcuno pensa che sia un pasticcio nominare due professionisti come Claudio Costamagna e Fabio Gallia buon per lui. All’estero stanno notando come tanti privati si facciano tentare dal venire a dare una mano all’Italia. Il primo è stato Andrea Guerra, certo. Ma non sarà l’ultimo. Prossimo tassello l’Enit. Se questi sono pasticci, si prepari a gustarne molti altri. Credo che compito di un leader sia scegliere persone di qualità. Se guardo le performance delle aziende pubbliche italiane penso che i risultati di questi mesi parlino più di qualsiasi polemica. Poi a ognuno il suo. Per me la priorità è continuare a fare. E per questo dopo i decreti fiscali, adesso ripartiamo con l’assestamento e le riforme. Questo Paese è troppo bello per lasciarlo a chi sa solo criticare. E molto più forte di chi lo considera facile preda per gli speculatori.
Ultima domanda: è vero che è disposto a rimettere in discussione l’Italicum? È proprio convinto che il nuovo Senato delle Regioni debba rimanere così com’è ?
Cambiare l’Italicum? Non esiste. Abbiamo impiegato anni per avere una legge elettorale che garantisca governabilità e adesso che ce l’abbiamo rimettiamo tutto in discussione? L’Italicum funziona bene perché permetterà a chi vincerà di governare cinque anni. Questo è ciò che serve all’Italia.

Repubblica 30.6.15
Costas Lapavitsas (Syriza), insegna alla Soas di Londra ed è parlamentare di Syriza:
“Si intromettono sul referendum perché vogliono ricattarci”


ATENE. «L’intromissione di Juncker sul referendum è l’ultima prova che la Troika continua a ricattare la Grecia. Atene deve votare “No” e voltare pagina. L’addio all’euro? Qualsiasi cosa, per quanto dolorosa, è meglio di un’altra overdose di austerità imposta da Ue, Bce e Fmi». Costas Lapavitsas, come tradizione, non le manda a dire. Professore di economia alla Soas University of London e parlamentare dell’ala più radicale di Syriza.
Contento della scelta del referendum?
«E’ stata una mossa necessaria. E le reazioni scomposte del presidente della Commissione Ue di queste ore lo confermano. Il governo non aveva altre opzioni per preservare il proprio capitale di credibilità politica. E’ imbarazzante che dopo cinque anni di austerità e con i risultati di questa politica sotto gli occhi di tutti, l’Europa non trovi di meglio che riproporci esattamente la stessa ricetta».
Non teme che i controlli di capitali facciano precipitare la situazione?
«Lo stato di salute delle nostre banche è disperato. Ma mi pare evidente che l’Eurogruppo stia provando in questi giorni a creare le condizioni per un cambio di governo ad Atene. E che ci siano nel Paese altre forze – parlo dei ricchi oligarchi e dell’elite finanziaria - che lavorano in questa direzione ».
Cosa succederà dopo il referendum?
«Intanto è importante che vinca il no. Poi si dovrà trovare un nuovo sentiero con Ue, Bce e Fmi. E’ probabile che avremo periodi di difficoltà, come pure che ci sia la necessità di nazionalizzare le banche. Meglio però di un’altra dose di austerità inflitta dalla Troika».
Lei ha auspicato l’addio all’euro…
«Non voglio parlare dell’uscita dall’euro se no dicono che sono ossessionato su questo tema. Spero solo che Syriza lavori a soluzioni di discontinuità rispetto a un passato che non è più proponibile».
Come giudica i primi cinque mesi di governo Tsipras?
«Sono stati difficilissimi. Siamo stati messi in condizioni di non operare, ricattati dalle istituzioni che hanno creato artificialmente la crisi di liquidità per tenerci sotto scacco. Avremmo potuto giocare meglio le nostre carte, ma sono comunque contento di una cosa: abbiamo dimostrato che siamo un partito diverso rispetto a quelli che hanno governato il Paese negli ultimi 40 anni ».

La Stampa 30.6.15
Tsipras: “Non penso che i creditori ci vogliano cacciare dall’euro”
di Nic. Zan.


La banche erano chiuse, ma Atene ha vissuto. E la giornata si è conclusa con una manifestazione imponente, che ha in qualche modo confortato e reso spavaldo il premier Alexis Tsipras. «Non credo che i creditori ci vogliano cacciare dall’Euro - ha detto alla tv pubblica Ert -  I costi sarebbero enormi». Quasi una festa, con 20 mila persone che hanno riempito piazza Syntagma, davanti al Parlamento. Tutti gli striscioni accomunati da una sola parola: «Oxi». «Nein». «No». No all’accordo. «No alla Merkel». «No alla Troika». E quindi, pronti a tutto. Eppure, felici, molto più che preoccupati. Ed è proprio questa strana euforia, forse, a spiegare molte cose che stanno succedendo ad Atene.
Erano tutti come la signora Penelope Assriotou, ex commessa nel duty free dell’aeroporto. Teneva la bandiera della Grecia sulle spalle e sorrideva: «Sono stata licenziata 5 anni fa. Anni durissimi. L’ultimo periodo, persino umiliante. Mi hanno salvato pochi amici, amici veri. Ma adesso basta. I tedeschi hanno i soldi, noi no. Abbiamo sofferto troppo. Questo è il tempo di ribellarci e riprenderci la nostra dignità».
A quell’ora Tsipras parlava in tv: «Questa grande folla radunata in piazza Syntagma ci dà la forza - ha detto - con calma e compostezza affronteremo minacce e ricatti. La gente ha il diritto di scegliere il proprio futuro. Il popolo farà sentire la sua opinione sulle note questioni: la loro voce sarà ascoltata». E ancora: «Più forte sarà il fronte del No, più forti saranno le chance di un miglior negoziato dopo il referendum».
Tutti i sondaggi sul referendum del 5 luglio, per la verità, danno in vantaggio i «sì»: quello dell’istituto Alco dice 57% dei greci favorevoli all’accordo, 29% per la rottura dei negoziati. Lui, Tsipras non ha avuto dubbi di fronte ai giornalisti che gli chiedevano cosa farà se domenica vincerà il sì: «Non sono un uomo per tutte le stagioni».
Le banche erano chiuse per il primo giorno, ma tutto è filato liscio. Senza isteria. Atene sembrava quasi normale: malconcia, caotica, orgogliosa. La maggior parte dei bancomat aveva nuova disponibilità di contanti. I greci potevano prelevare 60 euro. I turisti, con carte straniere, non avevano limitazioni. Erano finite anche le code dai benzinai. Nessuna ressa nei supermercati. Sembrava come se tutti si fossero impegnati per considerarla soltanto una giornata come le altre. Certo, era il primo giorno: da alcune isole arrivavano notizie di carburante che inizia a scarseggiare, di qualche bancomat presidiato dalla polizia. Per tutta la settimana in mezzi pubblici ad Atene saranno gratuiti. E oggi - 30 luglio - la Grecia non sarà in grado di pagare la rata del debito con il Fmi di 1,6 miliardi di euro. Ma questo primo e vero passo verso il tracollo finanziario, paradossalmente, è passato in secondo piano.
Questa sera, sempre in piazza Syntagma, sfilerà il popolo del «Sì». E allora, forse si incomincerà a capire.

Repubblica 30.6.15
Jean-Paul Fitoussi
“La Germania potrebbe ricordarsi che dopo la seconda guerra mondiale le fu condonato un immane debito”
“Rischiamo il disastro la Merkel poteva evitarlo se voleva salvare la Ue”
Hollande e Renzi si sono rivelati solo dispensatori di buoni sentimenti
La troika ha imposto l’austeriity sin dall’inizio e ha solo peggiorato la situazione
La terapia del rigore ha portato alla vittoria i movimenti anti euro
intervista di Eugenio Occorsio


ROMA. «Io mi chiedo come sia stato possibile che dei governi moderni, responsabili, pieni di ottimi cervelli, non siano riusciti ad evitare che si andasse a finire in una situazione così drammatica». Jean-Paul Fitoussi, decano degli economisti della gauche più illuminata, non riesce a darsi pace. «L’Europa ha accettato, pur di non ricorrere a un supplemento di solidarietà, di prendere un rischio gigantesco, quello di una deflagrazione finanziaria mondiale di portata inimmaginabile. Ma ha anche accettato qualcosa di ancora più orribile», dice il guru di quel crogiuolo di pensiero progressista che è l’università parigina SciencesPo.
A cosa si riferisce, professore?
«Ha ragione per una volta la Merkel. Se salta la Grecia, e con essa sicuramente verrebbe giù l’intera architettura dell’euro, se finisce insomma l’idea di una moneta comune che avrebbe dovuto unirci anziché dividerci, salta l’intera idea dell’Europa. Solo che la cancelliera aveva in mano la possibilità di evitare tutto questo. Non lo ha fatto. Mi dannerò l’anima cercando di capire perché».
Forse perché non è facile negoziare con Tsipras e Varoufakis. Si raccontano aneddoti imbarazzanti sull’atteggiamento al tavolo negoziale.
«Macché. Se avesse voluto il governo tedesco avrebbe chiuso l’accordo. Certo, si trattava di fare ulteriori concessioni alla Grecia, che non ha fatto molto per meritarle. Ma bisognava avere l’intelligenza di astrarsi dal mero contenuto finanziario: bisognava salvaguardare l’integrità dell’Europa, visto che in un’Europa così fatta, ci piaccia o no, ci troviamo a vivere. Bisognava salvare l’idea di un continente che fino a pochi decenni fa era sconvolto da guerre vere, con milioni di morti, e oggi si trova a vivere in pace con una comune ambizione al progresso. Poi, la Merkel poteva, se non altro per riguardo agli altri, pensare: le vicende della storia portano la Germania ad essere la potenza dominante, però la memoria non inganna. Dopo la seconda guerra mondiale a Berlino fu condonato quasi per intero un immane indebitamento, perché non si ripetesse quello che era successo dopo la fine della prima, di guerra, quando invece i debiti non erano stati perdonati e si è dato il via a Weimar e tutto quello che è seguito. Ma dobbiamo proprio ricorrere a questi ricordi odiosi per spingere la Germania ad essere realista, flessibile, magnanima?» Non c’era solo la Merkel a quel tavolo. Dagli altri governi europei perché non è venuta una parola in favore del buon senso?
«Semplicemente perché Hollande e Renzi si sono dimostrati non voglio dire delle mezze figure, ma solo dei generici dispensatori di buoni sentimenti. L’iniziativa politica è rimasta ai tedeschi, che sono di natura rigidi e inflessibili. Però in questo caso è inutile scomodare le categorie della differenza antropologica fra un berlinese e un ateniese: serviva uno sforzo di realpolitik. Anche perché c’è una teoria economica di base, che viene insegnata alle scuole medie, che dice che quando hai un forte credito non ha senso accanirsi sul debitore per spillargli per intero quanto dovuto, perché così si finisce con l’ottenere niente. Bisogna per forza negoziare per recuperare almeno metà, o due terzi o un terzo che sia».
Il problema è nelle cifre in gioco, che sono enormi: il salvataggio dell’Argentina costò 100 miliardi, qui ne sono già stati dispensati 350 e non bastano, fin dove si vuole arrivare?
«Guardi, innanzitutto la Germania e gli altri membri della troika, Bce e Fmi, devono mettersi la mano sulla coscienza. Hanno fin dall’inizio imposto una ricetta, quella dell’austerity, che non ha fatto altro che peggiorare la situazione. Avete corso lo stesso pericolo in Italia, vi siete salvati perché avete una struttura industriale di prim’ordine a differenza della Grecia. Io ho scritto l’anno scorso un libro, “La teoria del lampione”, per dimostrare che non bisogna guardare solo al cono di luce del lampione, dove evidentemente si vede solo che bisogna risparmiare, ma ampliare la visione al contesto. E si sarebbe visto che nella condizione attuale imporre alla Grecia una terapia lacrime e sangue avrebbe portato al punto in cui siamo ora. E alla vittoria dei movimenti antieuropei alle elezioni. Bel risultato».

