venerdì 26 giugno 2015

Corriere 26.6.15
Se il melomane d’Oriente va in aiuto all’Opera di Roma
di Valerio Cappelli


Francis Yeoh darà 1 milione di euro all’anno all’Opera di Roma, un teatro uscito da 30 milioni di debiti e ora sulla rampa di lancio con una gestione virtuosa. Ci accoglie nella sua suite dell’hotel in via Veneto mostrando il video su YouTube che racconta le sue gesta, il patrimonio di 17 miliardi di dollari, un giro di affari tra hotel, banche, elettricità, da Singapore a Sydney, da Londra a Shangai. «Ho 15 milioni di clienti nel mondo», dice mentre la sua assistente, che è Miss Malesya (il paese di Yeoh) versa da bere acqua che sembra champagne. Lui è guardato a vista dalla giovane moglie, il mezzosoprano Carly Paoli, di origini italiane: «Ci siano conosciuti due anni fa al matrimonio di mio figlio più grande, l’avevamo invitata a cantare». Gli asiatici stanno investendo in Italia, dal football alla lirica. «Sì — risponde pronto — ma se sei un miliardario e vuoi diventare milionario, ti compri una squadra di calcio. Altrimenti fai come me».
L’Italia della lirica, grazie ai nuovi sgravi fiscali pari al 65 percento, stana gli sponsor privati. Finora si trattava di enti istituzionali. Nel mondo dell’opera il cittadino che investe è una novità. Ci avvicineremo al Met di New York, dove i ricchi hanno il proprio cognome sul retro della poltrona? Per ora il mecenate entrerà nel Cdi del teatro. A proposito, il suo vero nome è Tan Sri Francis Yeoh, «è il titolo che la regina mi diede. Mi chiamo Francesco, come il Papa».
Yeoh, classe 1954, aveva due sogni: «Acquistare un’isola privata e invitare Luciano Pavarotti. Li ho realizzati entrambi». Condizionerà la stagione dell’Opera, o si limiterà a pagare? «Non mi piace pagare per non avere niente in cambio. Finanzierò i progetti per i nuovi talenti». La sua giovane graziosa moglie dovrebbe cantare a Caracalla il 19 luglio assieme a grandi voci nel concerto di benvenuto della città a Francis Yeoh. Ha sostituito i mecenati romani del passato, Papi e aristocratici. Dice che l’Opera di Roma deve tornare «alla sua antica gloria, la lirica è la più alta forma di amore e passione». Tutto bene, purché non incroci i sindacati.