sabato 6 giugno 2015

La Stampa 6.6.15
Un dilemma che non si può più ignorare
di Vladimiro Zagrebelsky


Una nuova sentenza della Corte europea dei diritti umani giunge ad alimentare di argomenti il dibattito sul fine-vita. L’influenza delle sentenze della Corte europea sulla legislazione di tutti gli Stati europei può far sperare che la sentenza riapra la discussione per affrontare finalmente la questione. L’estrema e sviante semplificazione del tema ha portato spesso a costringere il tema nel dilemma che oppone semplicisticamente la vita all’eutanasia. Ma poiché si muore sempre e si muore in tanti modi diversi, occorrerebbe esser disposti a distinguere. Distinguere per capire.
Il suicidio deciso da chi lo realizza su se stesso suscita certo compassione, ma rientra nell’ambito dell’autonomia della persona. La discussione riguarda l’intervento di terzi nella fase finale di una vita.
Esso merita considerazione diversa a seconda che la persona che muore sia in grado di assumere una decisione e manifestarla oppure non possa o non possa più; a seconda che esprima una volontà attuale oppure l’abbia fatto in passato e non sia in grado di rinnovarla o revocarla; a seconda che non abbia mai comunicato una volontà, o al contrario l’abbia resa palese in modo espresso oppure abbia solo dato segni, da interpretare per ricostruire la sua scelta. L’intervento di terzi poi può essere un aiuto fornito a chi vuol suicidarsi e non è più in grado di farlo autonomamente, oppure può sostituire l’azione della persona ormai impedita; e può consistere in un intervento letale oppure nella cessazione di trattamenti che mantengono artificialmente in vita. È impossibile discutere tutte queste diverse eventualità come se ponessero gli stessi quesiti e ammettessero le stesse risposte.
Al caso di una decisione medica - adottata secondo la legge francese - di fermare l’alimentazione e l’idratazione artificiali di un malato in stato vegetativo fin dal 2008, si riferisce la sentenza di ieri della Corte europea. La persona, prima di subire un grave incidente, aveva chiaramente e ripetutamente espresso la volontà di non essere tenuta artificialmente in vita nel caso si fosse venuta a trovare priva di autonomia. Ma quando quella situazione si è verificata non ha più potuto confermare quella scelta. La Corte europea, cui si era rivolta la madre del malato, ha innanzitutto precisato che la questione sottopostale non riguardava la liceità di un atto di eutanasia, ma specificamente la questione della cessazione di trattamenti di mantenimento in vita mediante idratazione e alimentazione artificiali. Non quindi il divieto di procurare la morte, ma l’ambito e i limiti dell’obbligo positivo dello Stato di agire per proteggerla in ambito medico. In proposito una maggioranza di Stati europei ammettono la possibilità di arrestare il trattamento ormai «irragionevole», ma non c’è un consenso generalizzato. Il margine di apprezzamento nazionale è perciò largo, purché tutte le circostanze siano attentamente accertate e valutate e un efficace ricorso al giudice sia garantito. Sono queste le condizioni che la Corte ha riconosciuto presenti nel caso specifico. Sia la procedura prevista dalla legge, sia la sua applicazione da parte delle strutture sanitarie e del Consiglio di Stato sono state valutate adeguate e meticolose, cosicché la cessazione dei trattamenti non farà venir meno lo Stato francese ai suoi obblighi. In linea generale si deve concludere che, con garanzie simili a quelle della legge francese, gli Stati europei hanno facoltà di prevedere la cessazione del trattamento artificiale.
La condotta del medico può assumere forme diverse e progressive. Alle essenziali cure palliative fino a che siano utili, si può aggiungere la sedazione profonda e continua, che, accompagnata dalla cessazione dell’alimentazione e idratazione artificiale, assicura di non soffrire e di morire quietamente. Senza ammettere un intervento letale attivo (eutanasia), è questa la soluzione francese, per le situazioni in cui manchi, perché non può più esserci, l’espressione attuale della volontà del morente. Il recente codice deontologico dei medici italiani d’altra parte prevede che nel caso di prognosi infausta o di definitiva compromissione dello stato di coscienza del paziente il medico deve continuare ad accompagnarlo con cure di sedazione del dolore e di sollievo dalle sofferenze «attuando trattamenti di sostegno delle funzioni vitali finché ritenuti proporzionati, tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento» che il paziente abbia rilasciato. La valutazione del momento in cui i trattamenti sono divenuti irragionevoli e non più proporzionati, andrebbe inquadrata in una procedura che non lasci solo il medico curante, eviti decisioni individuali, conforti chi deve decidere con il parere di altri. E assegni alle volontà anticipate espresse dalla persona un peso determinante.
Diverso è il caso della persona che manifesti la volontà attuale e non viziata di morire. Occorre chiedersi se sia lecito vietare di dar aiuto a chi lo chiede: chiede di morire degnamente, nel suo letto, addormentandosi senza risveglio, invece di non avere altra scelta che ricorrere a soluzioni violente e drammatiche.
Una recente importante sentenza della Corte suprema canadese, ha ritenuto incostituzionale il divieto che impedisce al medico di fornire l’aiuto che chiede il malato terminale, soggetto a gravi sofferenze. La Corte ha indicato al legislatore la necessità di stabilire le modalità di accertamento di una tale condizione del malato e ha nettamente distinto l’ipotesi dell’intervento medico dal generale divieto di aiuto al suicidio. Una procedura sicura, infatti, che veda l’intervento di un collegio medico, può escludere che la volontà di morire sia viziata, o impulsiva, o forzata da pressioni e interessi altrui. È questa la sola ragione che permette allo Stato di interferire con la volontà della persona di vivere o morire. E la Corte canadese ha avvertito che la consapevolezza dell’impossibilità di ottenere a un certo punto l’aiuto del medico, lungi dall’assicurare la continuazione di una vita, può anzi indurre ad anticipare un suicidio chi sappia di essere colpito da malattie degenerative, che lo renderanno incapace di provvedere da solo. Fermo il rispetto dell’obiezione di coscienza di chi sia richiesto di aiutarlo a realizzare il suo proposito, non è ragionevole impedire a chi vuole, ma da solo non può morire, di raggiungere lo scopo che potrebbe ottenere se le sue condizioni glielo permettessero. E’ di questi giorni la dichiarazione del fisico Hawking, che, parlando per se stesso, ha detto che mantenere in vita qualcun contro il suo volere è l’umiliazione più grande.
In Parlamento sono state presentate diverse proposte di legge. Il tema, nei suoi vari aspetti, è difficile, ma non è atteggiamento responsabile quello di far finta di niente e lasciare irrisolto un problema non eludibile.