La Stampa 30.6.15
La cancelliera e un gioco pericoloso
di Gian Enrico Rusconi


«Per fortuna c’è la Merkel». Siamo arrivati a questo punto? In realtà stiamo assistendo impotenti al trionfo della irrazionalità. La realtà è sfuggita di mano. Non funzionano né i numeri degli speculatori finanziari né le analisi degli economisti. Quelli che con i numeri e le statistiche credono di capire e di orientare il mondo degli uomini e delle donne in carne e ossa.
Ma imperdonabile è stata la irresponsabilità dei politici che, fidandosi eccessivamente della «razionalità» degli operatori finanziari, si sono messi fuori gioco da soli. Adesso c’è persino qualcuno che stigmatizza la decisione del governo greco di rivolgersi con un referendum al popolo degli elettori.
Tra questi non c’è Angela Merkel. Ritengo anzi che in cuor suo abbia desiderato da tempo questa soluzione. La cancelliera tedesca è la prudenza fatta persona. O è la irresolutezza, fatta persona? In realtà nel recente passato, ha preso ad un certo punto (talvolta all’improvviso) decisioni cruciali. E’ come se lasciasse arrivare la situazione all’estremo, prima di intervenire. Finora è andata bene. Ma potrebbe essere un gioco pericoloso.
Il problema greco è tra i più difficili della carriera della cancelliera; secondo soltanto a quello ancora più impegnativo con la Russia di Putin per le dimensioni geopolitiche che esso implica (ma mi chiedo se la cancelliera non tema un possibile nesso tra i due problemi...).
Nel suo modo di esprimersi in pubblico Angela Merkel non è quasi mai enfatica. Ma talvolta trova frasi sintetiche efficaci che lasciano il segno e valgono oltre il caso specifico. La tesi principale è quella ripetuta anche ieri: «Se fallisce l’euro, fallisce l’Europa». L’ha coniata nel febbraio 2012 in un momento particolarmente duro, e ha avuto l’effetto di far rientrare quasi d’incanto tutte le tentazioni e i tentennamenti circa il possibile disfacimento della moneta unica. Pronunciata oggi, ha un significato diverso, ma non meno drammatico: infatti l’uscita della Grecia dall’euro di per sé non è il fallimento dell’euro, ma segnala il fallimento dell’Europa di essere una comunità basata sulla «solidarietà e responsabilità» quale dice di essere.
E’ inutile adesso ricominciare con la litania delle accuse reciproche tra greci e membri delle istituzioni europee (o di altri istituti internazionali) su «chi è il vero colpevole». Per il momento rimane il fatto della rottura, sia pure accompagnata dagli scongiuri e dagli inviti a ricominciare a trattare.
Se in prima fila tra chi auspica che il dialogo non si interrompa, c’è la cancelliera Merkel non dovrebbero essere soltanto belle parole. Anche se pesa l’ovvia precisazione che occorre attendere l’esito del referendum. Ma la cancelliera si rivolge soltanto agli interlocutori greci? Oppure pensa ad un’operazione di convincimento al suo interno, anche verso l’opinione pubblica che, a quanto sembra, è su posizioni rigide?
Più sopra ho parlato di gioco pericoloso. Il concetto di gioco qui non vale come semplice metafora, ma come indicatore di una situazione che concentra in sé elementi di razionalità e di irrazionalità. Nel senso che contiene la possibilità di calcolare le conseguenze delle proprie azioni e di prevedere il comportamento degli altri. Oppure di tenere fermo sulle proprie posizioni, costi quel che costi. Non si tratta di osservazioni accademiche. Settimane fa il professor Yanis Varoufakis, ministro greco dell’Economia, nei momenti di successo di cui godeva, si lasciava lodare come grande esperto della teoria dei giochi. In effetti ha giocato e ha perso perché – suppongo – non aveva come obiettivo il risultato di oggi. I casi allora sono due: o non è riuscito ad imporre il suo gioco oppure, trovandosi di fatto preso in un «dilemma del prigioniero», ha fatto la mossa «non collaborativa», costringendo l’avversario alla stessa mossa. Il risultato è il doppio svantaggio per entrambi i giocatori. Questa è la logica del gioco del prigioniero.
L’alternativa è mirare consapevolmente a buttare all’aria tutto il banco. Ovvero cambiare gioco riuscendo ad imporlo all’avversario. Il referendum popolare per il rifiuto del compromesso offerto dalla Commissione europea è il tentativo di cambiare gioco, introducendo una risorsa che spiazza l’avversario – la legittimità della sovranità popolare.
A meno che proprio questo gioco non si rivolti contro chi l’ha proposto, contro il governo Tsipras. E’ questo l’esito che in cuor suo si augura la cancelliera Merkel. E allora forse farà anche qualche consistente sconto in più ai greci che vogliono rimanere cittadini europei.

Repubblica 30.6.15
Lucrezia Reichlin, ex dirigente della Bce
“Con l’uscita di Atene entrano in crisi le fondamenta stesse del progetto dell’Unione, e le colpe sono di tutti”
“Governo greco inetto ma questa Europa non sa dare speranza”
intervista di Enrico Franceschini


LONDRA . «Sulla Grecia hanno sbagliato tutti e da molto tempo, un compromesso ragionevole era possibile. Le riforme ad Atene sono necessarie per ridiscutere il debito ma imporre un’austerità estrema è impossibile perché corrode il capitale sociale di cui c’è bisogno per attuarle». È il parere di Lucrezia Reichlin, economista, ex-dirigente della Banca Centrale Europea, ora docente della London Business School – in passato indicata dalle indiscrezioni per un posto di vicegovernatore della banca d’Inghilterra e di ministro del Tesoro in Italia. «Spero che la Grecia risponda sì nel referendum, che poi faccia un governo di unità nazionale e che a quel punto la troika sia più flessibile, ma non vedo per ora le condizioni perché tutto ciò avvenga», dice la figlia di Alfredo Reichlin e Luciana Castellina in questa intervista a Repubblica .
Chi ha ragione e chi ha torto sulla Grecia? La Merkel, l’Fmi, la Ue o il governo greco?
«La colpa è di tutti. Certamente non solo della Grecia. La colpa principale sta nel non aver visto nel 2010 e poi nel 2012 che la Grecia non era solvibile e che si sarebbe dovuto ristrutturare il debito invece di rimandare il problema. Una volta fatto quest’errore, si è continuato a sperare che l’austerità avrebbe risolto il problema. L’errore più recente è non avere lavorato a un nuovo programma in cui, in cambio di un riprofilo del debito, si potesse cominciare a discutere di un ambizioso progetto riformatore da attuare in più anni. In realtà di riforme si è parlato ben poco in questo ultimo negoziato. L’enfasi è stata esclusivamente su questioni di tipo fiscale. Quello che si continua a non vedere è che le riforme sono incompatibili con una forma estrema di austerità perché corrodono il capitale sociale di cui si ha bisogno per attuarle. Detto questo, il governo greco si è dimostrato incapace di produrre proposte costruttive e si è dimostrato prigioniero delle fazioni opposte che lo sostengono».
Ha senso fare un referendum su una questione come questa?
«Il referendum non ha senso. Si vota su accettare o no la proposta dei creditori, un documento di 60 pagine!, proposta che non è più sul tavolo. In realtà questo è un voto sull’appartenenza all’euro, ma anche se prevalesse il sì, questa appartenenza non è garantita. Non si poteva pensare ad uno scenario più cupo o più surreale».
Si poteva evitare di arrivare a questo thrilling finale che tiene tutti con il fiato sospeso?
«Io penso di sì. C’è chi pensa in Europa – e questa voce si è sentita anche sui giornali italiani – che la Grecia debba essere punita per potere contenere altre spinte anti-euro in altri paesi. Io penso che si sarebbe dovuto fare l’opposto. L’Europa dovrebbe essere capace di dare a tutti una prospettiva di prosperità. Invece ha continuato a finanziare un paese in bancarotta ma allo stesso tempo imponendo un programma che ha ucciso l’economia e ridotto allo stremo la sua popolazione. In questo modo ha dato un segnale a tutti i cittadini europei di non avere né lungimiranza né forza politica per proporre un piano capace di dare speranza a chi ha pagato i prezzi più alti della crisi. Con l’uscita della Grecia entrano in crisi le stesse fondamenta del progetto europeo».
Possibile allora che non si possa trovare un compromesso ragionevole? E quale?
«Un consenso su cosa sarebbe stato ragionevole fare in realtà ci sarebbe stato. È riassunto ad esempio nel documento che ho redatto con i miei colleghi Papaioannou e Portes: certamente c’è bisogno di un riprofilo del debito ma questo deve essere fatto in cambio di un programma che si focalizzi sulla modernizzazione dello stato e del sistema giudiziario, oltre che da un piano sulle sofferenze bancarie. La sequenza delle riforme è importante».
In conclusione, lei cosa prevede che succederà?
«Non riesco a pensare ad uno scenario positivo, comunque vada il referendum. Auspicherei un sì, un governo di unità nazionale in Grecia e a quel punto una maggiore apertura della troika. Ma non vedo le condizioni affinché questo avvenga».
Che rischi ci sono per l’Italia?
«Non immediati. Ma certamente, una volta stabilito il principio che dall’euro si può uscire, tutti i paesi fortemente indebitati sono a rischio di attacchi speculativi».

