venerdì 26 giugno 2015

La Stampa 26.6.15
Nell’eterno presente di Mr Molaison
i segreti della nostra memoria
La neuroscienziata Suzanne Corkin racconta il caso del paziente americano che non riusciva a fissare i ricordi e doveva ricominciare la vita ogni giorno
di Piero Bianucci


Il cervello di Einstein è il più famoso del mondo ma quello di Henry Molaison è il più studiato. Dal 1953 al 2 dicembre 2008, quando a 82 anni Henry chiuse gli occhi, ogni giorno quel cervello è stato sottoposto a test ed esami clinici. Tuttora la ricerca continua su 2401 fettine di tessuto nervoso congelate e immerse in una soluzione protettiva.
Per un intervento chirurgico che oggi ci sembra folle, Henry Molaison perse la capacità di fissare nuovi ricordi e visse due terzi della sua esistenza in un eterno presente. Al suo cervello dobbiamo quasi tutto ciò che si sa sul funzionamento della memoria. Henry ci ha fatto capire che noi siamo, letteralmente, i nostri ricordi. L’identità personale è una somma di memorie. Non poter trasformare il presente in passato sotto forma di ricordi, significa uscire dal tempo. Non è morire, ma non è vivere. La recherche di Proust e il racconto di Borges su Funès el memorioso, l’uomo che ricordava tutto, appaiono sotto una nuova luce.
L’operazione
Henry era un ragazzo americano come tanti. Nato nel 1926 nella cittadina di Hartford nel Connecticut, aveva una passione per le armi e per gli aerei, pur avendo fatto solo un breve volo quando era tredicenne. Dopo una caduta dalla bicicletta incominciò ad avere crisi epilettiche sempre più gravi. In casi estremi all’epoca si ricorreva a interventi per rimuovere le zone cerebrali che sembravano all’origine degli attacchi. Fu ciò che tentò William Scoville, neurochirurgo eticamente spregiudicato: asportò dal cervello di Henry i lobi temporali e gran parte degli ippocampi. Le crisi epilettiche si attenuarono ma la vita di Henry rimase spezzata. Qualsiasi esperienza in lui svaniva dopo pochi minuti. Conservava intatti i ricordi fino al giorno dell’intervento ma aveva perso la capacità di fissarne di nuovi. Dotato di un carattere gentile, affrontò questa terribile amnesia con rassegnata dolcezza.
La straordinaria vicenda di Henry Molaison e della sua memoria bloccata nel 1953 all’età di 27 anni dal bisturi del neurochirurgo Scoville è ora narrata con l’emotività di un romanzo e insieme la freddezza di una cartella clinica in Prigioniero del presente di Suzanne Corkin (traduzione di Maria Antonietta Schepisi, Adelphi, pp 432 pagine, €30).
L’ippocampo
Quella che per Henry e i suoi famigliari fu una tragedia, alla scienza offrì l’eccezionale opportunità di capire i meccanismi della memoria. Studiato ogni giorno per più di mezzo secolo prima dalla neurologa Brenda Milner e poi dall’autrice di questo libro nonché da altri 122 scienziati, il caso H.M. (il nome è stato svelato solo dopo la sua morte) ci ha insegnato che per consolidarsi i ricordi devono transitare per un certo tempo nell’ippocampo prima di essere smistati in altre parti del cervello. Ciò ha permesso di caratterizzare e localizzare i diversi tipi di memoria: a breve e lungo termine, lessicale (capacità di richiamare parole), episodica (capacità di evocare fatti), operativa (capacità di eseguire sequenze motorie memorizzate, come andare in bicicletta). Ma la lezione sul ruolo dell’ippocampo che ci viene dal caso H.M. va oltre la scienza: «Un grande regalo che la memoria ci fa – scrive Suzanne Corkin – è la capacità di conoscerci bene reciprocamente. Se non possiamo ricordare, non possiamo nemmeno assistere alla crescita delle nostre relazioni».
La memoria breve, o memoria di lavoro, che utilizziamo, ad esempio, per trattenere un numero telefonico quanto basta a comporlo, dura pochi secondi, e in Molaison era pressoché normale. Aveva anche una buona memoria lessicale, tanto che si divertiva a risolvere cruciverba. La memoria a lungo termine invece funzionava solo per i ricordi più antichi, anteriori all’intervento, non poteva memorizzare eventi successivi né apprendere nuove nozioni, abilità che sono proprie della memoria episodica. Riusciva però a imparare semplici compiti manuali, come smontare e rimontare un oggetto: la memoria operativa era conservata, anche nei malati di Alzheimer è l’ultima a spegnersi.
Il Nobel dimenticato
Lo studio del caso H.M. inizia quando le neuroscienze erano nella loro preistoria e termina con tecnologie sofisticate che, come la risonanza magnetica, permettono di vedere cosa succede nel cervello mentre pensa. Esplorare con ogni mezzo il cervello di Henry ci ha fatto fare passi da gigante. Brenda Milner (97 anni) e Suzanne Corkin (78) sono state candidate al Nobel per aver compreso che l’ippocampo smista i ricordi. Nell’ippocampo teniamo pure le mappe con cui ci orientiamo sul territorio: per questa scoperta nel 2014 il Nobel è andato a John O’Keefe e ai coniugi Moser. La Milner e la Corkin sono state dimenticate. Anche a Stoccolma hanno delle amnesie.