La Stampa 26.6.15
Servivano più coraggio e meno fretta
di Andrea Gavosto
Direttore Fondazione Agnelli
Primavera 2016. Sala professori di una qualsiasi scuola secondaria. Ci sono quattro docenti. Il primo è da anni in cattedra in quella scuola e per lui quasi nulla è cambiato con la riforma, se non che ora gli sarà più difficile ottenere il trasferimento in una scuola vicina a casa.
Però, è preoccupato perché avverte tensioni fra i colleghi e il dirigente scolastico, dopo tutte le sparate mediatiche sui «presidi sceriffo». Il secondo è entrato in ruolo a settembre con il piano straordinario di assunzioni previsto dalla riforma, prendendo una cattedra o - come recita il burocratese - «un posto vacante e disponibile nell’organico di diritto». Viene dalle graduatorie a esaurimento (Gae) e finalmente ha il posto fisso. Anche lui è preoccupato: negli anni di precariato ha insegnato pochissimo, perché era indietro nelle graduatorie, e in questi mesi qui a scuola si è accorto che le sue competenze didattiche sono un po’ arrugginite. Nessuno, peraltro, ha mai voluto verificarle né proporgli un aggiornamento. Da persona coscienziosa, si chiede: sono all’altezza delle richieste dei miei studenti? Il terzo è il più insoddisfatto. Viene anche lui dalle Gae e anche lui è stato assunto con il piano straordinario, ma a metà anno, non a settembre. La sua materia è diritto ed economia, però non la insegna, perché nella scuola non ci sono cattedre disponibili e così è finito nei «posti di potenziamento» dell’organico dell’autonomia. Il preside ogni tanto lo manda in classe per una supplenza breve, a coprire un collega assente. Per il resto, fa poco e si sente un prof di serie B. Il quarto, il più giovane, insegna matematica. Ha l’abilitazione dopo il tirocinio formativo, ma non è di ruolo: è un supplente annuale, che la scuola è stata costretta ancora a chiamare - nonostante la maxi-assunzione - perché le graduatorie Gae della sua materia sono esaurite. Divide il suo tempo fra l’insegnamento e la preparazione al concorso appena indetto, passando il quale nei prossimi tre anni forse avrà anche lui il suo posto di ruolo.
Questa storiella esemplare può dare un’idea di come sarà la scuola dopo la riforma a quei lettori preoccupati per il futuro dell’istruzione, per il percorso scolastico dei figli e per il possibile caos organizzativo del prossimo anno (cioè, quasi tutti), ma poco sedotti dai tecnicismi della normativa.
Come ripetiamo da mesi, la Buona Scuola fin dall’autunno 2014 aveva un peccato originale difficile da correggere: una «logica capovolta» che partiva non da una ricognizione dei reali bisogni formativi delle scuole, ma da un pacchetto di assunzioni predeterminato, sostanzialmente confermato fino a oggi. Una logica fondata su due premesse false: che assumendo subito tutti e solo i docenti delle Gae si sarebbe risolto il problema del precariato e che queste assunzioni sarebbero state adeguate a soddisfare - per ogni materia e in ogni area d’Italia - la domanda di insegnamento che viene dalle scuole (ma allora che ci fa lì il supplente annuale della nostra storiella?).
I lettori capiranno anche perché su questi aspetti decisivi la riforma non è emendabile, anche dopo le modifiche apportate con il maxiemendamento, sul quale ieri il governo ha chiesto e ricevuto il voto di fiducia del Senato. Certo, non tutto è da buttare nella Buona Scuola che ora diventerà legge dopo un ultimo passaggio alla Camera. Vanno apprezzate la volontà di tornare a investire sull’istruzione e la scelta di dare una salutare sterzata ai rapporti fra scuola e lavoro. Come pure ci convince la vera novità del maxiemendamento: un modello di valutazione dei presidi che può diventare un contrappeso ai maggiori poteri a loro assegnati; migliorabilissimo, ma coerente con la direzione presa in questi anni dalla valutazione degli istituti e con l’idea di introdurre più merito nella scuola. Non basta, però, e perciò pensiamo che sia stata persa un’altra occasione per migliorare la scuola. Perché questa riforma, che il governo ha voluto approvare frettolosamente all’ultimo respiro per ragioni di ordine politico, manca di una visione strategica chiara di che cosa e come debbano apprendere i nostri studenti nel prossimo decennio, sacrificata all’urgenza di portare a casa a ogni costo quel pacchetto di assunzioni. Un esempio? È buona l’idea di un organico dell’autonomia più ampio e flessibile, grazie al quale incrementare spettro e qualità dell’offerta formativa, dando gambe alla «scuola del pomeriggio». Ma se diventa il refugium peccatorum per i precari a cui non si può dare una cattedra, lo si svilisce e lo si affossa.