La Stampa 30.6.15
Per la Merkel una leadership in crisi
“Se fallisce l’euro fallisce l’Europa”
La Cancelliera: spero che Atene non esca, serve un compromesso
di Tonia Mastrobuoni


Torna sempre utile, la storiella di Angela Merkel che durante le lezioni di nuoto saltava dal trampolino dopo la campanella, alla fine della lezione. Troppo tardi. Lo ha fatto più volte, durante l’interminabile crisi greca. Ma lo scorso fine settimana è stato fatale. Ieri ha riunito il partito, ha ricompattato la coalizione di governo dietro la linea del “falco” Wolfgang Schaeuble, ma la sua disfatta storica è sotto gli occhi di tutti. Sarà la “leader riluttante” di un’Europa titubante che ha permesso che la Grecia finisse sull’orlo del lastrico, rischiando di disgregare l’euro. Almeno, la festa per i 70 anni della Cdu non è stata allegrissima, ieri mattina.
All’ingresso del Konrad-Adenauer-Haus, il commissario europeo Oettinger ha dato il tono già la mattina presto, alla riunione del partito: «Vorremmo mantenere la Grecia nell’euro, ma non so se ci riusciremo».
A chi dare la colpa
Nel confronto con i cristianodemocratici, come è emerso più tardi, il tentativo di Merkel e Schaeuble è stato quello di sostenere che è tutta colpa del governo Tsipras - versione espressa anche in una lettera inviata dal ministro delle Finanze al partito.
Con la decisione di indire un referendum, ha detto Merkel, la Grecia ha interrotto le trattative. Il suo tentativo, in conferenza stampa, di sostenere che «oggi l’Europa può reagire in maniera più robusta rispetto a cinque anni fa» rasentava tuttavia il patetico, con le Borse in picchiata da Tokyo a Washington. La Cancelliera ha sottolineato che «l’Europa può esistere solo se è capace di fare compromessi», e «se fallisce l’euro, fallisce l’Europa».
Merkel ha aggiunto che l’Europa deve sempre trovare un equilibrio «tra solidarietà e responsabilità», soprattutto che «bisogna sempre trovare un compromesso» perché «nessuno può ottenere il 100%». La Cancelliera si è detta «disponibile» a riprendere il dialogo con Atene, dopo il referendum. Secondo la Cancelliera la Grecia ha il diritto di indire un referendum e la Germania ne accetterà il risultato.
La leadership del partito
Molto più duro della leader del Cdu, il vicecancelliere socialdemocratico Sigmar Gabriel. Accanto a Merkel in conferenza stampa - la Cancelliera ha anche incontrato i capi di tutti i partiti per informarli sul fine settimana brussellese più drammatico della storia dell’euro - il ministro dell’Economia ha detto che per la Grecia devono valere le stesse regole che per gli altri paesi europei. Gabriel ha accusato Tsipras di atteggiamento «ideologico» e ha detto che il referendum sarà una scelta del popolo greco sulla «permanenza nell’euro».
Dopo le tensioni delle ultime settimane nel partito, emerse quando erano circolate voci sulle possibili dimissioni di Schaeuble, Merkel ha deciso dalla scorsa settimana di restituire lo scettro della trattativa al suo ministro più importante.
Qualche sondaggio l’aveva anche data in discesa di qualche punto, rispetto ai suoi soliti, stellari indici di popolarità, a causa della disponibilità a trattare mostrata in queste ultime settimane. Ora che il negoziato sulla Grecia è naufragato, si è ripresa il partito. Ma la corona di regina d’Europa è piuttosto ammaccata.

Corriere 30.6.15
l’impresa difficile (ma possibile) di salvare le banche greche
L’ evoluzione della crisi greca dipenderà da Francia e Italia. Riusciranno Matteo Renzi e François Hollande a convincere soprattutto la Germania a fare un nuovo tentativo di mantenere la Grecia nell’euro?
di Wolfgang Munchau


Non si tratta di un nuovo pacchetto. La Grecia non accetterà un programma di risparmio dettato dall’esterno. Anche se il risultato del referendum di domenica fosse un sì, sarebbe comunque il governo di Alexis Tsipras a dover attuare l’eventuale programma. Oppure si andrà a nuove elezioni. In tal caso passerebbero almeno altre quattro settimane prima dell’insediamento di un nuovo governo. E poi, chissà, Tsipras potrebbe anche vincere le elezioni con una maggioranza superiore.
Se si riaprono le trattative, è opportuno affrontare la cosa in maniera del tutto diversa, concentrandoci solo sull’impedire l’uscita della Grecia dall’euro. Per i creditori della Grecia questa rappresenterebbe una perdita assoluta, che solo per l’Italia si aggira intorno ai 40-50 miliardi, a seconda di cosa si calcola. A questa cifra va aggiunto ancora il danno collaterale, di gran lunga più elevato, che ne deriverebbe. Per l’Italia in particolare si pone il quesito degli effetti sul dibattito interno. L’uscita dall’euro metterebbe le ali al M5S e alla Lega, soprattutto se a medio termine non dovesse rivelarsi poi così catastrofica come annunciato? Dal punto di vista di tutti gli europeisti, l’ideale sarebbe certamente evitare di dover dare una risposta netta a questa domanda. Pertanto oggi sarebbe nell’interesse di tutti limitare i danni. E l’unica possibilità che ci rimane sarebbe un taglio negoziato del debito greco, senza un nuovo programma, ma con un rifinanziamento delle banche. In altre parole, dovremmo accettare lo smacco di un consenso a una parziale rinuncia ai nostri crediti e della concessione di un ulteriore credito. Per quanto possa apparire folle, un passo di questo genere sarebbe invece razionale dal punto di vista dei creditori. Non per compassione o senso di responsabilità, bensì per interesse. La parola chiave è «parziale».
Innanzitutto occorre capire il motivo per cui esiste la minaccia del Grexit. Nessuna legge europea o greca stabilisce che chi non paga i propri debiti viene cacciato dall’euro. Il motivo sono le banche. Se lo Stato greco non paga più i suoi debiti, i titoli di Stato greci non valgono più nulla. Poiché una parte ingente del capitale delle banche greche è formata da titoli garantiti dallo Stato greco, il fallimento dello Stato si ripercuote direttamente sulle banche. La fuga strisciante dei capitali dei clienti delle banche greche in atto negli ultimi mesi esige un finanziamento d’emergenza da parte della Banca Centrale Europea, la quale tuttavia si scontra con i propri limiti sia giuridici che di fatto. Con una stretta sui finanziamenti si rischia il crollo delle banche. E se questo si verifica, il Grexit sarà deciso da una legislazione d’emergenza.
Per fortuna la soluzione del problema è semplice. Anziché concedere altri crediti alla Grecia, si possono dotare le banche di capitali freschi. Non si tratta di dare loro denaro; intendo che la Bce nella sua veste di organo di sorveglianza dovrebbe prendere le banche greche sotto la propria ala e procedere a una loro ristrutturazione, chiudendo le più deboli e sottoponendo le migliori a trasformazioni, fusioni o — ancora meglio — incorporandole in altre banche europee. I capi delle banche greche non sarebbero quindi più nominati dal governo; l’ideale sarebbe che gli istituti non fossero nemmeno più soggetti alla legislazione greca. A questo scopo occorrerebbe però una vera e propria unione bancaria europea, che purtroppo nell’ultimo anno l’Ue non è riuscita a realizzare.
Il salvataggio delle banche greche costerebbe naturalmente altro denaro, ma risolverebbe completamente il problema. Con la Grecia si negozierebbe un taglio del debito come contropartita. Le scadenze dei debiti nei confronti del Fondo monetario internazionale e della Banca centrale europea verrebbero prorogate, lo Stato greco non riceverebbe più nuova liquidità e non si realizzerebbe un terzo programma. Da quel momento i greci dovrebbero finanziarsi solo con le proprie entrate fiscali, inserendo nel proprio bilancio una piccola eccedenza, poiché nel futuro nessuno più farebbe loro dei prestiti. Anche questa soluzione comporta ovviamente il rischio di perdite, ma di portata inferiore e tutti ne trarrebbero vantaggio.
Tuttavia, per raggiungere questo obiettivo i creditori dovrebbero assumere una nuova visione politica. Un’occasione è offerta dal referendum greco, soprattutto nell’eventualità in cui vincano i sì. Sappiamo che Francia e Germania hanno pareri divergenti su questo tema, sebbene l’approccio francese sia nettamente più costruttivo. Renzi e Hollande, senza Merkel, dovrebbero ora avviare un’iniziativa di salvataggio, eventualmente tramite un’azione multilaterale senza l’appoggio della Germania. La Spagna potrebbe unirsi, magari solo dopo le elezioni parlamentari di dicembre. E chissà, forse alla fine anche la Germania collaborerà, perché non ama restare isolata. Con una vincita dei no, si prospetta una situazione più difficile, soprattutto se il risultato viene interpretato come un’accettazione politica del Grexit. Se i greci vogliono il Grexit l’avranno. Allora il compito politico sarà un altro. Anche in questo caso, saranno soprattutto l’Italia e la Francia a dover sostenere l’Unione monetaria con una vera e propria unione politica, senza la quale la moneta unica non è né sostenibile nel tempo, né democraticamente legittimata. E senza un’unione politica non possono esistere un’unione monetaria e nemmeno le banche. Infine per tutto ciò occorrono i trattati.
E a chi non vuole, qualunque siano le ragioni, andrebbe detto che l’Unione monetaria non è più nell’interesse dei cittadini europei. Si dovranno prendere decisioni alle quali ci si è sottratti negli anni precedenti. L’Italia sarebbe nella posizione per imporre questa scelta.
(traduzione di Franca Elegante)

La Stampa 30.6.15
La Cina
“Pronti a giocare un ruolo costruttivo”


«Abbiamo piena fiducia nell’Ue» e «la Cina è pronta a giocare un ruolo costruttivo». Così il premier cinese Li Kequiang al termine del vertice Ue-Cina sulla Grecia, sottolineando che la permanenza di Atene nell’euro è nell’interesse di tutti e che Pechino ha già «fatto i propri sforzi per aiutare la Grecia». Il premier cinese ha sottolieanto che, sebbene «in principio sia una questione interna» all’Europa, la questione della permanenza di Atene nell’eurozona «non riguarda solo l’Europa ma anche la Cina».

