venerdì 26 giugno 2015

Corriere 26.6.15
Va in scena Sinopoli, lo psichiatra-direttore
Popolizio nei panni del maestro. «Sul palco un dialogo immaginario tra il compositore e Lou Salomé»
di Laura Zangarini


«Amava suonare Wagner, Strauss, Schubert, un certo Novecento, Mahler soprattutto. La musica, per lui, aveva una funzione civile oltre che artistica. Severo, intransigente, maniaco della perfezione, ebbe spesso rapporti conflittuali coi teatri lirici. Quando ruppe col Maggio Fiorentino decise che non avrebbe più diretto in Italia, a eccezione della Scala. L’unica che, a suo dire, garantisse le condizioni artistiche cui era abituato: professionalità, efficienza, serietà». Massimo Popolizio, attore feticcio di Ronconi, il regista scomparso lo scorso febbraio, è il protagonista di La voce di Sinopoli , il grande compositore e direttore d’orchestra cui Valerio Cappelli e Mario Sesti hanno dedicato un appassionato omaggio tra teatro e video, immagini e suoni. L’opera debutterà il 4 luglio alla Fenice di Venezia: sul podio il figlio del maestro, Giovanni Sinopoli.
«Lo spettacolo prende corpo in scena nel dialogo immaginario tra il direttore e Lou Salomé — spiega Popolizio —. Scrittrice, psicoanalista, ma soprattutto ammaliatrice seriale di cuori, Salomé — molto legata a Freud, musa di Nietzsche, amante di Rilke — è al centro dell’unica opera scritta da Sinopoli. Avrebbe voluto rimettervi mano; gliene mancò il tempo. Scomparve all’improvviso nel 2001, a soli 54 anni. Il cuore lo tradì sul podio, mentre dirigeva Aida all’Opera di Berlino».
Era un uomo dalla personalità prismatica, complessa, sfaccettata; unico direttore italiano a dirigere l’intero ciclo del Ring nel tempio di Bayreuth. Laureato in Psichiatria (tesi in antropologia criminale), negli ultimi anni aveva abbandonato la composizione. Proseguì come direttore e si dedicò all’archeologia, allo studio delle civiltà antiche e al collezionismo. «Non collezionava oggetti, ma idee — precisa Popolizio —. I collegamenti che ci sono tra lo scavare nella musica e lo scavare nella storia mi sembrano evidenti». Popolizio invece dentro cosa scava? «Non sono nato con l’amore per il palcoscenico, sono arrivato al teatro perché volevo andare via di casa e tra i molti lavori che ho fatto c’è stato anche quello dell’attore. Credo comunque al “duende”, all’incontro col proprio demone creativo». A proposito di incontri, «quello con Ronconi — ricorda — è stato quello della vita. Se esistono i maestri, Luca è stato il mio. Per me è stato un padre, con tutto quello che questa parola significa. Averlo amato, rispettato, temuto. Alle volte, dentro di me, ho anche desiderato di ucciderlo. Ma era un uomo di un’integrità morale pazzesca».
Un rapporto non privo di increspature. «Amava le sfide, ma soprattutto i rilanci, alzare le asticelle. Ci ha diviso il “troppo”. Quando ci siamo ritrovati, il nostro è stato un incontro d’amore». Progetti? «Sto lavorando a Il prezzo di Arthur Miller, un testo potente, sul rapporto fra un padre e un figlio. Metterò in scena lo spettacolo con la compagnia di Umberto Orsini, Elia Schilton e Alvia Reale. E sono in due serie tv, in una, “Io non mi arrendo”, al fianco di Beppe Fiorello». Domenica scorsa le è stato assegnato il Premio Hystrio. «Ne sono orgoglioso. I premi sono importanti anche se — ride — non bisogna dar loro troppo peso». Qual è il senso del mestiere di attore? «Per me recitare equivale a fare un viaggio nella conoscenza. Il teatro aiuta a conoscere gli altri e se stessi». Si dichiara un introverso: cosa le dà gioia? «Avere gente in teatro, condividere il viaggio sul palco con attori e pubblico. Non faccio teatro per ripetere quello che so, ma per conoscere quello che ancora non so».