martedì 2 giugno 2015

La Stampa 2.6.15
Il chiarimento che non sì può più rinviare
di Federico Geremicca


I numeri sono numeri, si possono naturalmente interpretare, ma non ignorare. E i numeri di questa tornata elettorale, per quanto riguarda il centrosinistra, sono chiari a sufficienza: il Pd ha vinto in cinque delle sette regioni in cui si è votato. Se si considera quanto avvenuto dall’insediamento di Renzi ad oggi, il bilancio è ancor più netto: il Partito democratico, infatti, ha conquistato 10 delle 12 regioni andate al voto, perdendo la Liguria – certo – ma espugnando territori importanti come Sardegna, Piemonte, Campania.         
Riproponiamo questo elenco solo per dire che sarebbe sbagliato non tenerne conto. Infatti, che il Pd sia passato da una situazione che in partenza vedeva i due schieramenti alla pari (al governo in sei regioni ciascuno) a quella attuale, non è cosa da sottovalutare: soprattutto per il fatto che ciò è avvenuto con il Partito democratico a Palazzo Chigi e in una fase che – per la drammatica crisi economica in corso – resta tra le più difficili dal dopoguerra a oggi.
Sarebbe opportuno, insomma, che gli avversari interni ed esterni del premier-segretario (protagonista di una campagna che è sembrata una sorta di «uno contro tutti») partissero da qui per valutare il proprio e l’altrui risultato. E la conclusione, così facendo, sarebbe abbastanza obbligata: il fenomeno-Renzi non è stato spazzato via con un colpo di spugna, la sua leadership conserva una forza non scontata dopo mesi di crisi e di crescita zero, e il Pd si conferma partito ben radicato su tutto il territorio nazionale, espandendo – cosa inedita – la sua presenza come forza di governo nelle regioni del Sud.   
Poi, come premesso, i numeri vanno studiati e comparati ad altri numeri: interpretati, insomma. E qui, per il premier e per il Pd, arrivano notizie meno rassicuranti. Non può non allarmare, per esempio, la crescita esponenziale dell’astensione: che ha come effetto, tra gli altri, quello di determinare un netto calo del numero dei voti assoluti ottenuti dal Pd rispetto a tutte le più recenti tornate elettorali. Così come non può non far riflettere l’ottimo risultato raggiunto da due dei candidati-governatori meno vicini al premier-segretario (Emiliano e De Luca) o le difficoltà incontrate in regioni storicamente «rosse» come l’Umbria e – ancor peggio – la Liguria.
Ma è del tutto evidente che sono altre due – sostanzialmente – le questioni-capitali che il voto consegna all’analisi di Renzi e del Pd: la tenuta, anzi la crescita, di quello che continua ad essere ipocritamente definito voto antipolitico e di protesta (i consensi, cioè, andati alla Lega e al M5S), e l’estenuante scontro interno al partito, che ha confermato essere – col salto di qualità ligure – questione che Renzi farebbe male a sottovalutare o a lasciar sospesa per troppo tempo ancora. Su entrambi i fronti, infatti, il premier-segretario immaginava forse di esser più avanti, a quasi un anno dalla conquista del Pd, prima, e del governo, poi. L’analisi del voto di domenica, invece, dimostra come i problemi siano ancora lì, sostanzialmente irrisolti.
Particolarmente significativo (e preoccupante), per esempio, dovrebbe risultare l’ottima tenuta dell’M5S, non foss’altro che per una annotazione: al momento del suo doppio avvento, infatti, Matteo Renzi venne considerato l’uomo giusto, il leader in grado di fronteggiare Beppe Grillo e prosciugarne i consensi. Così non è stato, o non è stato ancora. Problema di non poco conto: perché se un leader giovane e risultati di governo non insufficienti non sono riusciti a far rientrare il voto «di protesta» ai Cinque stelle, allora è lecito chiedersi su cos’altro il Pd potrà puntare...
Ma ancor più stringente, per Renzi, è la modulazione del rapporto con la minoranza interna al Pd. Le 48 ore precedenti il voto, come è noto, sono state segnate dal durissimo scontro tra il vertice del partito e Rosy Bindi. Sulla presidente della Commissione antimafia sono piovute accuse che giustificherebbero una sua immediata espulsione dal Pd, cosa che non accadrà. D’altro canto, la minoranza del Pd ha contestato per mesi al segretario del proprio partito di aver sottoscritto accordi segreti e inconfessabili col «nemico numero uno», Silvio Berlusconi. Il livello di fiducia reciproca e di lealtà nei rapporti, insomma, è ormai da tempo ai minimi termini: così non si potrà andare avanti a lungo. E l’«esperimento» ligure, ora, è lì a dimostrare quanto improvvisi e traumatici sviluppi possano esser rischiosi e dolorosi per l’una quanto per l’altra parte in guerra...