Il Sole 30.6.15
A Bruxelles il vertice Ue-Cina
Li: «Tenete la Grecia nell’euro»
di Beda Romano


L’appello del premier cinese ai partner Ue - «Vorremmo partecipare all’Efsi»
Non poteva svolgersi in una giornata peggiore per l’immagine dell’Europa il 17mo vertice bilaterale tra la Cina e l’Unione europea che si è svolto ieri qui a Bruxelles. Mentre la Grecia sta tenendo la zona euro drammaticamente in bilico, il premier Li Keqiang ha incontrato ieri il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Insieme, hanno discusso della crisi debitoria greca, di cooperazione economica e di diritti umani.
«Siamo pronti a lavorare con l’Europa per aumentare la cooperazione sul fronte degli investimenti: vorremmo partecipare al Fondo europeo per gli investimenti strategici», ha detto Li. «La Cina - ha aggiunto - è disposta a lavorare con il programma di investimenti dell’Ue per l’Europa e fare un passo avanti per lo sviluppo delle infrastrutture». Ancora una volta, tuttavia, il governo cinese non ha precisato quanto denaro sia pronto a versare nell’EFSI che nascerà con un capitale iniziale di 21 miliardi di euro.
Li ha colto l’occasione del vertice per assicurare l’establishment europeo che avrebbe continuato a detenere debito europeo, nonostante la drammatica crisi che sta colpendo la Grecia e potenzialmente la zona euro. Il gigante asiatico rimarrà «un detentore responsabile e di lungo termine del debito pubblico della zona euro», ha detto il primo ministro cinese durante una conferenza stampa, un esercizio che i dirigenti cinesi prefriscono tendenzialmente evitare in Europa. Riferendosi alla crisi greca, Li ha spiegato: «Non è solo un problema europeo, ma riguarda anche le reazioni cino-europee ed è un problema mondiale». Proprio a proposito della Grecia, un paese nel quale la Cina ha investito negli ultimi anni nonostante la crisi debitoria, Pechino ha confermato ieri che il paese «ha interesse» perché la Grecia rimanga nella zona euro. «Chiediamo ai creditori internazionali - ha precisato Li - di fare progressi e di raggiungere un accordo con Atene».
A una specifica domanda se la Cina fosse pronta a offrire prestiti alla Grecia, Li non ha risposto direttamente. Si è limitato a spiegare che l’obiettivo della Repubblica popolare è di avere una Europa “unita”, “prospera”, e un euro “forte”. Sempre a proposito della situazione in Grecia, ieri Mosca ha esortato Bruxelles a evitare «uno scenario nefasto» e spiegato di “capire bene” il premier Alexis Tsipras che nell’indire un referendum sulle ultime proposte di accordo con i cfreditori ha creato nuove tensioni tra Atene e Bruxelles.
Proprio in questa fase, Pechino sta premendo per poter ottenere lo status di economia di mercato, ma l’establishment comunitario vuole aspettare prima di concedere questa possibilità. «Sappiamo che la Cina è molto interessata ad ottenere questo status – aveva spiegato prima del vertice un funzionario comunitario –. Una scelta dovrà essere presa nel dicembre 2016 (quando scadrà un protocollo dell’Organizzazione mondiale del Commercio del 2001, ndr). Stiamo ancora analizzando la questione». La Cina è il secondo partner commerciale dell’Unione dopo gli Stati Uniti. Nel 2014, ha rappresentato il 14% del’interscambio europeo con paesi terzi. Sul fronte più politico, Tusk ha incoraggiato durante la conferenza stampa di ieri sera la dirigenza cinese a riprendere con i rappresentanti del Daila Lama «un dialogo che abbia senso». Il presidente del Consiglio europeo ha anche espresso «preoccupazione» per la situazione delle minoranze cinesi nel Tibet.

Corriere 30.6.15
«Andiamo da Alexis» Fassina e D’Attorre preparano le valigie Landini: sì alla rivolta
di Fabrizio Roncone


Atene, domenica, sede di Syriza: saranno tutti lì, da Stefano Fassina ad Alfredo D’Attorre, per aspettare i risultati del referendum indetto dal premier greco Alexis Tsipras.
Soccorso rosso.
Compagni, si parte.
Prove di mobilitazione in ciò che resta della sinistra italiana. Una scossa di vecchio istinto internazionalista scuote ribelli Pd e fuoriusciti, gruppettari e nostalgici rifondaroli, Sel in blocco, intellettuali affezionati a Karl Marx, comunisti veri, radical-chic malinconici come l’Orango di Sumatra.
Chi non parte, organizza cortei, sit-in, manifestazioni di sostegno. Il lider maximo della Fiom, Maurizio Landini, pensa a due eventi da tenere a Roma e a Milano. L’edizione on-line della rivista Micromega titola: «La democrazia non si svende e non si vende». Segue invito a firmare un appello in solidarietà con la popolazione della Grecia.
E Pippo Civati?
Pippo Civati sta decidendo (mai mettergli fretta).
Non come Stefano Fassina. Fassina ha deciso, fa discorsi duri, di piombo.
«La Bce ha lasciato ai greci solo la possibilità di scegliersi il tipo di suicidio: o politico, o economico».
Continui.
«Vogliono umiliare Tsipras e far tornare al governo i servi che c’erano prima. In alternativa, li costringono ad uscire dall’euro...».
Le ricordo, Fassina, che ci sono state trattative lunghe, e Tsipras non sempre è sembrato...
«Sciocchezze! Hanno scelto la Grecia per dare una lezione esemplare, affinché nessuno osi più mettere in discussione l’interesse nazionale tedesco e il dominio dell’aristocrazia finanziaria che domina l’Europa, Italia compresa».
Le ripeto: Tsipras, a numerosi osservatori, non è parso impeccabile.
«Può aver commesso qualche errore di comunicazione... poi è stato leale con i suoi elettori. Il referendum è una prova di democrazia... Andremo a seguirlo da vicino. Saremo io, D’Attorre...».
Come finirà?
«Previsione impossibile. Sul popolo greco faranno pressioni inaudite»).
I toni sono questi. I ragionamenti si spengono dentro presagi cupi. Niente a che vedere con l’atmosfera di pochi mesi fa: al teatro Valle occupato, a Roma, quando il compagno Alexis salì sul palco (parlando in greco, non in inglese: la lingua del capitalismo) e ad ascoltarlo raggianti c’erano Sabina Guzzanti e Nicola Piovani, Carlin Petrini e decine di quelli che avevano già votato, alle europee, per la lista «L’altra Europa con Tsipras» (eletti Curzio Maltese, Eleonora Forenza e Barbara Spinelli, poi dimissionaria in un rogo di polemiche). Applausi, grida di evviva, un nuovo orizzonte era possibile con le inevitabili raccolte di appelli con dentro firme varie, da Furio Colombo a Moni Ovadia, da Andrea Camilleri a Carlo Freccero.
L’entusiasmo è sparito, però resiste una certa speranza.
Sentite Landini.
(«La Grecia è la nostra ultima barricata contro le politiche di austerità. Che, finora, hanno prodotto 26 milioni di disoccupati...».
Mi piacerebbe sentirle dire, segretario, che la Grecia paga anche errori dei precedenti governi e che Tsipras ha fallito...
«Tsipras è solo stato fedele al mandato per il quale è stato eletto! Tra l’altro è falso che voglia uscire dall’euro: cerca solo di negoziare, come è del tutto legittimo, condizioni più favorevoli per la sua gente».
Ora, però, è in un angolo.
«Comincio a cogliere, qua e là, un certo senso di soddisfazione... come se ribellarsi alle regole della Bce sia un reato. La verità è che Tsipras guida una rivolta che dev’essere anche nostra») .
Mettendo su una smorfia di soddisfazione, Tsipras disse alla platea del teatro Valle: «Berlinguer, Togliatti, Gramsci. Per anni abbiamo guardato alla sinistra italiana. Ora, però, le cose sono cambiate... e siete voi che guardate a noi».

Corriere 30.6.15
Le opposizioni attaccano l’Ue ma il bersaglio è il governo
di Massimo Franco


La crisi greca non sta tanto facendo emergere la solidarietà o l’ostilità nei confronti di Syriza. Piuttosto mostra l’estensione e la trasversalità dei movimenti anti-euro e anti-tedeschi in Italia. Il rischio di un collasso finanziario di Atene dopo le trattative con l’Ue è l’occasione-principe per rilanciare parole d’ordine populiste; stavolta rilegittimate emotivamente dal fallimento di un’ipotesi di accordo. La Grecia è un catalizzatore di affinità quanto l’immigrazione, la questione morale, il terrorismo: tutti in chiave antigovernativa.
Il premier Matteo Renzi avverte che si tratta di un «derby tra euro e dracma», la vecchia moneta greca. Ma si ritrova accerchiato da un «partito anti-euro» e «anti-Merkel» che va dal M5S a FI e alla Lega di Matteo Salvini, passando per la sinistra del Pd. Sono forze d’opposizione che tendono a raffigurare il primo ministro Alexis Tsipras come un eroe del popolo tradito dai creditori e dalla cancelliera tedesca. Il minimo comune denominatore di questi atteggiamenti è una carica anti «Europa dei burocrati» di facile presa, anche per gli errori commessi; e con il governo come bersaglio .
L’accusa, da sinistra e da destra, è di avere lasciato solo Tsipras; e di non contare nulla sul piano internazionale. Una critica insidiosa, perché Palazzo Chigi ha compiuto da tempo un passo indietro sulla Grecia: non si capisce se volontariamente o anche come conseguenza di una debolezza in politica estera. Il fronte degli avversari è tanto composito quanto compatto. E per un governo preoccupato soprattutto di arginare un’eventuale speculazione finanziaria, avere una strategia che sconfigga questa doppia pressione è difficile. Il pericolo di un contagio esiste: lo attesta lo spread in rialzo.
Passa inosservato un dettaglio fondamentale: i più strenui nemici di un compromesso non sono i tedeschi, quanto spagnoli, sloveni, portoghesi, irlandesi, come ha ricordato al Corriere il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan: nazioni che hanno adottato misure dolorose, e non vogliono che l’Ue ceda al populismo. Significherebbe rafforzare le forze antieuro, dal M5S allo spagnolo Podemos, ai nazionalisti dell’Est europeo. Pochi si pongono il problema di questi partiti di demagoghi dilettanti, che vincono le elezioni, magari aiutati dall’astensionismo. Ma non sanno governare.
Su uno sfondo segnato da una forte emotività, tende a prevalere non l’analisi delle cause, ma lo sdegno per le conseguenze disastrose. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, sta richiamando un po’ tutti alla coesione nazionale. Perfino il suo appello, però, rischia di essere usato strumentalmente. Ieri FI ha chiesto al premier di convocare «presto, aderendo alla richiesta di Mattarella, il tavolo per le crisi internazionali». Ma se diventasse solo un pretesto per polemiche interne, sarebbe l’ennesima occasione sprecata .

