venerdì 26 giugno 2015

La Stampa 26.6.15
Sesso, droga e musica sinfonica
Così la tv toglie il velo alla classica
“Mozart in the Jungle”, la prima serie che racconta la vita delle grandi orchestre
di Alberto Mattioli


Sesso, alcol e droga a Manhattan. Più intrighi, arrivismi e battute ciniche. D’accordo, sono gli ingredienti della solita serie tivù americana (bellissima, per inciso). Ma questa volta tutto si svolge dietro le quinte di un’orchestra sinfonica. E finalmente l’ambientino della musica cosiddetta «classica» viene raccontato per quello che è e non per quello che si crede che sia. Men che meno, per quello che crede di essere.
Altro che immortali pagine dirette e suonate con gli occhi rivolti al cielo. Mozart finisce «in the jungle», nella giungla. Una giungla metaforica e metropolitana, New York, popolata di grandi talenti dall’ego ipertrofico e dai dubbi costumi. Solo che, sorpresa, il contorno a sesso e droga non è il rock and roll, ma la musica «colta».
Posto che la peggiore delle serie tivù americane è migliore della migliore serie italiana, questo Mozart in the Jungle, dal 14 luglio su Sky Atlantic HD e su Sky Arte HD, è da non perdere. Come prodotto televisivo, è eccellente; come descrizione di un mondo, forse esagerata ma veritiera. Infatti è ispirata dal bombastico libro di memorie dell’oboista americana Blair Tindall, intitolato appunto Mozart in the Jungle: Sex, Drugs and Classical Music. Qui la protagonista è una giovane oboista (Lola Kirke, caruccia assai e pure brava) che spera di entrare in una New York Symphony Orchestra che ricorda molto la New York Philharmonic ed è in piena guerra di successione: il vecchio e cinico direttore musicale, Malcolm McDowell, è appena stato promosso «emerito» (leggi: pensionato) per fare posto all’ispanico talentuoso, eccentrico ed eversivo Rodrigo De Souza, un tale che indossa giacche impossibili e arriva alle prove con il pappagallo, interpretato (lui, non l’uccello) da Gael Garcia Bernal con la sfacciata gigioneria richiesta.
E qui, pappagallo a parte, è ovvio che il modello è Gustavo Dudamel, venezuelano, il più fortunato dei giovin direttori che negli ultimi anni hanno terremotato il mondo della «classica» con alterne fortune (e risultati egualmente alterni: alla Scala si ricorda ancora una sua disgraziata Bohème dove, nel pericolosissimo secondo atto, erano tutti fuori come dei balconi).
Per il resto, almeno nelle prime due puntate, c’è il ritratto realistico di un ambiente che può essere ritenuto paludato solo da chi non lo frequenta. Sfilano dunque parecchie figurette ben note. Tipo, in platea, la vecchia scocciatrice perché scartocciatrice di caramelle o, sul palco, il sindacalista che interrompe la prova chiedendo la «pausa pipì», in perfetto stile da teatro italiano. Nella prima sequenza, il concerto d’addio di McDowell suona un violinista niente male, che risulta poi essere il «vero» Joshua Bell nella parte di se stesso.
Invece è assurdo che Rodrigo-Bernal arrivi e sconvolga il cartellone chiedendo di debuttare con l’Ottava di Mahler, perché la sinfonia «dei Mille» è un kolossal tale che non si può certo «metter su» in poco tempo. Però è perfetta la descrizione dell’ambiente di una grande orchestra «made in Usa», con le madame danarose e annoiate che ficcano il naso nelle faccende artistiche invece di pagare e stare zitte e i brillanti comunicatori che inventano slogan dementi per il marketing.
Quanto agli aspetti scabrosi, beh, il sesso c’è, e del resto se così fan tutti, non si capisce perché i musicisti non dovrebbero fare. Molti si fanno anche di droghe varie. Nessuna sorpresa: dati statistici non ce ne sono, ma se sniffano politici e manager, giornalisti e avvocati non si capisce perché non dovrebbero farlo i musicisti, quelli «classici» compresi. Semmai, è abbastanza improbabile che strumentisti e direttori sfornino tante battute brillanti come quelle che si ascoltano qui.
La realtà è che, scesi dal palco, sono personaggi generalmente noiosi, poco interessanti anche perché pochissimo interessati a tutto ciò che non è musica, anzi solo alla musica che fanno loro. Quel che hanno da dire, concesso e non dato che l’abbiamo, lo dicono con le note e solo con loro. Per fortuna.