domenica 14 giugno 2015

La Stampa TuttoiLibri 13.6.15
Waterloo, un trionfo che dimentica il genio prussiano
Lo scrittore Cornwell racconta ora per ora la sconfitta di Napoleone: attribuisce però l’intero merito agli inglesi di Wellington
di Alessandro Barbero


I luoghi comuni sono duri a morire. Nell’immaginario collettivo i tedeschi passano ancora per il popolo più militarista d’Europa, e chissà quanto tempo ci vorrà perchè quella nazione profondamente pacifica riesca a far dimenticare gli elmi chiodati del Kaiser e il passo dell’oca nazista. Non è affatto consueto, invece, associare l’Inghilterra al militarismo, eppure quello è oggi il paese dove il culto delle glorie passate è più vivo, e dove la storia militare è una passione collettiva coltivata con una punta di sciovinismo. Per molti sudditi di Sua Maestà amare la storia significa innanzitutto celebrare con compiacimento una serie ininterrotta di vittorie inglesi, dalle grandi battaglie della guerra dei Cent’Anni alla guerra delle Falkland, passando, naturalmente, per Waterloo. E non si tratta di un hobby per pochi, ma di una componente della cultura popolare: una delle serie televisive di maggior successo in Inghilterra, Sharpe, protagonista Sean Bean, racconta proprio le eroiche avventure di un soldato inglese durante le guerre napoleoniche.
Il creatore di Sharpe, Bernard Cornwell, è un prolificissimo autore di romanzi storici, la cui produzione ha raggiunto livelli addirittura industriali: la serie di Sharpe conta 24 volumi, ma ce ne sono altri 8 ambientati tra gli antichi Sassoni, 3 su re Artù, 4 sulla guerra civile americana, 5 sulla guerra dei Cent’Anni, e altri 11 ambientati in epoche diverse, per un totale di 55 romanzi – più un solo libro di non fiction, appena uscito, su Waterloo. Quest’anno cade il bicentenario della grande battaglia, migliaia di rievocatori in divisa si sono dati appuntamento per farla rivivere in quella che Victor Hugo chiamò la «triste pianura» a pochi chilometri da Bruxelles, e puntualmente le librerie si sono riempite di nuovi libri dedicati all’argomento. Com’era forse inevitabile, quello di Cornwell è l’unico ad essere stato subito tradotto in tutte le lingue, benchè non sia necessariamente il più bello: non mancano segni di una confezione frettolosa in vista dell’appuntamento. E lo stesso vale per la traduzione, affidata a gente beatamente ignara dell’argomento e del relativo lessico, per cui contiene un buon numero di spropositi: ma questo ormai succede regolarmente ai libri di storia militare tradotti in Italia, qualunque sia la casa editrice.
Ma il vero problema del libro di Cornwell è che sembra un pezzo di antiquariato, anziché un libro di storia scritto nel 2014. Negli ultimi anni una storiografia libera da pregiudizi nazionali ha mostrato i limiti della versione tradizionale, anglocentrica, della battaglia, sottolineando che Waterloo fu una vittoria tedesca almeno quanto inglese, e forse anche un po’ di più: c’erano molti più soldati tedeschi che britannici in campo, e senza l’arrivo tempestivo dell’esercito prussiano del vecchio feldmaresciallo von Blücher non c’è dubbio che l’esercito multinazionale del duca di Wellington, in cui si parlavano quattro lingue, sarebbe stato sconfitto. Ma la visione di Cornwell è convenzionale e anglocentrica. Fin dalla prima pagina ripete il vetusto luogo comune secondo cui l’ultimo assalto di Napoleone, la carica della Vecchia Guardia, s’infranse contro la linea inglese «quando i prussiani stavano per entrare in scena a sinistra»: come dire che gli inglesi hanno comunque vinto da soli. La verità è che i prussiani erano entrati in scena da ore, e che avevano combattuto la loro battaglia, separata da quella di Wellington, costringendo Napoleone a impiegare contro di loro quasi tutte le riserve ammassate quel mattino in vista dell’attacco decisivo: per cui la Vecchia Guardia dovette avanzare da sola, con il risultato che sappiamo.
Non è che Cornwell queste cose non le sappia: è che riesce a raccontare la giornata senza metterle in evidenza. Il duca di Wellington disse una volta che la battaglia di Waterloo era stata come un incontro di pugilato: «Mai visto un incontro fra due picchiatori così. Eravamo tutt’e due quello che i pugili chiamano dei ghiottoni» (un termine dello slang sportivo che designava chi non ha paura del corpo a corpo, e si lascia massacrare piuttosto che arrendersi). L’immagine è bellissima, ma la verità è che i pugili sul ring erano tre, e che il peso massimo, Napoleone, venne costretto a gettare la spugna da due pesi medi, con Blücher che lo lavorava ai fianchi impedendogli di usare tutta la sua forza contro Wellington. Ecco, il libro di Cornwell è scritto da un tifoso del pugile inglese, per un pubblico di connazionali: l’avversario e il socio sono messi sotto i riflettori solo quanto basta per celebrare ancor meglio la vittoria del loro idolo.
Pazienza: la storia è di per sé grandiosa, piena di suspence, di emozione, di brivido, soprattutto ora che gli storici hanno imparato a non nascondere gli aspetti più truci del macello. Quando riesce a dimenticare la compassione per quei poveri francesi, destinati a rompersi le corna contro l’invincibile fanteria inglese, e si ricorda che quel giorno Napoleone è stato fino all’ultimo sul punto di vincere, anche Cornwell riesce a tenere il lettore col fiato sospeso, come se non sapesse già dall’inizio come è andata a finire.
* Alessandro Barbero, storico e romanziere, ha pubblicato una storia di Waterloo (Laterza)