il Fatto 30.6.15
Oggi torna l’Unità (e Matteo scrive ai “cari compagni”)


A QUASI UN ANNO dallo stop alle pubblicazioni, oggi torna in edicola l’Unità, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Il ritorno è stato annunciato da Matteo Renzi in una lettera inviata agli iscritti del Pd (“Cari compagni e amici”, l’incipit): riportare il quotidiano in edicola ha scritto “era un mio impegno personale, oggi è una promessa mantenuta”. Il giornale avrà una soglia di sopravvivenza tarata a 20 quote, oggi per l’occasione ne tirerà 250 mila. Direttore è Erasmo De Angelis, ex Rai, ex Manifesto, che ha appena lasciato la guida della struttura di missione di Palazzo Chigi contro il dissesto idrogeologico. Tra le prime iniziative annunciate: una campagna su Roma come “antimafia Capitale” e la pubblicazione a puntate dell’enciclica firmata da Papa Francesco. Dal punto di vista societario, L’Unità Srl è all’80% di proprietà della Piesse (degli imprenditori Stefanelli e Pessina), mentre il restante 20% appartiene alla Fondazione Eyu, che fa capo al Pd che, per usare le parole del tesoriere Francesco Bonifazi, “ha deciso veramente di metterci la faccia”. In redazione ci sono 29 giornalisti e 4 poligrafici, che saliranno a 8 entro i prossimi 6 mesi.

Corriere 30.6.15
Camusso manda gli ispettori a Milano Verifica sui fondi, tensioni nella Cgil
I sospetti che ad ex sindacalisti siano state finanziate campagne elettorali con il Pd
di Alessandra Coppola, Maurizio Giannattasio


MILANO Lunga e calda s’annuncia l’estate della Cgil a Milano. Dopo aver «visitato» la Camera del Lavoro, gli ispettori da Roma sono tornati in città, questa volta per verificare la contabilità dello Spi, il sindacato pensionati.
Perché? La versione ufficiale è contenuta in una nota diramata dalla segreteria nazionale dieci giorni fa, alla quale (interpellati) non aggiungono nulla: è routine, nessun evento straordinario. «Da sempre la Cgil tutela e vigila su trasparenza e corretta gestione amministrativa delle proprie strutture (...) grazie ad una attività ispettiva che si svolge regolarmente». L’appunto poi spiega che nel caso in cui vengano riscontrati errori «scatta la prescrizione a correggere»; se nel rapporto conclusivo si evidenziassero invece «comportamenti di carattere doloso, i responsabili incorrono senza eccezione alcuna nelle sanzioni disciplinari». È un testo anodino, ma proprio per questo appare severo o quanto meno poco empatico con i dirigenti milanesi. Con i quali non c’è mai stata sintonia.
Non è un mistero, anzi è uno scontro decennale e aperto. Tra la segreteria nazionale e regionale da una parte e quella cittadina dall’altra, c’è tradizionalmente una divergenza. Innanzitutto politica, col tempo anche personale. Ora che il segretario generale è Susanna Camusso, già alla guida della Cgil Lombardia, dicono alla Camera del Lavoro che il conflitto si è allargato anche sull’asse Roma-Milano.
Dicono, da più parti, anche altre cose, non facilmente verificabili. Per esempio che ci sia stata una «soffiata» con la denuncia di presunti ammanchi di cassa tanto alla Camera del Lavoro quanto allo Spi. Dicono che questi buchi siano stati giustificati con finanziamenti, si suppone non trasparenti, alle campagne elettorali dei dirigenti locali che hanno fatto (anche in questo caso secondo tradizione) il salto dal sindacato alla politica. E in questi anni sono stati tanti, da Antonio Panzeri, europarlamentare, a Giorgio Roilo, senatore, a Onorio Rosati, consigliere regionale.
Tutto da dimostrare. Nell’attesa della relazione degli ispettori sale, però, una temperatura da ebollizione, e aleggia un’aria da resa dei conti con possibili capitomboli e uscite di scena.
Il segretario generale della Camera del Lavoro, Graziano Gorla, è come sempre cordiale, ma non nasconde un certo nervosismo per le chiacchiere che girano attorno alla cassa: «Tante illazioni per normali ispezioni da Statuto. Ammanchi non ce ne sono», scandisce. Vero è che il responsabile dell’amministrazione (il tesoriere, ndr ) proprio di recente è stato sospeso: «Ho dato l’incarico a un’altra persona — spiega Gorla — con l’idea di promuovere il cambiamento».
Brutto segno anche che alla Conferenza di organizzazione oggi a Milano arrivi un «emissario» della segreteria nazionale. Non è un ortodosso camussiano, ma qualcuno lo interpreta come un segnale verso il «commissariamento». Potrebbe intervenire direttamente Camusso in questa disputa. Non lo farebbe, dicono ancora, perché non è nel ruolo del segretario generale delegittimare la propria stessa struttura. Da Roma, allora, la linea è il silenzio e la parola (scritta) agli ispettori.
Pessimo clima, però. Che dà occasioni a dispute personali, a ricatti, a tentativi di infangare nemici. Di qui a vent’anni fa, perché i controllori stanno sfogliano i libri indietro fino al ‘94.
Onorio Rosati, già segretario della Camera del Lavoro dal 2006 al 2013 e oggi consigliere regionale pd, s’è sentito chiamato in causa sui giornali e «smentisco categoricamente ogni illazione». Del resto, fa notare, «se fossero state avviate indagini amministrative su di me, sarei stato chiamato». Così non è stato. A coinvolgerlo sono state solo non meglio identificate «voci», forse «sassolini nelle scarpe che qualcuno ha voluto togliersi...». Sembra che ai dubbi amministrativi si sia sommata una vecchia questione politica. «La sede per discutere non è l’ispezione — risponde — ma il direttivo nazionale». Rosati chiede allora che «quando ci sarà il verbale degli ispettori, venga reso pubblico». E si diradi questa cappa di sospetti.

Corriere 30.6.15
Il premier e il piano per il nuovo Pd: lo riorganizzerò, serve gente capace
Il leader: basta con le divisioni. E spiega ai suoi: alla sinistra radical chic non piaccio
di Maria Teresa Meli


ROMA La sua attenzione, ora, è rivolta tutta alla Grecia, con qualche sguardo ironico anche a chi, in Italia, dentro e fuori il Pd, lo attacca pur di riuscire a tramutare «in bega domestica» una situazione «internazionale drammatica», ma prossimamente, Matteo Renzi ha intenzione di mettere mano al partito.
Intanto, una prima tappa è rappresentata dalla «ripartenza» del quotidiano l’Unità , che da oggi sarà nuovamente nelle edicole, diretta da un fedelissimo del premier, Erasmo D’Angelis. È un piccolo passo iniziale, ma il traguardo finale, come spiega lo stesso presidente del Consiglio, è quello di «organizzare meglio il Pd», di mettere ai suoi vertici «gente capace», perché «le amministrative non sono lontane» e «non possiamo fallire l’obiettivo».
«Ora — è l’ammonimento del segretario-premier — bisogna andare avanti anche con più decisione». Renzi lo ha spiegato chiaramente ai suoi collaboratori: «Contro di noi non c’è un vento unitario nazionale, ma non possiamo nasconderci che il risultato delle regionali e delle ultime amministrative è stato politicamente negativo e questo non dovrà più ripetersi».
Per questa ragione in vista delle elezioni del 2016 in capoluoghi di regione importanti come Milano, Torino, Napoli, Bologna e Genova e, forse, anche Roma, Renzi ha deciso di «riorganizzare il Pd», perché finora, ha spiegato ai fedelissimi, «è inutile negarselo, era organizzato male. E non è questione di partito solido o liquido, quelle sono stupidaggini».
Il presidente del Consiglio non ha ancora chiarito nemmeno ai suoi che cosa intenda veramente fare, quali sono le innovazioni che ha in mente e ha rinviato al prossimo autunno le decisioni finali.
Ma in un autunno non troppo lontano «perché i tempi sono quelli che sono».
Bisogna vedere se la minoranza interna vorrà dare una mano. O se, piuttosto, preferirà giocare d’ostruzionismo.
Secondo Renzi, «il governo è una macchina in grado di correre» e il Partito democratico deve fare altrettanto. E in questo senso la minoranza deve capire che «i nostri non ne possono più delle divisioni interne», «sono stufi delle liti».
Infatti, lo stesso premier, che pure non è un tipo morbido è andato alla mediazione sulla riforma costituzionale.
Ciò nonostante Renzi sa bene che la partita con i suoi oppositori interni non è facile. Ha letto i discorsi di Roberto Speranza, ha visto che l’ex capogruppo, piuttosto che scegliere una via autonoma ha preferito farsi incoronare leader della minoranza da Pier Luigi Bersani.
E, soprattutto, il premier sa che «loro hanno deciso che io non sono di sinistra». Lo ripete spesso nei conversari con i collaboratori e gli amici più fidati. Come ripete spesso di «non essere mai piaciuto alla sinistra radical chic ».
E su questo punto è difficile dagli torto perché certamente in quegli ambienti né nei prima, né tanto meno adesso il premier ha mai «sfondato». Quello che di Renzi convince meno la minoranza e quelli che lui definisce i radical chic, è il suo tentativo di allargare la platea degli elettori, senza limitarsi a corteggiare solo chi ha sempre votato per il centrosinistra.
Ma su questo punto il premier non ha dubbi: «Se non vinco al centro resteremo sempre all’opposizione». Ed è proprio ispirandosi a questo suo profondo convincimento che intende costruire il nuovo partito e la nuova classe dirigente.
Per il momento almeno Renzi non sembra nutrire il timore che questo suo percorso politico possa avvantaggiare chi, a sinistra, sta cercando di costruire un nuovo soggetto politico. «Fuori dal Pd non c’è nessuna prospettiva di vero cambiamento»: è questo un altro radicato convincimento del segretario premier.

