La Stampa 22.6.15
Tè, caffè e cioccolato
Così le bevande dei Lumi svegliarono l’Europa
A Parigi una mostra celebra il piacere in tazza e il suo ruolo nella storia intellettuale, sociale e politica
di Alberto Mattioli
Tè, caffè o cioccolato? Tutti e tre, grazie. Sono le bevande che hanno cambiato il mondo. Quando arrivano in Europa, eccentriche perché esotiche, sono rare, costosissime e assai discusse da medici e moralisti (e da medici moralisti), poi conquistano le classi sociali più elevate e infine dilagano in tutte. Fino a diventare il carburante dei Lumi che danno la sveglia al continente.
La storia di questa triplice conquista del mondo la racconta una mostra piccola ma intelligente in uno dei musei più chic di Parigi, il Cognacq-Jay, intitolata appunto Thé, café ou chocolat? e aperta fino al 27 settembre. In realtà, il primo a parlare del tè agli europei è il solito Marco Polo, nel 1298. Nel 1524, dopo aver distrutto l’impero azteco, Hernán Cortés porta in regalo a Carlo V del cacao. Nel 1600, gli inglesi fondano una compagnia delle Indie orientali e due anni dopo gli olandesi fanno lo stesso. Il primo carico di tè nero sbarca ad Amsterdam da Giava nel 1606.
Nel 1644, Pierre de la Roque porta a Marsiglia un carico di caffè e gli strumenti per prepararlo. Nel 1674, a Parigi apre il caffè Procope, così chiamato dal suo proprietario, Francesco Procopio dei Coltelli, cervello in fuga dall’Italia, per la precisione da Acitrezza (il suo locale, per inciso, è ancora lì).
Prodotti di lusso e di prestigio, caffè, tè e cioccolata imperversano nell’alta società. Nel 1660, il matrimonio fra Luigi XIV e Maria-Teresa d’Austria, infanta di Spagna, lancia a corte la moda del cioccolato. Poi nel 1669 arriva l’ambasciatore della Sublime Porta, Aga Mustafà Raca, ed è subito boom del caffè alla turca: «Dei giovani e begli schiavi, vestiti con un ricco costume turco, presentavano alle dame delle ricche tovagliette damascate guarnite con frange d’oro e servivano il caffè dentro tazze di porcellana fabbricate in Giappone», racconta un contemporaneo, altro che una tazzina e via. Sono bevande diplomatiche: nel 1684, la celebre ambasciata del Siam si apre con il dono a Luigi XIV di 1.500 pezzi di porcellana cinese, fra i quali una teiera. A Versailles, comunque, non tutti sono d’accordo. La principessa Palatina, vedova di Monsieur, il fratello gay del Re Sole, dichiara: «Non posso soffrire tutte le droghe straniere; non prendo né cioccolato, né tè, né caffè». Ma era una tedesca malvestita come la Merkel, considerata per niente chic.
E poi, peggio per lei. La moda ormai dilaga e la borghesia emergente fa emergere dei locali ad hoc, quei caffè «manifatture dello spirito» (il copyright è di Diderot) dove si rifà il mondo con una tazzina in mano. Ormai si è capito che tè e caffè vivificano lo spirito, cosicché, se la ride Montesquieu, fra quelli che escono dalla bottega del caffè «non c’è nessuno che non creda di averne quattro volte di più di quando è entrato». Alla vigilia della Rivoluzione, se ne sono ormai impossessate perfino le classi popolari: «Non c’è commessa, cuoca, cameriera che, il mattino, non faccia colazione con il caffelatte», nota un po’ scandalizzato, nel 1782, Le Grand d’Aussy nella sua Storia della vita privata dei Francesi dalle origini a oggi.
Gli scienziati sono divisi. C’è chi accusa le droghe di eccitare non solo lo spirito ma anche i sensi e chi invece sostiene che guariscano ogni malattia. Il caso del cacao è particolarmente controverso. Madame de Sévigné, nel 1671, è drastica: «E’ all’origine di vapori e di palpitazioni, vi lusinga per un momento e poi vi accende di colpo di una febbre continua che porta alla morte». E dire che per noi un cioccolatino fa benissimo allo spirito, quindi anche al corpo.
I religiosi discutono se consumarlo infranga o meno il digiuno; i medici ritengono che faccia ingrassare, quindi lo consigliano a bambini, vecchi e malati ma non «ai sedentari urbani» (già allora?). Intanto le corporazioni litigano: chi ha il diritto di venderlo, gli speziali, i «limonadiers» o i nuovissimi ristoratori? Bisogna aspettare la riforma del 1776 perché la rissa finisca. A proposito, signori del Cognacq-Jay, correggete un errore. Il menu dei «Trois Frères provençaux» che esponete è certo affascinante ma tutt’altro che databile «verso il 1790» come da didascalia, perché vi compaiono ricette intitolate a Marengo (il celebre pollo) e ad Austerlitz, vittorie datate 1800 e 1805.
Intanto, con il business delle bevande calde, parte quello dei «nécessaires» per consumarle. I macinini sono autentici capolavori di ebanisteria, con legni pregiati e argenti. E fra Sèvres, Meissen, Dresda, Capodimonte e così via è una gara a chi fabbrica i servizi più lussuosi, con i servizi segreti mobilitati per carpire alla concorrenza i segreti di fabbricazione. Le porcellane fanno tanto status symbol che è bon ton farsi ritrarre con la tazzina in mano, come la contessa du Barry cui la allunga il moretto Zamor in un bel quadro di Gautier d’Agoty. Luigi XV, che aveva perso la testa per lei (che a sua volta perderà la sua, d’altronde perfettamente vuota, sulla ghigliottina), si divertiva a preparare di persona il caffè dopo le cene per pochi invidiatissimi intimi nel suo «petit appartement» di Versailles.
Insomma, siamo sempre lì, all’amore in tazza. Come chiede la segretaria di Melanie Griffith ad Harrison Ford in Una donna in carriera: «Caffè, tè, me?»