Corriere 26.6.15
Richter, il Michelangelo del piano genio nell’Urss della guerra fredda
di Paolo Isotta
Aveva il suono del più massiccio e più bel marmo di Carrara, il sovietico Sviatoslav Teofilovic Richter, e questo lo stagliava più vicino a un Michelangelo che a qualsiasi altro pianista suo coevo. Nato a Žitomir, in terra ucraina, il 20 marzo del 1915, fu dunque scultore al pianoforte. All’Occidente di lui praticamente ignaro, lo rivelò nell’ottobre del 1960 l’esecuzione e la registrazione del Secondo Concerto di Brahms con l’Orchestra Sinfonica di Chicago diretta nell’occasione da Erich Leinsdorf, strepitoso sostituto all’ultimo momento del leggendario Fritz Reiner. Sul dorso della custodia rossa del trentatré giri RCA, Claudia Cassidy, critica del «Chicago Tribune», testimoniò che «da quando l’arte sovietica ha aperto le porte al mondo occidentale i virtuosi russi in tournée ci andavano dicendo: “Aspettate di sentire Richter!”». Lui, già leggenda in patria, svelò oltrecortina una possanza sonora in fatto mai esperita.
Vladimir Horowitz, che del pianoforte - fra gli alti e i bassi del suo umore - è stato il dio riconosciuto in terra, pare dicesse che dei pianisti russi fosse Richter l’unico a piacergli; e così doveva essere: lui così luciferino seppur dai tratti sublimemente fanciulleschi, Richter al contrario d’una travolgenza sempre soverchiante. Una tecnica dalla rocciosità tale che oggi ha paragoni possibili, mi pare, solo nell’italiano Francesco Libetta e nel russo Arcadi Volodos. In quel Secondo di Brahms è impressionante l’attacco, a battuta 11, della cadenza iniziale avvitata a dita nude nella pietra d’una tastiera che suona di lava incandescente; e a partire da quel La naturale basso, inchiodato col mignolo della mano sinistra, una serie di frecciate verso l’alto come le spire d’un ciborio slanciato da terra a cielo e a terra ripiombante ad ammantare di sé la gloria del Corpo del Signore. Per non dire d’altri consimili episodii e delle terrificanti sedici battute in sottovoce pianissimo e legato, piazzate in mezzo all’Allegro appassionato, temute da chiunque sappia cosa il pianoforte sia e debba essere.
Anch’io ebbi l’occasione di ascoltare il Secondo di Brahms interpretato da lui: incredibilmente, a dodici anni. Dei miei carissimi cugini milanesi mi ospitarono a Milano ed entrai per la prima volta alla Scala: avevano il palco in abbonamento e Sergiu Celibidache dirigeva il sublime Concerto. Potentissima fra le occasioni che mi spinsero a diventare musicista.
Perfino dell’evoluzione dell’arte michelagnolesca Richter è metafora, anche per quegli ultimi anni quando, nelle luci soffuse di palcoscenici appartati, riduceva il gesto al minimo dettaglio che mai però perdeva la potenza d’un tempo evocativa. S’inabissava nella partitura da eseguire come l’aruspice cercasse dentro i visceri; e di lui Heinrich Neuhaus, nella cui classe al Conservatorio di Mosca passò, e passò Gilels, sosteneva essere il genio atteso lungo una vita intera. Quale cultura musicale aveva! Riccardo Muti ha raccontato dei presenti a una serata fra amici, il giorno del proprio matrimonio, come si meravigliassero di Richter, ch’era testimone, avere competenza da tenere quasi testa all’inarrivabile Nino Rota, nella conoscenza d’un repertorio che i più non immaginavano potesse essere suo non sapendo ch’era stato, da giovane, pianista accompagnatore d’opera.
Idem sentire ebbe per la musica da camera, suonata vita natural durante come ai soli giganti è dato amare. Apoteosi ne furono duo memorabili, con David Oistrakh e Mstislav Rostropovich, quintetti tellurici col Quartetto Borodin e un Triplo di Beethoven luminosissimo - coi sodali Oistrakh e Rostropovich - insieme con l’Orchestra Filarmonica di Berlino al suo massimo e ultimo splendore, con Herbert von Karajan.
Oggi, tempo tragico, i più di coloro che allo strumento si dedicano come autistici, senza mai trascorrere per il camerismo, restituiscono all’ascolto del loro solismo una sterilità che solo nella masturbazione ha metafora adeguata. La mia predilezione per Van Cliburn mi ricorda poi, nel 1958, la sua partecipazione alla giuria del primo concorso pianistico internazionale «Ciaikovski» di Mosca, presidente Gilels, che decretò vincitore proprio Cliburn e nella quale sedevano pure Lev Oborin e il maestro Neuhaus. Fu un momento di risonanza planetaria: la prima edizione di quella che da subito fu la più importante competizione musicale internazionale sovietica e sarebbe diventata una delle massime al mondo, assegnò il primo premio a un ragazzo americano facendone ipso facto una leggenda. S’era nella così detta guerra fredda, negli anni che parevano di distensione: non per questo, però, l’episodio ha da meravigliare più di tanto.
Quando tredici anni prima, nel 1945, lo stesso Richter partecipò al concorso Pansovietico, lo scrutinio della giuria aveva assegnato la vittoria a Victor Merzhanov, suo amico più giovane di lui di quattro anni. La commissione si ritrovò di fronte a un verdetto sorprendente, ché Richter era già Richter. Fatto fu che il suo presidente si recò dal ministro della Cultura a chiedere consiglio sulla barra da tenere; sembrava infatti impossibile che Richter non risultasse vincitore. D’accordo il ministro e quindi d’accordo Stalin (senza la volontà del Piccolo Padre nulla si muoveva in Urss), fu deciso che il premio fosse assegnato ai due pianisti ex aequo . Merzhanov non replicò; e nulla si seppe ufficialmente dell’accaduto fin quando lo stesso Richter, la cui devozione alla verità fu religiosa, lo raccontò. Anche per questo egli incarna al pianoforte, in una formidabile adaequatio rei et intellectus , quanto di più alto la Russia abbia dato non solo all’interpretazione ma alla storia della musica. Un miracolo. O forse, oggigiorno, davvero un enigma, siccome dice il titolo del film che Bruno Monsaingeon gli dedicò nel 1998. La sua discografia è immensa e è grazie ad essa - se il Beethoven di Piero Buscaroli ricorda fortunate le culture che quando tutto si polverizza e muore hanno ancora eroi a cui aggrapparsi - che nonostante i Lang Lang ormai potenti al punto che perfino i buoni non si sono rifiutati d’accompagnarli; nonostante Richter sia nato cent’anni fa e abbia lasciato questo mondo da diciotto; nonostante tutto, insomma, fortunati noi.