Corriere 30.6.15
Dagli eletti dem 7,5 milioni al partito in media 18 mila euro a parlamentare
di Francesco Di Frischia


ROMA Oltre 7 milioni e mezzo da ministri, parlamentari renziani e pure dalla minoranza. È questo il tesoretto del Pd, versato soprattutto da deputati e senatori dem a sostegno delle casse del partito. Nell’ultimo bilancio chiuso al 31 dicembre 2014, si scopre che i conti si reggono grazie alla generosità dei singoli eletti. Il totale delle donazioni ammonta a 7.536.011 euro: l’anno scorso, in media, ciascun contribuente ha sborsato circa 18 mila euro. Scorrendo le cosiddette «libere contribuzioni soggette alla dichiarazione congiunta», spicca l’obolo dei ministri che hanno raccolto ben 129.500 euro: nell’elenco figurano, tra gli altri, Maria Elena Boschi (Riforme costituzionali) che nel 2014 ha versato 23.000 euro; Paolo Gentiloni (Esteri - 18.000); il sottosegretario Luca Lotti (23.000); Mariana Madia (Pa - 19.000); il Guardasigilli Andrea Orlando (18.000); Roberta Pinotti (Difesa - 10.500); Dario Franceschini (Cultura - 18.000). E ancora: il tesoriere Francesco Bonifazi (altri 32.920); il presidente del Pd, Matteo Orfini (18.000) e il numero due di largo del Nazareno, Lorenzo Guerini (16.500). Tra i finanziatori ci sono pure il neocapogruppo a Montecitorio, Ettore Rosato (42.000) e il presidente dei senatori, Luigi Zanda (18.000). Consistente il contributo anche da parte della minoranza interna: sempre nel 2014 uno dei parlamentari che hanno appena lasciato il Pd, Pippo Civati, ha versato 18.000 euro come altri due fuoriusciti, Stefano Fassina e Monica Gregori. Il Pd ha ricevuto finanziamenti anche da parte di imprese (in tutto 184.000 euro) che sono arrivati, tra l’altro, dalla National Laundry, società specializzata in lavaggi industriali, dalla Ferrarini, che produce salami e prosciutti, e dalla Pessina Costruzioni.

La Stampa 30.6.15
Tre Regioni a rischio per le faide del Pd
di Marcello Sorgi

Con il ricorso presentato ieri mattina da Vincenzo De Luca contro la sospensione inflittagli da Renzi, la crisi della Regione Campania è approdata in Tribunale. Epilogo peggiore non poteva esserci, per una questione politica assai complessa come quella generata dalla candidatura a tutti i costi, e dalla successiva vittoria, del governatore, pur consapevole dei guai che si portava dietro. Ora De Luca spera che i giudici, conformemente a quanti hanno fatto per il sindaco De Magistris, decidano la “sospensiva della sospensione”. Ma è evidente che si tratta di due casi diversi: in quello del sindaco, infatti, si trattava di rimettere in carica De Magistris, giunto quasi a metà del mandato, applicando il metodo stabilito dalla Cassazione che aveva affidato alla magistratura ordinaria, e non a quella amministrativa, l’esame del problema. In quello di De Luca, che non ha ancora preso possesso del suo incarico, i giudici dovrebbero in pratica insediarlo, annullando la decisione del governo che ha applicato la legge Severino, e togliendo le castagne dal fuoco a De Luca e allo stesso Renzi. Possibile, certo. Ma quanto mai arduo, dato che già ieri il rinvio dell’inizio dei lavori del consiglio regionale ha provocato reazioni durissime delle opposizioni, e la polizia è dovuta intervenire per impedire l’ingresso nella sede istituzionale a consiglieri eletti legittimamente, a differenza del governatore ancora in attesa di una sentenza.
Che la vicenda della Campania potesse portare degli strascichi, in caso di vittoria di De Luca, forse il premier lo aveva messo in conto; ma non fino a questo punto. Tra l’altro in un contesto che giorno dopo giorno vede esplodere faide a livello locale in un Pd ridotto peggio di come si sapeva, e per nulla migliorato dopo un anno e mezzo di cura Renzi. Dal Piemonte in cui Chiamparino minaccia di dimettersi perché s’è trovato coinvolto in una vicenda di firme di lista false o dubbie raccolte dalla struttura del Pd, simile a quella che aveva fatto cadere il suo predecessore Cota, alla Sicilia in cui lo scontro tra il sottosegretario renziano Faraone e il governatore Crocetta spinge il Pd a minacciare una mozione di sfiducia contro il presidente della regione. Ragionando sul peggiore dei casi, che è sempre una buona regola in politica, a novembre potrebbero svolgersi elezioni anticipate in Piemonte, Campania e Sicilia: regioni governate dal centrosinistra o appena conquistate dal Pd, che avrebbe non poche difficoltà a riconquistare le amministrazioni. E non parliamo di Roma.

Corriere 30.6.15
I rottamatori del Porcellum contro l’Italicum: premio di maggioranza incostituzionale
I ricorrenti citano anche l’«abusività» degli eletti: premier sostenuto da un Parlamento «illegittimo»
di Monica Guerzoni


ROMA Gli avvocati che rottamarono il Porcellum ci riprovano. Sul banco degli imputati questa volta c’è l’Italicum, che il quartetto di legali ritiene «quasi peggio» della legge ideata da Roberto Calderoli e dichiarata incostituzionale nel 2014 dalla Consulta. Convinti che l’era renziana stia precipitando il Paese in un «periodo di oscurantismo costituzionale», Emilio Zecca, Claudio Stefano Tani, Aldo Bozzi e Ilaria Tani hanno depositato al Tribunale civile di Milano un atto di citazione, con il quale invitano a costituirsi in giudizio il premier Renzi e il ministro Alfano.
Il presupposto del documento, lungo 38 pagine, è la convinzione che il mancato rispetto della sentenza che abolisce la legge del 2005 abbia provocato la «permanente anomalia costituzionale» del sistema politico, al centro del quale c’è un Parlamento «formato con norme illegittime». I legali chiedono in via istruttoria al Tribunale di acquisire l’elenco dei parlamentari eletti nel 2013 con il Porcellum e quello dei candidati che sarebbero stati proclamati eletti senza quei premi di maggioranza, oltre agli elenchi dei parlamentari cessati dalla carica. E questo «perché la Corte costituzionale possa verificare la legittimità della prassi seguita».
La presunta «abusività» degli eletti è il chiodo fisso del quartetto, che imputa al ceto politico l’aver fatto «scordare» agli italiani l’incostituzionalità dei premi di maggioranza, così da evitare una «figuraccia colossale». Un vulnus che, in punta di diritto, si potrebbe sanare solo sostituendo i parlamentari con altri, ricalcolando i voti e depurandoli dal premio. Operazione complessa, che rischierebbe di modificare la composizione politica delle Camere e quindi la maggioranza di governo. Il domino coinvolgerebbe anche quei parlamentari che hanno lasciato il seggio italiano per volare in Europa, dopo la sentenza della Corte sul Porcellum.
Il nodo è dunque la «grave alterazione della rappresentanza democratica» determinata da un premio ritenuto causa di tutti i mali: «È grave che il governo Renzi con l’Italicum abbia espresso la volontà di reiterare le norme già dichiarate incostituzionali». Il premier governerebbe insomma «con una maggioranza artificiosa e illegale» che non gli impedisce «di dar vita a una nuova legge che assicura la perpetuazione del potere al di fuori di ogni scrupolo di rispetto per la Carta costituzionale».
Dopo aver scritto (senza ottenere risposta) a Boldrini e Grasso e poi a Napolitano e Mattarella, gli avvocati tentano la via delle carte bollate con l’intento, spiega Zecca, di «risvegliare il dibattito» sull’Italicum: «Dopo che la Corte lo aveva “desuinizzato”, il Porcellum era una legge perfetta, ma non era quella che Renzi voleva». L’Italicum sarebbe inoltre gravato da cinque «vizi di costituzionalità», che vanno dai capilista «indicati dai partiti» al fatto che la Camera potrebbe risultare composta da più di 630 deputati, forse 640. Se l’atto di citazione sarà accolto, il Tribunale potrà inviarlo alla Corte costituzionale. Prima udienza, tra novembre e dicembre.

