giovedì 25 giugno 2015

La Stampa 25.6.15
Dall’ascesa di Matteo all’incubo di un partito dove non ci si parla più
Oggi molti restano dentro, ma in attesa rassegnata
Forse è meglio riconoscere che bisogna dirsi addio
di Federico Geremicca


Cofferati a gennaio, Pastorino a marzo, Civati a maggio, Fassina e Gregori a giugno... Magari non è un’emorragia - come quella dalle urne delle regionali - ma il rubinetto del Pd comincia a perder acqua.
Goccia a goccia, mese dietro mese... Gli ultimi due ad andarsene sono stati la Gregori - giovane deputata di Tivoli - e Stefano Fassina, uno che dal 4 gennaio dell’anno scorso, diciamoci la verità, non era altro che un morto che camminava: politicamente parlando, s’intende.
Il famoso «Fassina chi?», sussurrato da Matteo Renzi ai giornalisti proprio in quel giorno d’inizio anno, determinò le immediate dimissioni da viceministro con Letta del più eretico dei bocconiani: era un’avvisaglia. Restò nel Pd - anzi, ci è rimasto ancora diciotto mesi - ma fu chiaro a tutti che la sua corsa (Renzi imperante) era finita lì. Stagioni di tormenti politici, le uscite di altri «compagni di strada» e l’indifferenza del premier-segretario ad ogni richiesta di cambiar rotta, alla fine hanno convinto Fassina che l’ora era suonata. Era suonata già molto prima, in verità: ma questo nulla toglie alla rilevanza del gesto. E aggiunge qualcosa, anzi, al travaglio che deve averlo accompagnato.
E’ un peccato per chi continua a credere che i partiti e le loro discussioni interne ancora abbiano un senso. Ed è anche una perdita, in realtà: perché non erano in pochi a immaginare che il duello perfetto per le future primarie del Congresso che verrà poteva essere proprio quello tra il «destro» Renzi e il radicalissimo Fassina. Andrà in un altro modo, e vedremo come. Ma per i tanti inquieti che affollano la minoranza Pd, il segnale è chiaro e forte: se molla perfino un dirigente che un anno e mezzo fa era viceministro e prima sedeva in segreteria con Bersani, quale altra strada è percorribile al di là dell’abbandono?
Quando si parla, si scrive o si ragiona intorno a ipotetiche scissioni nel Pd, la reazione dei «lealisti» e dei possibili scissionisti è servita in fotocopia: «Fesserie, va tutto bene, restiamo nella stessa casa». Poco importa che la casa, intanto, perda intonaco, mostri crepe e rischi di andare alla malora. L’importante è resistere un minuto in più dell’avversario. Ed è per questo, in fondo, che quando invece qualcuno molla - oggi Fassina, ieri gli altri - l’atto è accolto quasi come una diserzione, un vulnus all’illusione che sia cosa buona e giusta restare comunque assieme: a qualunque costo e qualunque cosa accada.
Lo confermano, a ben vedere, persino le reazioni all’uscita dal partito di Stefano Fassina, che oggi è accompagnato alla porta con blande solidarietà (Bersani: «Oggi il Pd è più povero»), accuse di codardìa (Guerini: «Abdica alla sfida del cambiamento») e perfino di alto tradimento (Orfini: «E’ stato viceministro sostenuto da Berlusconi, perché se ne va ora?»). Uno che va via, infatti, rovina l’antica e rassicurante favola: «E’ solo dialettica, il Pd è un partito unito». E invece è dall’indigerita ascesa di Matteo Renzi che il Pd non è più unito: e a questo punto, riconoscerlo e trarne qualche conseguenza, potrebbe esser meglio che continuare a far finta di niente.
Perché intendiamoci: il Partito democratico può gestire i suoi affari interni come crede, fingere unità mentre affila i coltelli e simulare - quando riesce - un comune sentire che non esiste più. Se non fosse che il Pd è il maggior partito di governo, amministra Regioni e città e rischia - anzi ha già rischiato - di sentirsi rivolgere la contestazione che solitamente veniva rivolta alla vecchia e litigiosissima Dc: non potete scaricare le vostre divisioni sulle istituzioni, paralizzandole.
In effetti, è paralizzata Roma: e non solo per gli affari di Mafia Capitale, ma per il solito - preesistente e perdurante - duello tra amici e nemici di Renzi. E’ paralizzata la Campania: dove litigi e divisioni hanno reso imbattibile la candidatura di De Luca alle primarie e alla presidenza, col corollario di guai che poi ha generato. Ed è di fatto annientata la possibilità che Renzi apra a confronti e modifiche vere su questo o quel passaggio delicato, visto che la fiducia reciproca è a livelli tali da trasformare un ipotetico dialogo in un campo zeppo di trappole e di tagliole.
Il Partito democratico, dunque, può gestire fino a un certo punto i suoi affari interni come crede: oltre quel punto, infatti, pagherà - perché lo avrà fatto pagare al Paese - un prezzo che rischia d’esser alto. Saggezza e realismo consiglierebbero scelte conseguenti e chiare, da parte d’un fronte e dell’altro. Chiare come la decisione degli «scissionisti» - Cofferati, Civati, Fassina e altri - di riunirsi sabato 4 luglio per aprire la via a un nuovo soggetto politico. E chiarezza per chiarezza, si immagina che fissare il «battesimo» della creatura proprio nel giorno dell’americanissimo e capitalissimo «Independence Day», sia stato solo un caso. A meno che, naturalmente, anche loro non abbiano una indipendenza da festeggiare...