La Stampa 22.6.15
Senza intesa regaleremo la Grecia a Putin
di Marta Dassù
Due giorni fa, in visita all’Expo, un vecchio amico americano mi ha detto con l’usuale franchezza: «Se l’Europa avesse una visione geopolitica, la crisi greca sarebbe stata risolta da un pezzo».
In questa rapida frase, c’è un punto importante da cogliere: viste da Washington, le ragioni per tenere la Grecia ancorata all’euro non sono tanto economiche (si tratta, come ormai ripetiamo a memoria, del 2% o poco più del Pil europeo) ma sono politiche. Considerate le difficoltà della Turchia, data la gravità della crisi del Mediterraneo e di fronte alle persistenti fragilità dei Balcani, «perdere» anche la Grecia, regalandola di fatto a Vladimir Putin, equivale a un lusso che l’Europa non può permettersi e che l’America considera insensato. E difatti, dicono gli amanti dei retroscena, Barack Obama ha dato proprio questo messaggio alla Cancelliera tedesca: prendi tu in mano la crisi greca, a noi interessa che venga risolta.
Il governo Tsipras ha capito benissimo di quale partita si tratti. E infatti – per sottolineare l’importanza geopolitica del dossier greco – ha giocato una sua carta russa, ad effetto ma in verità abbastanza spuntata (Putin potrà anche cedere pezzi di gasdotto ad Atene ma non sostenere i costi a lungo termine di una rianimazione della Grecia). Parallelamente, Atene ha indicato nella Germania, anzi in Angela Merkel, il vero interlocutore. Non c’è da sorprendersi, quindi, se l’ultima proposta negoziale della Grecia, in vista della riunione dell’eurogruppo di oggi, sia stata rivolta direttamente alla Germania (e al suo «braccio destro», la Francia), prima ancora – od accanto – alle istituzioni europee ed internazionali.
La Grecia, come l’America, politicizza la crisi. E riconosce il peso specifico della Germania. L’Europa «fondata sulle regole» dovrebbe fare altrettanto. Dovrebbe finalmente prendere atto, cioè, di avere un interesse geopolitico vero al mantenimento della Grecia nell’euro. Non solo per la ragione a più riprese evocata da Mario Draghi: una volta che si verifichi il default di uno dei paesi membri dell’euro, entreremo comunque in una «terra incognita». E nessuna ipotesi potrà essere esclusa – sebbene, negli ultimi anni, siano state rafforzate le barriere che dovrebbero impedire contagi finanziari. Ma ancora più della volatilità dei mercati, conterà il messaggio politico: è negli interessi comuni di un’Europa che riconosca la fragilità dello snodo fra Mediterraneo e Balcani, tenere la Grecia ancorata.
Su queste basi, un accordo con Atene diventa necessario ed appare possibile. Non a tutti i costi, naturalmente; ma perché – di fatto – è ormai abbastanza ridotta la distanza fra le richieste dei creditori e ciò che il governo greco è in grado di offrire.
Come in tutti i tira e molla della politica internazionale, un compromesso richiede come condizione essenziale un grado sufficiente di fiducia fra le parti: questa sembra, attualmente, la merce più rara. Ed è anzitutto qui che la posizione di Angela Merkel può fare la differenza. Ancora: qualunque accordo in extremis impone uno sforzo reciproco per salvare la faccia della controparte. L’Europa ha il problema di riuscire a recuperare la Grecia senza incoraggiare contagi politici ulteriori (la durezza della Spagna verso Atene, ad esempio, ha molto o tutto a che fare con l’ascesa elettorale di Podemos); il governo di Atene deve recuperare credibilità internazionale senza perdere eccessivo consenso interno.
Sembrerebbe uno sforzo destinato al fallimento, viste come sono andate le cose negli ultimi mesi. Ma che può invece riuscire se l’Europa – messa di fronte alle proprie responsabilità – coglierà finalmente la posta in gioco; e se la Grecia – messa di fronte all’abisso che l’aspetta – trarrà finalmente le lezioni giuste dai molti errori compiuti.
L’altro giorno, a Milano, ho risposto così alla frase del vecchio amico di Washington: «E’ vero, continua a mancare una visione geopolitica unitaria. Dal 2010 in poi, la crisi finanziaria europea ha spaccato l’Europa sull’asse Nord-Sud. Per mezzo secolo, l’Europa era stata divisa sull’asse Est-Ovest. Oggi, e basta aggiungere il dossier migrazione per capirlo meglio, le faglie si sono moltiplicate». Ho detto più o meno queste parole ma ho aggiunto anche che la partita non è stata persa: se proprio dovessi scommettere, punterei su un accordo dell’ultima ora.
Chi si interessa di questioni europee, cita spesso la frase di Jean Monnet, secondo cui l’Europa si è costruita solo grazie alle crisi. Poniamo che resti vero. Ma aggiungendovi un punto essenziale per capire la situazione in cui siamo: la crisi l’abbiamo già vissuta – come Ue – dal 2010 in poi; alcuni paesi, fra cui la Grecia, l’hanno avvertita con una durezza particolare; altri, e anzitutto la Germania, ne sono stati appena sfiorati. E’ indispensabile che i vincitori e i perdenti di oggi riconoscano un terreno comune: l’unico possibile è basato su uno scambio più credibile di quello attuale fra responsabilità (nazionale) e solidarietà (europea). Se ciò non avverrà, le crisi degli ultimi anni saranno state solo l’anticipo della grande crisi europea: quella che ancora non abbiamo vissuto.