Il Sole 30.6.15
Rajoy: Podemos è come Syriza
di Luca Veronese

Il premier spagnolo difende la bontà del suo programma economico: noi siamo seri
Per Mariano Rajoy, Syriza e Podemos sono la stessa cosa. Per il premier spagnolo le rivendicazioni di Alexis Tsipras sono le stesse dell’indignado Pablo Iglesias. Il premier spagnolo ha ribadito che quelle del suo governo sono «politiche serie», «misure che creano occupazione e crescita», in netta contrapposizione con le «politiche non molto serie», di Podemos-Syriza, che stanno portando la Grecia al default «e che oggi impediscono ai greci di ritirare i loro soldi dalle banche».
Da un lato Rajoy cerca di rassicurare gli investitori marcando la differenza tra Spagna e Grecia, dall’altro attacca Syriza per colpire Podemos, ammettendo così di avere in casa propria un problema politico: la sua leadership è in discussione, l’alternanza tra i due grandi partiti, quello popolare e quello socialista sembra appartenere al passato, a rompere l’equilibrio - lo si è visto anche nel recente voto amministrativo - è soprattutto la crescita del movimento anti-sistema guidato da Iglesias.
Rajoy ha convocato ieri una riunione straordinaria del gruppo di crisi economica del governo per verificare la tenuta del Paese di fronte all’eventuale Grexit. E ha poi telefonato al capo dell’opposizione socialista Pedro Sanchez per informarlo sugli sviluppi della crisi. «La Spagna e gli spagnoli possono stare tranquilli perchè negli ultimi anni con i loro sforzi abbiamo fatto le riforme necessarie a garantire la stabilità», ha detto il premier.
Rajoy è stato fin dal principio uno dei più feroci critici dell’ascesa di Syriza ad Atene. A dividerlo dalla sinistra greca al governo sono certamente le posizioni politiche oltre a una diversità, quasi antropologica, che viene da lontano e si manifesta soprattutto in questi giorni nella visione dell’Europa. Per Rajoy, uomo di potere e di tradizione, l’Unione europea è quella della tedesca Angela Merkel, alleata decisiva della Spagna durante tutta la lunga crisi economica, conquistata dalla diligenza di Madrid nel seguire le indicazioni della troika. Mentre Tsipras - e i cugini di Podemos - sono movimenti anti-sistema per definizione, sulle barricate per necessità, convinti che a Bruxelles si debba cambiare tutto: vogliono «l’Europa delle persone contro l’Europa delle banche» come urlano i loro sostenitori nelle strade, non solo in Grecia e in Spagna.
Il premier spagnolo vede Syriza in difficoltà, ma non può avere alcuna soddisfazione perché è troppo forte, in queste ore, la paura che il contagio dalla crisi greca possa arrivare a tutti i Paesi della costa mediterranea. Continua a gettare acqua sul fuoco ma teme che la pressione dei mercati possa mettere nei guai la Spagna, come accadde a metà del 2012 quando fu costretto a chiedere il salvataggio internazionale per evitare il crack del sistema finanziario nazionale. Ma Rajoy guarda al voto di fine anno nel quale si giocherà la riconferma alla Moncloa e più che i socialisti, proprio Podemos sembra insidiare il suo governo.
L’incertezza della lunga campagna elettorale non piace agli investitori, e anche l’accostamento di Syriza a Podemos - caro a Rajoy - finisce per avvicinare anche l’intera Spagna alla Grecia, almeno nella semplificazione dei mercati. «L’impatto finanziario diretto di un default della Grecia sull’economia spagnola è quasi certamente gestibile», secondo Peter Schaffrik, di Rbc Capital Markets, ma ciò che può diventare rilevante e pericoloso per la Spagna - aggiunge l’analista - è la sensazione che si fa breccia tra gli investitori: «È successo alla Grecia, perché non può accadere alla Spagna? Questo possono cominciare a pensare gli investitori. Anche la Spagna ha un debito pubblico elevato, c’è Podemos, le elezioni generali si avvicinano. In realtà non credo che la Spagna abbia molto da temere, lo scenario greco è molto improbabile per Madrid ma nessuno può escluderlo del tutto».
Il balzo degli spread che anche ieri come nelle scorse settimane ha accompagnato ogni intoppo nella trattativa tra la Grecia e i creditori internazionali mette pressione ai Paesi dell’Europa periferica: a cominciare da Spagna e Portogallo - dove pure si voterà a fine settembre - che sono esposte nei confronti del governo ellenico per rispettivamente 26 e 5 miliardi di euro.
«I dati sulla crescita, il controllo del deficit e il surplus nella bilancia dei pagamenti proteggono l’economia spagnola da un processo di contagio, la situazione è completamente diversa rispetto al 2011, la Spagna è blindata», ha affermato il ministro spagnolo dell’Economia Luis de Guindos. «Il punto fondamentale» non è il contagio di vari Paesi europei, «ma l’integrità del progetto dell’euro che va preservata», ha detto ancora de Guindos criticando la «decisione unilaterale greca» di convocare un referendum, ma dicendosi fiducioso che un accordo tra Bruxelles e Atene possa ancora essere trovato entro la mezzanotte di oggi: «Sono fiducioso che prevarrà la razionalità, un accordo con la Grecia sarebbe meglio per tutti, specialmente per la Grecia», ha detto.
Il ministro delle Finanze portoghese, Maria Luis Albuquerque, ha riconosciuto che la rottura nei negoziati sulla Grecia ha creato «una situazione mai vissuta nel passato» ma di fronte agli altri ministri dell’Eurozona ha detto che «in Portogallo non c’è particolare preoccupazione per un eventuale contagio perché il Paese dispone di riserve finanziarie per vari mesi», «che ci permettono di far fronte anche a uno scenario di difficile accesso al credito».
Le parole rassicuranti dei governi stridono in modo lacerante con le dichiarazioni dirompenti dei leader di Podemos. «La crisi greca - ha detto ieri Iglesias - è il risultato di un’operazione mafiosa di terrorismo finanziario» e «il blocco delle trattative è dovuto a un intervento diretto del direttore dell’Fmi Christine Lagarde, appoggiata dalla cancelliera Angela Merkel, e stranamente dal governo spagnolo». «Chiedono al governo greco che tagli le pensioni, aumenti l’Iva, l’elettricità, il latte», ha aggiunto Iglesias denunciando «l’inaccettabile ricatto con il quale Fmi-Bce-Eurogruppo vogliono far cadere il governo di Alexis Tsipras».
Lo scontro con Rajoy è frontale sul rischio contagio: «I Paesi del Sud, Italia, Spagna, Portogallo e Francia, devono essere consapevoli - dicono da Podemos - che la sorte della Grecia è la sorte di tutti». Perfino la solidarietà espressa da Rajoy alla Grecia segnala che il contagio da Atene è già arrivato da tempo: nel confronto politico prima che nei mercati.

La Stampa 30.6.15
Tunisia
“Noi scudi umani per fermare la follia omicida”
di Gra. Lon.


«Je suis Sousse». Non dobbiamo dimenticarlo, perché grande è il cuore del popolo tunisino. Immensa la sua generosità, anche a costo della vita. Basta guardare la foto del terrorista con il kalashnikov a tracolla sulla spiaggia. Vedete le persone dietro di lui? Sembrano testimoni passivi. Immobili, annientati dal male e dalla paura. Inerti di fronte alla furia omicida del ragazzo. E invece no. Sono lo scudo umano che ha salvato altre vite innocenti, altri turisti. Diversi siti di giornali francesi e inglesi riportano la testimonianza di alcuni bagnanti che spiegano quello che è avvenuto dopo la mezz’ora di mattanza sulla spiaggia del Riu Imperial. «L’assassino stava andando in un’altra spiaggia a uccidere altra gente - dice ad esempio il superstite inglese John Yeoman - ma glielo hanno impedito quei tunisini.
Hanno fatto una catena, mano nella mano e gli hanno impedito di passare mettendo a rischio la loro vita. Gli hanno urlato «Ti devi fermare, se vuoi ammazzare altra gente devi ammazzare prima noi. E noi siamo musulmani»». Seiffadine Rezgui, come sappiamo, li ha risparmiati. Ma non è neppure riuscito a passare oltre per scaricare il suo odio, alimentato dall’uso di sostanze stupefacenti, contro i «peccatori occidentali».

Corriere 30.6.15
Il leader islamico tunisino: «Sull’Isis tolleranza zero»
Il moderato Ghanouchi: «L’Occidente ci aiuti contro gli estremisti»
di Lorenzo Cremonesi


«Attaccano la Tunisia, la vogliono mettere in ginocchio perché è un Paese che con successo sta conducendo la transizione verso la democrazia e ha ottimi rapporti con l’Europa. Noi reagiamo. Ma abbiamo bisogno del vostro aiuto. Vanno coordinati gli sforzi tra le due sponde del Mediterraneo. Isis rappresenta un pericolo mortale per la pace mondiale e dobbiamo combatterlo assieme». Rachid Ghanouchi tende le mani all’Europa. A 74 anni è leader storico di Ennahda, il movimento islamico tunisino che si autodefinisce «non violento». Il suo partito è nella compagine governativa e lui fa del suo meglio per ribadire che esiste un «Islam moderato».
Il governo tunisino chiude temporaneamente almeno 80 moschee, ordina nuove misure di polizia, cosa ne pensa?
«Voglio prima di tutto esprimere il mio cordoglio per le vittime del terrorismo e solidarietà alle famiglie in Europa. Ovvio che sostengo le misure di polizia adottate dal governo, il mio partito le ha votate unanime. Ma il nostro approccio deve essere comprensivo. Il terrorismo è un fenomeno complesso, non si batte solo con la repressione, bensì con l’educazione nelle scuole, la predicazione nelle moschee, il lavoro sull’opinione pubblica».
Nel passato Ennahda è stata imputata di mantenere un atteggiamento ambiguo nei confronti degli estremisti islamici. Lei è pronto a condannare senza riserve Isis, a impegnarsi per la sua totale eliminazione?
«Ma certamente! Condanno Isis con tutto il cuore, senza eccezioni. Ennahda del resto lo ha sempre fatto sin dai tempi dell’11 settembre 2001. Per me è quasi banale ripetere che siamo noi musulmani moderati le prime vittime del terrorismo jihadista».
E i tre o quattromila tunisini partiti volontari per unirsi all’Isis?
«Non so quanti siano. Magari il numero è esagerato. Comunque sono pericolosi, vanno combattuti, senza tregua».
Perché attaccano in Tunisia?
«I terroristi fanno di tutto per paralizzare i nostri successi. La vittoria della nostra democrazia, la convivenza pacifica tra laici e religiosi fanno paura, danno fastidio a Isis. Inoltre vogliono boicottare nel sangue i nostri forti rapporti economici con l’Occidente».
C’è un’unica regia negli attentati?
«Lascio la parola agli investigatori. Penso però che gli attacchi facciano parte dello stesso fenomeno. Isis intende dimostrare che non ha confini, può colpire ovunque in qualsiasi momento per diffondere panico e caos».
Come batterli?
«Soltanto uno sforzo comune può condurre a risultati concreti. Mondo arabo, Europa, Comunità internazionale, dobbiamo coordinare le nostre intelligence, le polizie, i militari. Però dobbiamo stare ben attenti ad evitare di criminalizzare l’intero mondo musulmano. Chi lo facesse cadrebbe nella trappola dell’Isis, che mira a mostrarsi come il paladino-rappresentante di tutti i musulmani perseguitati dall’Occidente. Più si attacca l’Islam in quanto tale e più l’Isis può erigersi a suo portavoce. Senza peraltro scordare che in Siria e Iraq sono i comportamenti discriminatori dei due governi a spingere i sunniti nelle braccia dell’Isis».
Lei sarebbe favorevole all’intervento militare in Libia?
«No, sono contrario in linea di principio a interventi militari stranieri. Si pensi all’Iraq, che dall’invasione del 2003 è scivolato nel caos e destabilizza il Medio Oriente».
Che fare in Libia allora e come bloccare i profughi?
«Non vedo alternative se non dare fiducia e forza alla mediazione dell’Onu e al suo inviato, Bernardino León, che da tempo cerca il dialogo tra i due governi di Tripoli e Tobruk. La via diplomatica è preferibile alla militare».

La Stampa 30.6.15
Così la Cina fa decollare
la super-banca asiatica
Firmato lo statuto di Aiib: a Pechino il 30%
di R. E.


La Cina ha deciso di lanciare la Asian Infrastructure Investment Bank principalmente per soddisfare la domanda di infrastrutture in Asia, ma anche per rispondere al bisogno il desiderio di tutti i Paesi di approfondire la loro cooperazione». Usa toni da colomba Xi Jinping, ma con la firma di ieri la sfida all’America è lanciata. Ufficialmente. A Pechino infatti i rappresentanti dei 57 Paesi che aderiscono all’Aiib - la banca asiatica a guida cinese - hanno siglato lo statuto che disegna la struttura dell’istituto. Il prossimo passo è la ratifica dei Parlamenti degli Stati firmatari, poi il colosso da 100 miliardi di capitale potrà partire. Secondo i media cinesi, prima della fine del 2015.
Pechino deterrà il 30% del capitale, ma avrà solo il 26% dei voti. Non dominerà, insomma, ma avrà potere di veto, visto che per le decisioni più importanti occorrerà una maggioranza del 75 per cento. Gli altri azionisti principali saranno l’India (con l’8,52% del capitale), la Russia (6,66%) la Germania (4,57%) e la Corea del Sud (3,81). L’Italia, col 2,62%, è al dodicesimo posto.
Parlando alla cerimonia della firma, il ministro della finanze di Pechino Lou Jiwei ha spiegato che la creazione dell’ Aiib «è una importante iniziativa proposta dalla Cina per assumersi maggiori responsabilità a livello internazionale per lo sviluppo economico dell’Asia e del mondo in generale». La valanga di adesioni dalla banca - che avrà come centro delle sue attività l’Asia- rappresenta un successo diplomatico storico per Pechino. L’Aiib infatti tenterà di occupare gli spazi lasciati libero dalle istituzioni finanziarie internazionali, a partire dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionali, per i quali potrebbe rappresentare un concorrente pericoloso.
Nonostante il parere contrario di Washington, infatti, un gran numero di Paesi europei ha deciso di aderire all’ Aiib: oltre a Germania ed Italia, sono infatti presenti tra i membri fondatori il Regno Unito, la Francia e la Spagna.
Il presidente cinese Xi Jinping ha spiegato che, nonostante la nascita del nuovo colosso, Pechino continuerà a supportare le banche multilaterali già esistenti. «Proponendo l’Aiib speriamo anche di incentivare le istituzioni attuali a rispondere meglio alle richieste dei loro membri e ai cambiamenti del sistema economico globale».

Corriere 30.6.15
Summit Europa-Cina per gli investimenti
Li Keqiang: «Priorità nelle infrastrutture»
di Francesca Basso


BRUXELLES Le cifre ancora non ci sono ma la disponibilità, quella sì: «Siamo pronti a lavorare con l’Europa per aumentare la cooperazione sul fronte degli investimenti: vorremmo partecipare al Piano Juncker», ha detto il premier cinese Li Keqiang che ha incontrato per la prima volta i nuovi vertici Ue Jean-Claude Juncker e Donald Tusk al vertice Ue-Cina. In agenda numerosi temi tra cui la discussione delle opportunità di partecipazione al Fondo europeo per gli investimenti strategici (Efsi).
«La Cina — ha spiegato Li Keqiang — è disposta a lavorare con il programma di investimenti dell’Unione europea e fare un passo avanti per lo sviluppo delle infrastrutture», che è uno dei settori indicati come prioritari dal Piano Juncker per il rilancio dell’economia del Vecchio Continente. La definizione dei dettagli e delle modalità di partecipazione della Cina al Piano Ue sono rimandati «a fine settembre, quando il vicepresidente Katainen andrà in missione a Pechino» ha spiegato Jean-Claude Juncker. Al vaglio ci sono «modi multipli» di partecipazione. Il premier cinese ha parlato di «un Fondo congiunto per gli investimenti Ue-Cina» e delle «piattaforme» della Bei. Nelle conclusioni del vertice trova spazio l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), la neonata banca di investimenti asiatica per le infrastrutture a guida cinese: l’auspicio è quello di una «cooperazione futura». Proprio ieri a Pechino c’è stata la firma dell’accordo quadro dell’Aiib, che ne regola la governance e le quote di ciascun Paese mebro: sono in tutto 57. L’Italia ha una quota del 2,62%, che la fa essere il quarto Paese europeo per importanza all’interno del nuovo soggetto finanziario, alle spalle della Germania (4,5%), della Francia (3,4%), e della Gran Bretagna (3,1%). In totale, l’Italia si colloca al dodicesimo posto tra i 57 Paesi che hanno aderito all’Aiib, anche se il 75% delle partecipazioni sono in mano ai Paesi asiatici, con Cina e India in testa con rispettivamente il 30,3% e l’8,52%.
Ci sono grandi aspettative in Europa verso un possibile impegno cinese e a Bruxelles già ci si muove per creare le occasioni di contatto tra investitori e progetti in cerca di finanziamenti. Il 4 giugno scorso si è tenuto un seminario tecnico, organizzato dall’associazione ChinaEu, che aveva come ospiti le banche cinesi interessate ad investire nei progetti sviluppati nel settore dei servizi digitali (Internet delle cose, smart city, smart energy e cloud computing) dalle Regioni e dalle città europee all’interno del Piano Juncker. Intanto ieri Pechino ha siglato con il solo Belgio accordi per 18 miliardi. Il Vecchio Continente rappresenta il mercato più importante per la Cina: l’Unione europea nel 2014 ha importato beni per 302,5 miliardi di euro. Mentre il Dragone è «solo» il secondo partner commerciale dell’Europa, dietro agli Stati Uniti, con una quota pari al 14% degli scambi extra Ue.

Corriere 30.6.15
La Resistenza e la memoria
La strategia dei comunistI
risponde Sergio Romano


Aldo Cazzullo ha scritto che «è il momento di riconoscere che la Resistenza è patrimonio della nazione, non di una fazione». Giustissimo. Ma chi non l’ha voluto per 70 anni? Nel 1954 Pietro Secchia, nel suo libro I comunisti e l’insurrezione , respinse l’accusa ai comunisti di voler «monopolizzare la Resistenza». Lo stesso anno Alessandro Natta cercò invano di pubblicare con Editori Riuniti («disavventura» la definì) il suo libro dall’inquietante titolo L’altra Resistenza , che rievocava la sua vicenda d’internato militare e uscì da Einaudi solo nel 1997, quando il comunismo sovietico era finito da un po’. L’affermazione di Cazzullo è un auspicio, non un fatto. Purtroppo la politica e l’istruzione perpetuano la vulgata contraria all’auspicio di Cazzullo.
Pietro Di Muccio de Quattro

Caro Di Muccio,
Confesso di non sapere che cosa sia effettivamente accaduto in via delle Botteghe Oscure quando Alessandro Natta (futuro segretario del Partito comunista italiano) cercò di pubblicare negli anni Cinquanta le sue memorie sull’anno e mezzo trascorso in uno dei campi di «internamento» dove i tedeschi tennero i militari italiani che rifiutarono di aderire alla Repubblica di Mussolini. Per molto tempo abbiamo conosciuto quella vicenda soprattutto grazie ai ricordi di Giovannino Guareschi, Giovanni Ansaldo e altre persone meno note al grande pubblico. Ma credo che Aldo Cazzullo abbia ragione quando constata la pluralità culturale e politica della Resistenza. E credo che lei abbia ragione quando osserva che il Pci cercò di monopolizzarla svalutando qualsiasi altro apporto.
La strategia del partito comunista obbediva ad almeno due esigenze. In primo luogo occorreva dimostrare che il Pci aveva avuto un ruolo nazionale e non poteva essere accusato di avere servito gli interessi dell’Urss. L’accusa non era del tutto infondata, soprattutto quando furono in causa i confini orientali. Ma Palmiro Togliatti voleva che il partito fosse percepito come una forza nazionale. Non lo chiamò «Partito comunista d’Italia», come dopo la scissione del Congresso di Livorno nel 1921, ma Partito comunista italiano; e volle che sotto il suo nome e dietro la bandiera rossa, apparisse una fettina di tricolore.
In secondo luogo, una Resistenza celebrata e dominata dal Pci doveva sottintendere che la lotta contro i fascisti e i tedeschi era soltanto la fase iniziale di un processo rivoluzionario destinato a rinnovare radicalmente lo Stato e la società. La promessa della rivoluzione rimase, per parecchio tempo, parte integrante della retorica del partito e finì per produrre qualche inconveniente. Fu sempre più difficile per il Pci, con il passare del tempo, dimostrare che poteva essere contemporaneamente un partito rivoluzionario e di governo. Una tale duplicità lo esponeva al rischio di essere poco credibile sia agli occhi di molti moderati, sia a quelli di coloro per cui la rivoluzione era un ideale irrinunciabile. Fu questa almeno una delle ragioni per cui il partito, dopo l’inizio della fase del compromesso storico, fece molta fatica a controllare quella fazione del suo «popolo» stalinista che Rossana Rossanda riconosceva come parenti in un Album di famiglia.
Tutto questo appartiene fortunatamente al passato. Ma il clima e lo stile, nelle celebrazioni del 25 Aprile, restano ancora tenacemente, per molti aspetti, quelli di un tempo. Osservo infine che quella festa ricorda la fine di una guerra civile e che la pacificazione, in questi casi, è possibile soltanto quando tutti riconoscono che dignità e onestà non furono il monopolio dei vincitori.